Plinio Corrêa de Oliveira, Cristianità n. 85 (1982)
Nel 1980, dal 30 giugno all’11 luglio, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha compiuto un viaggio apostolico in Brasile. Dopo l’importante avvenimento, il professor Plinio Corrêa de Oliveira ha analizzato la reazione del pubblico brasiliano alla visita pontificia – e in modo speciale alla personalità del Pontefice – in uno scritto di particolare importanza. In esso, infatti, sono contenuti elementi atti a permettere lo studio e la interpretazione, mutatis mutandis, di alcuni effetti consueti dei pellegrinaggi apostolici del Santo Padre, nonché, forse, l’oblio in cui è sostanzialmente caduta la tragedia del 13 maggio 1981, così come lo scarso sforzo che è stato compiuto per interpretarne il significato e trarne ragionevoli conseguenze. Inoltre, prendendo spunto dalle considerazioni svolte, l’autore ha sviluppato una serie di importanti osservazioni, svolte alla scuola di san Luigi Maria Grignion di Montfort, il santo missionario francese vissuto a cavallo tra il secolo XVII e il XVIII. Il tutto ha preso corpo in articoli, intitolati A utopia e a mensagem, Volta à torre de Babel?, A ti, caro ateu, O serviço, uma alegria e Obedecer para ser livre, comparsi rispettivamente sulla Folha de S. Paulo del 19-7, 12-8, 31-8, 13-9 e 20-9-1980. Li offriamo ai nostri lettori anche come spunti di meditazione nel corrente mese di maggio. Il titolo comune è redazionale.
«Contro i rinascenti attacchi della malsana utopia» (san Pio X)
Richiamo al realismo cattolico e alla sapienza mariana
1. L’utopia e il messaggio
Circostanze diverse – e assolutamente involontarie – mi hanno impedito, fino a questo momento, di scrivere sulla visita di Giovanni Paolo II in Brasile. Mi metto a farlo oggi, sperando di concludere in un prossimo articolo.
Questa fatica mi è molto gradita. Vedo nella santa Chiesa l’anima della mia anima; e, per così dire, nella mia devozione al Papato l’anima della mia devozione alla Chiesa. Non ho bisogno di dire niente di più per esprimere il sentimento profondo con cui tratto l’argomento.
Schematizzando, la storia dei dodici giorni che Giovanni Paolo II ha passato in Brasile si divide in due parti: a. quanto vi ha detto e vi ha fatto; b. il modo in cui i brasiliani hanno accolto i suoi insegnamenti e i suoi atteggiamenti. Sarebbe naturale che cominciassi dal primo punto, ma le sue allocuzioni occupano un volume di 277 pagine, nella edizione brasiliana che ho fra mani. Inoltre, non mi accontenterò di questa edizione, e intendo studiare la materia proprio sul testo pubblicato da L’Osservatore Romano, organo ufficioso della Santa Sede. Ora, è facile fare il conto del tempo necessario per lo studio – parola per parola – di questi importanti documenti. Mentre sto trovando qua e là spazi per tale studio, non posso, però, prolungare ancora di più il mio silenzio sulle colonne ospitali della Folha de S. Paulo.
Comincio, dunque, dal secondo punto, cioè dalla reazione del popolo brasiliano.
Durante la permanenza di Giovanni Paolo II, il Brasile ha vissuto in uno stato di suspense. Alla televisione, alla radio e sulla stampa, per così dire, si è parlato soltanto di lui. Il pubblico ha assorbito avidamente tutte queste informazioni, e anche quando, impegnato nelle occupazioni quotidiane, il brasiliano non poteva pensare all’illustre visitatore, lo aveva però nel subconscio.
Terminata la visita, questo fenomeno è durato ancora per due o tre giorni.
Poi, gran parte del popolo è tornata completamente alle attività di ogni giorno, così piene di problemi, così cariche di grandi o di piccole minacce, così tirannicamente assorbenti. E una parte molto grande della opinione pubblica nazionale «ha staccato» da quei giorni. Per essa, la visita appartiene ormai al passato, in questi giorni difficili di esclusiva attenzione ai problemi immediati, nei quali conta solamente il futuro.
