Di Eugenio Capozzi da Il Foglio del 27/09/2019. Foto da articolo
Quando è nato il mostro? Da quando esattamente l’ambientalismo ha abbandonato il suo core business – il miglioramento della qualità della vita umana attraverso la salvaguardia dell’habitat naturale – per trasformarsi in una religione millenarista della dea Gaia? Da quando la lotta all’inquinamento si è trasfigurata in una “crociata dei bambini” “condita da toni apocalittici, in un culto settario che minaccia catastrofi e fine del mondo imminente, predicando al genere umano penitenza per la sua impurità, mortificazione, decrescita economica, povertà? La verità è che fin da quando ha cominciato a prendere forma come cultura politica l’ecologismo ha manifestato una certa tendenza a essere declinato come lotta per la “salvezza del mondo”: non a beneficio della civilizzazione umana, ma in primo luogo da essa. E la ragione di questa tendenza sta nella grande frattura storica nella quale i movimenti e i partiti “verdi” occidentali affondano le loro radici: la grande ribellione generazionale degli anni Sessanta. Le ideologie otto-novecentesche, con i loro sviluppi totalitari, erano state le più potenti espressioni della pretesa gnostica insita nella modernità secolarizzata europea: liberare l’umanità dal male attraverso la costruzione di una società perfetta, senza conflitti né squilibri.
Nella seconda metà del Novecento l’implosione tragica dei totalitarismi o la loro consunzione (come nel caso del comunismo sovietico) generavano un enorme vuoto culturale e psicologico, non compensato dal loro principale antagonista, il modello occidentale di democrazia fondato su mercato, welfare e consumi: troppo lontano da un’idea condivisa di “vita buona” per poter colmare una sete di senso radicale, non più soddisfatta dall’appartenenza religiosa. A quel vuoto i movimenti giovanili dell’epoca risposero – sulla scorta di nuovi ideologi come i pensatori “impegnati” di scuola esistenzialista o francofortese – costruendo un nuovo mito gnostico di liberazione: il rinnegamento della ragione occidentale come strutturalmente imperialista e dominatrice, in favore di un ideale neo-rousseauiano di ritorno dell’umanità all’innocenza primitiva. Questo mito si traduceva da allora in poi in una cultura politica presto egemone tra le nuove élite occidentali: quella che Mathieu Bock-Côté ha definito “utopia diversitaria”. Un relativismo radicale in cui tutto ciò che è Altro rispetto alla tradizione euro-occidentale di civiltà – culture, religioni, condizioni esistenziali, stili di vita – assume in quanto tale un ruolo di modello virtuoso, e anzi salvifico. Il multiculturalismo da un lato, l’idea di una totale autodeterminazione soggettiva in campo biopolitico dall’altro, sono state le architravi del progressismo diversitario, le basi su cui si è consolidata quella che Joseph Ratzinger ha definito la “dittatura del relativismo”.
Ma l’interesse politico per i temi ambientali sviluppatosi a partire da allora ha assimilato lo stesso presupposto antioccidentale, la stessa aspirazione alla purificazione, lo stesso relativismo, declinato come visione antiumanistica del rapporto tra l’umanità e il pianeta. La cultura ecologista era nata in occidente tra Otto e Novecento come reazione agli squilibri causati dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione, e si traduceva in un’idea “conservazionista”: preservare il paesaggio e l’ambiente naturale come patrimonio della civiltà, suo valore aggiunto, elemento non semplicemente naturale ma culturale. Con l’affermarsi del neo-naturalismo proclamato dai contestatori degli anni Sessanta, l’ambiente cominciava a essere considerato come un valore in sé, un Eden a cui ritornare, e l’uomo come un elemento complementare, quando non addirittura un possibile disturbo all’armonia naturale. Nel decennio successivo, poi, il neo-misticismo ambientalista si fuse con il neo-malthusianesimo tecnocratico, da quando nel 1972 il rapporto Meadows del Club di Roma elaborò l’idea dello “sviluppo sostenibile”: la civilizzazione umana può sussistere soltanto se si autolimita (nelle nascite, nei consumi, nello sviluppo industriale), pena uno squilibrio ambientale complessivo dagli esiti catastrofici.
Il terrore instillato dai possibili esiti apocalittici dell’èra nucleare (tanto militari quanto civili) fece il resto. Sicché i movimenti verdi cominciarono fin dalla loro origine (tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta) ad allontanarsi decisamente dal conservazionismo per concentrarsi sull’idea che occorresse fermare una deriva altrimenti inarrestabile verso la distruzione totale della civiltà e della vita sul pianeta, riportando indietro in qualche modo l’orologio della storia. L’ambientalismo si nutrì sempre più di teorie come, appunto, l’“ipotesi Gaia” di James Lovelock (la teoria secondo cui il pianeta è un grande essere vivente, di cui l’umanità è parte non indispensabile) o quella dell’“impronta ecologica” di Wackernagel e Reeves, in base alla quale la civiltà umana è tanto migliore quanto meno modifica e condiziona l’equilibrio ambientale complessivo. Ne deriva la crescente caratterizzazione dell’ambientalismo come teoria della decrescita, anti industrialismo, talvolta esplicito antiumanesimo (come nell’antispecismo animalista). E parimenti una altrettanto crescente tendenza alla sua declinazione in termini dogmatici, una propensione alla condanna di ogni critica al catastrofismo come eresia, e infine la sua riduzione a un rito di purificazione ed espiazione collettivo, con le sue liturgie (l’ossessione del riciclo dei rifiuti tra queste) e i suoi profeti.
La santificazione della giovane Greta come Giovanna d’Arco, vergine e martire, della nuova religione secolare è un esito logico di questa vicenda. Solo uscendo dall’equivoco antioccidentale, neo rousseauiano e relativista da cui l’ambientalismo politico contemporaneo ha tratto molta della sua linfa si potrà tornare a trattare dei problemi di salvaguardia dell’ambiente nei termini e nelle proporzioni a essi adeguati. E soprattutto come parte di un discorso sulla civilizzazione umana, e sui suoi necessari fondamenti spirituali.