Ma questo, che è accaduto a una indubbia maggioranza, non coinvolge una minoranza molto notevole di brasiliani, che ha continuato a conservare nell’anima gli echi e i ricordi della visita pontificia. In questa fascia di nostalgici vi sono sfumature. Alcuni – la maggioranza all’interno di questa minoranza – sono stati segnati fino in fondo all’anima dalla presenza di Giovanni Paolo II. Certamente per il fatto di vedere in lui il vicario di Gesù Cristo, ma anche, e in modo molto considerevole, per il fatto di essere stati affascinati da alcuni caratteri personalissimi di Karol Wojtyla. La salute prorompente, l’attività straordinaria – e di così buon umore -, la sicurezza comunicativa, la propensione crepitante al dialogo e all’accordo, hanno dato a molti la impressione che il Pontefice abbia in mente una formula tutta sua per fare cessare il diluvio di preoccupazioni, di rischi e di tormenti che si abbattono sul Brasile e sul mondo. Insieme a questa formula, insinuata dal sorriso affabilmente ammiccante degli occhi e delle labbra, dal tratto disteso della fisionomia ottimistica, e dall’implicito invito rivolto a tutti a sperare e a essere felici, si delineava un metodo inconfondibilmente personale per la applicazione della formula. Doti di Karol Wojtyla, carismi di Giovanni Paolo II, sembravano intersecarsi per trasmettere, nello stesso tempo, la certezza, per così dire telepatica, del successo che otterrà.
E chi lo guardava, aveva la impressione di stare assaporando in anticipo questo successo che l’illustre visitatore «promette». La forza di persuasione che questo successo verrà, aveva più efficacia della sua parola orale oppure scritta. Questa tattica, soltanto un Wojtyla avrebbe le doti, per così dire transpsicologiche, per portarla a compimento. E senza lotte: opera di riconciliazione di tutti i diritti confusi e in conflitto, di tutti gli interessi esasperati e irriducibili, insomma, un dolce paradiso in terra.
Ora, questo messaggio è stato «captato» in profondità dalla popolazione brasiliana, la cui indole psicologica mi sembra fatta per questo. Al brasiliano piace maggiormente capire ascoltando che leggendo; e vedendo, ancora più che ascoltando: così intuitivi siamo.
Credo che il piacere di ricevere, in un contatto personale, questo messaggio ottimistico, spieghi, in larghissima misura, la gioia – che chiamerei frenetica, se in questo aggettivo non vi fosse qualcosa di peggiorativo – che ha preso molte persone semplicemente vedendo il Pontefice entrare, uscire, sorridere, ringraziare, o anche pregare.
Ho la impressione che, nella vasta minoranza, che vive ancora i giorni della visita, questa gioia, lungi dal morire lentamente, si stia sublimando.
Nel popolo più affettivo del mondo – infatti non siamo meno affettivi di quanto siamo intuitivi – vi sono persone che pensano di sentirsi entrare nel regno, nel millennio, nel paradiso terrestre recuperato. Non più incomprensioni, né conflitti di interesse, né lotte, né privazioni: il misterioso ma irresistibile know-how wojtyliano metterà fine a tutto questo assolutamente per sempre.
Il fatto più curioso è che il Pontefice non ha affermato niente di tutto questo, ma nell’anima dei suoi nostalgici esso sta diventando certezza.
Una certezza generosa, tonificante e pacificante, diranno molti. Utopia, temo, perché non vedo come giustificare, sulla base della dottrina cattolica, questa speranza che in alcuni mi sembra si stia formando.
Infatti, la Chiesa ci insegna che questa terra è un luogo di esilio, una valle di lacrime, un campo di battaglia, e non un luogo di delizie. Soprattutto, non esisterà mai questa perfetta e definitiva concordia tra gli uomini. Nostro Signore Gesù Cristo è stato il Principe della Pace. E, senza di lui, ogni pace non è altro che un inganno. Ma di lui fu predetto che era «destinato ad essere causa di rovina e di resurrezione di molti in Israele e a diventare un segno di contraddizione […] e così saranno rivelati i pensieri di molti cuori» (1). E lui stesso ha detto di sé: «Non pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Io sono infatti venuto a mettere in discordia il figlio col padre, la figlia con la madre e la nuora con la suocera» (2).
Quindi, immaginare un mondo senza lotte e senza avversità è come concepire un mondo senza Gesù Cristo.
Facendo queste affermazioni, ho la impressione di vedere, in lontananza, contorcersi, esasperata, la setta più furibonda, più aggressiva, più intollerante e più intemperante, cioè quella costituita dalla famiglia spirituale di quanti avevano sognato un mondo senza ideologie, senza gerarchie, senza frontiere, senza divise, senza recinti, senza privacy né diritti individuali. Si tratta della famiglia spirituale che predica tolleranza verso tutti, ma odia a morte quanti osano discordare dalla ampiezza esagerata che essa attribuisce a questa tolleranza; di quanti vogliono la libertà di parola e di opinione per tutti, fatta eccezione per chi vuole fare uso della espressione per discordare da essa.
Il ribollire di questa rabbia non mi spaventa. La sento ruggire da quando ho cominciato a pensare. Nella misura in cui sono venuto avanzando nel corso della vita, ho percepito che il suo sguardo pieno di odio, le sue insidie, il sibilo delle sue calunnie mi seguivano incessantemente, in un crescendo implacabile.
Come posso concordare con il fatto che Giovanni Paolo II sia visto, in quanto Papa, come il Dottore di questa utopia, e, in quanto Karol Wojtyla, come il luogo dove si condensano e si teletrasmettono, a livello mondiale, questi effluvi sentimentali?
È impossibile. Al contrario, sono lieto di annunciare, anche prima di avere letto tutte le allocuzioni che ha tenute in Brasile, che nessuna di esse alza davanti al mondo la bandiera di questa utopia.
E, siccome niente mi autorizza a sperare di avere terminato la lettura delle allocuzioni di Giovanni Paolo II entro la prossima settimana, conto di comparire davanti ai miei lettori utopisti presentando loro un messaggio che mi giustifichi. Augusto, splendido e sonante messaggio che si è levato fra gli uomini nel lontano secolo XVII, e che oggi scende dal cielo, dal più alto dei cieli, molto da vicino al trono della Madonna.
Che messaggio! Quanto piacerà alle intelligenze riflessive, alle volontà eroiche e ai cuori puri.
Alla prossima volta, lettore.
2. Ritorno alla torre di Babele?
Nel mio ultimo articolo ho analizzato un aspetto della reazione del pubblico brasiliano di fronte alla personalità di Giovanni Paolo II. Si tratta di una reazione molto estesa, poiché, come enormi vibrazioni, ha percorso vaste masse umane in tutti i settori della opinione pubblica. Tanto uomini di sinistra come di centro oppure di destra, cattolici, protestanti, scismatici, ebrei, buddisti, musulmani, spiritisti, atei, sono affluiti in grande numero per applaudire Giovanni Paolo II, in un tumultuoso moto di gioia. Questo fatto lasciava intravvedere, nelle masse spaventate e variamente torturate dei nostri giorni, la speranza che, a contatto con le doti personali – personalissime – di Papa Wojtyla, avrebbero ricevuto, unitamente a effluvi di ottimismo, di allegria, di semplicità e di salute, un peculiare know-how per risolvere, secondo formule inedite, i problemi di ogni individuo, di ogni famiglia, della nazione intera.
Certamente, nell’animo dei cattolici non vi era solamente questa speranza, ma anche la convinzione che Karol Wojtyla è il successore di Pietro. Ma questa nobile convinzione, fondata sulla fede, era un denominatore comune specifico dei cattolici. Tra cattolici e non cattolici, il denominatore era, il più delle volte, Karol Wojtyla, come persona splendente di specifiche doti individuali; e l’ansia di ricevere, nel profondo abisso della afflizione in cui si trovano, qualcosa che sazi il loro desiderio di serenità, di pace e di abbondanza. Crisi di afflizione – ansie di felicità: l’alternativa è molto divaricante. Dal fondo di queste ansie di benessere, di pace, di serenità, che facevano palpitare milioni di petti umani raccolti vicino a Giovanni Paolo II, mi è parso venire alla luce, attraverso il gioco stesso di questa tensione, il sogno utopistico di una completa felicità terrena, che tanti dei presenti speravano di ottenere, meno da Giovanni Paolo II che da Karol Wojtyla.
Tale ansia mi ha lasciato così, preoccupato, poiché si presenta con un potenziale di ingenuità e una precarietà emotiva della quale qualche demagogo potrà trarre, in qualsiasi momento, sinistro partito.
La concordia senza macchia, la pace perfetta ed eterna fra tutti gli uomini, tutte le nazioni e tutte le dottrine, la felicità totale non sono di questo mondo. In questa terra di esilio, le privazioni, i contrasti, le catastrofi sono inevitabili; e una visione cristiana della vita porta, nello stesso tempo, a limitarle per quanto possibile, e a rassegnarsi a esse perché inevitabili.
Questa dura lezione, così sgradita al neopagano dei nostri giorni, la ricordo in un testo aureo di san Luigi Maria Grignion di Montfort, l’incomparabile apostolo della devozione alla Madonna.
Trattando della eterna lotta tra la Vergine e il serpente, egli ci mostra anzitutto la vita dei popoli come una grandiosa, tragica e incessante guerra tra la verità e l’errore, il bene e il male, il bello e il brutto. Si tratta di una battaglia senza la quale la esistenza terrena dell’uomo, privata del suo significato soprannaturale, perderebbe la sua dignità.
Commentando le parole della Genesi: «Porrò inimicizie tra te e la donna, tra la stirpe tua e la stirpe di lei; ella ti schiaccerà il capo, e tu insidierai il suo calcagno» (3), il grande santo osserva con profondità: «Dio ha fatto e preparato una sola, irreconciliabile inimicizia, che durerà e anzi crescerà fino alla fine: l’inimicizia tra Maria, sua degna Madre, e il diavolo; tra i figli e servi di Maria Vergine e i figli e aderenti di Lucifero; a tal segno che la nemica più terribile del diavolo che Dio abbia mai creata, è Maria, sua santa Madre» (4).
Ed egli passa subito a descrivere la grande guerra che divide l’uomo in modo inesorabile, fino alla fine della storia. Tale guerra non è altro che un prolungamento della opposizione tra la Vergine e il serpente, tra la progenie spirituale di quella e la progenie spirituale di questo: «Sin dal paradiso terrestre […] il Signore le ispirò tanto odio contro quel maledetto nemico di Dio, e le diede tanta abilità per scoprire la malizia di quell’antico serpente, tanta forza per vincere, abbattere e schiacciare quell’empio orgoglioso, che il demonio la teme, non soltanto più di tutti gli Angeli e gli uomini, ma, in certo qual senso, più di Dio stesso» (5).
All’interno di questo quadro, la clemens, pia, dulcis Virgo Maria, che il Dottore Mellifluo, san Bernardo, ha cantato con particolare soavità nella Salve Regina, ci è presentata da san Luigi Maria come una vera torre di combattimento: turris davidica, esclama la litania lauretana.
Nel corso della storia, i figli della Madonna combatteranno fino alla fine del mondo contro i figli di Satana. E la vittoria finale sarà dei primi, grazie all’intervento della Madre di Dio: «Dio non ha costituito soltanto una inimicizia, ma delle inimicizie; l’una tra la Vergine e il demonio, l’altra tra la stirpe di Maria e la stirpe del demonio. In altre parole, Dio ha posto inimicizie, antipatie e odii segreti tra i veri figli e servi della Vergine Maria e i figli e schiavi del demonio: non possono volersi bene tra loro! non ci può essere intesa tra loro!
«I figli di Belial, gli schiavi di Satana, gli amici del mondo – che è la stessa cosa – hanno sempre perseguitato e continueranno più che mai a perseguitare quelli e quelle che appartengono a Maria SS., come un giorno Caino ed Esaù, figure dei reprobi, perseguitarono i loro rispettivi fratelli Abele e Giacobbe, figure dei predestinati.
«Ma l’umile Maria riporterà sempre vittoria sul quel superbo, e vittoria così grande, che riuscirà persino a schiacciargli il capo ove si annida il suo orgoglio; ne svelerà sempre la malizia di serpente; ne sventerà le trame infernali; ne manderà in fumo i diabolici disegni e difenderà sino alla fine dei tempi i suoi servi fedeli da quelle unghie spietate» (6).
Ben inteso, anche i nostri giorni sono stati, sono e saranno scossi da questo terribile scontro, che non coincide necessariamente con le guerre del secolo, ma ha qualche rapporto con esse. E ha soprattutto un rapporto ovvio con le innumerevoli rivoluzioni che hanno scosso l’Occidente, come era stato predetto dalla Madonna a Fatima.
La soppressione di questa lotta attraverso una riconciliazione ecumenica tra la Vergine e il serpente, tra la stirpe della Vergine e la stirpe del serpente, verso una èra nella quale la cessazione utopistica dello scontro porti con sé un accordo tra tutti i diritti, tutti gli interessi, una interpenetrazione di tutte le lingue sotto un governo universale che sarà solamente abbondanza e serenità, ecco la grande utopia contro la quale devono essere messe in guardia le masse. Ecco il regresso (o, piuttosto, la retrocessione) alla orgogliosa torre di Babele, che in ogni modo il neopaganesimo cerca di riedificare. Ecco la bandiera interamente tessuta di illusione e di menzogna con la quale, in tutte le epoche, i demagoghi hanno cercato di trascinare le masse insorte.
Ecco, anche, quale mi è parso essere il pericolo verso cui possono scivolare molti di coloro che, vedendo nel nostro illustre visitatore di poco fa, non – o almeno non tanto – l’augusto vicario di Cristo, ma un atleta oppure un demiurgo in materie socio-economiche, a forza di riporre la loro fiducia nell’uomo, possono finire per sottovalutare o per dimenticare che è il vicario di Dio.
3. Per te, caro ateo
«Caro»? L’aggettivo può essere causa di meraviglia per lettori che, attraverso gli articoli della Folha de S. Paulo oppure attraverso altri mezzi, da decenni mi vedono combattere l’ateismo, particolarmente nella forma più espansivamente imperialistica che abbia assunto nel corso della storia, cioè l’ateismo marxista. «Caro»: come giustificare, allora, l’aggettivo qualificativo? Mi spiego.
Dio vuole la salvezza di tutti: dei buoni, perché ricevano in cielo il premio dei loro meriti; dei cattivi, perché, toccati dalla grazia, si emendino e ottengano il cielo. In prospettive e a titoli diversi, gli uni e gli altri sono, perciò, cari a Dio. Come possono, allora, non esserli al cattolico? Cari, si, persino quando, per difendere la Chiesa e la Cristianità, il cattolico li combatte. Un crociato avrebbe potuto chiamare con assoluta sincerità «caro fratello» il musulmano, nel momento stesso in cui incrociava duramente le armi con lui per la riconquista del Santo Sepolcro.
La espressione acaro ateo» è, dunque, valida. E comporta persino significati sfumati. Infatti, l’ateismo presenta sfumature. A ciascuna di esse corrisponde, naturalmente, un significato specifico dell’aggettivo «caro». Così, vi sono atei che gioiscono della convinzione secondo cui «Dio non esiste». A tale punto che, se qualche fatto evidente – per esempio, un miracolo clamoroso – li convincesse del contrario, potrebbe tranquillamente accadere che cominciassero a odiare Dio, e, se fosse possibile, persino a ucciderlo.
Altri atei sono a tale punto impantanati nelle cose della terra, che il loro ateismo non consiste nel negare che Dio esista, ma nel disinteressarsi completamente dell’argomento. Se è perspicua la distinzione, non sono «atei» nel senso più radicale e, per altro, corrente della parola, ma «a-tei», ossia «laici». Concepiscono la vita e il mondo senza Dio. Nel caso si provasse loro che Dio esiste, vedrebbero in lui un essere «con il quale o senza il quale il mondo va tale quale» (7). La loro reazione consisterebbe nel decretare contro di lui un totale e perpetuo bando dagli affari terreni.
Ma vi è un terzo genere di atei. A esso appartengono quanti, afflitti dalle fatiche e dalle delusioni della vita, e vedendo giustamente, per amara esperienza personale, che le cose di questa terra non sono altro che «vanità e afflizione di spirito» (8), gradirebbero che Dio esistesse. Ma, urtando contro i sofismi dell’ateismo, ai quali un tempo hanno aperto l’anima, paralizzati dalle abitudini mentali razionalistiche alle quali hanno ancorato la mente, ora avanzano a tentoni nelle tenebre, senza riuscire a trovare il Dio che un tempo hanno rifiutato. Quando medito sulla apostrofe di Gesù Cristo: «Venite a me voi tutti, che siete affaticati e oppressi e io vi consolerò» (9), penso in modo più particolare a questo tipo di atei; e mi viene voglia in modo più particolare di chiamarli «cari atei».
Ecco spiegato quali sono gli atei ai quali particolarmente dirigo queste riflessioni.
Tuttavia non tengo presenti solamente loro, ma altri lettori, e altri ancora, e molto più specialmente cari. Cioè, alcuni fratelli nella fede cattolica, membri come me del corpo mistico di Nostro Signore Gesù Cristo, che, avendo letto il riferimento da me fatto alla spiritualità di san Luigi Maria Grignion di Montfort, nell’articolo Ritorno alla torre di Babele?, hanno desiderato che dicessi qualcosa di più sull’argomento attraverso le colonne della Folha de S. Paulo.
Scrivo, dunque, questo articolo per questi ultimi. Ma con gli occhi rivolti ai primi. Lo faccio su questo giornale, così coerente con i principi di libertà di pensiero che professa, da dare con comprensione uno spazio a me – che certamente non sono un liberale! – perché in questo spazio io dica ciò che mi pare. Pensando ai miei articoli, inseriti tra tanti altri di indirizzo assolutamente opposto, mi sembra di vedere la Folha de S. Paulo rivolta al pubblico con in pugno uno stendardo – non certo lo stendardo rosso con il leone della TFP! -, sul quale si possono leggere queste parole di Voltaire, ultraliberali e pure esemplarmente logiche nella prospettiva liberale: «Non concordo con una sola parola di quanto dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirle».
Questo è pluralismo coerente. Ne sono agli antipodi tanti giornali brasiliani che, a parole, si vantano del loro pluralismo, ma rifiutano il sia pure minimo spazio a una informazione – persino a una minima notizia – relativa a movimenti antipluralistici. Come se il pluralismo fosse assurdamente non pluralistico, e non consistesse nella libertà di dissentire. Si direbbe persino che, in tali giornali, vi sia un ufficio politico posto a spazzare dalla pubblicità il pensiero «eretico» antipluralistico.
Come sarebbe più autentica, più valida dal punto di vista intellettuale e di più ampio respiro la democrazia brasiliana, se tanti giornali brasiliani seguissero la linea di azione enunciata in quella frase di Voltaire!
Parlo ora agli atei particolarmente cari, nella speranza di toccare a fondo la loro anima, nello stesso testo in cui parlo ai miei carissimi fratelli nella fede.
Immaginati, caro ateo, in qualcuno di quegli intervalli della vita quotidiana di un tempo, nella quiete dei quali salivano alla superficie dello spirito le impressioni piacevoli e profonde che l’impegno del giorno, carico della polvere della vita comune e del sudore dello sforzo, aveva soffocato nel subconscio. Erano i lunghi momenti di riposo, nei quali le nostalgie di un passato gioioso, il fascino e le speranze del presente duro ma luminoso, e le fantasie tante volte perfide si trasformavano in gradevole canzone per distendere l’anima «tranquillamente […], in quell’incanto dell’anima, lieto e cieco, che la fortuna non lascia durar molto» (10).
Negli attuali ridotti momenti di riposo, al contrario, viene alla superficie la sarabanda nevrotica delle delusioni, delle preoccupazioni, delle ambizioni scomposte e degli esaurimenti estremi. E su questa sarabanda plana una domanda nascosta, plumbea, oscura: perché vivere?
Chiudo questo articolo sotto il segno di questa domanda. Al prossimo, caro ateo.
4. La gioia di servire
Ritorno a bussare alla tua porta, caro ateo. Nel mio ultimo articolo ti ho immaginato pensoso, depresso, sul tema «se vale la pena di vivere».
Immaginati, allora, che al tuo spirito colpito dalla vita, incallito o persino piagato, febbricitante, appaia una figura di quelle che sognava la tua innocenza infantile morta tanti anni fa, una regina tutta maestà e tutta sorriso, che, per aiutarti, ti conduce per mano dentro ai raggi della luce iridata, pacificante e radiosa che la circonda, in una atmosfera che, tanto è pura, sembra olezzare di tutti i profumi della natura: fiori, incenso, non so che più. E tu, caro ateo, ti lasci attirare. Cammini fissando questa figura ancora più bella delle luci che la circondano, e più odorosa dei profumi che esala. Doni magnifici che ella riceve da un fuoco invisibile ma sovrano, con il quale non si confonde, ma che in ella traspare.
Le tue amarezze sono dimenticate. Senti quanto vi è di fatuo nella loro confusione. Capisci che, incommensurabilmente oltre la sfera del quotidiano, nel quale esse impazzano e pullulano, vi è un ordine dell’essere eccelso e tranquillo, dove infine potrai entrare. Ti rendi conto che soltanto in esso troverai quella felicità che cercavi tra i vermi, ma che, in realtà, abita oltre le stelle.
Fissi sempre di più la Signora, e comincia a sembrarti di conoscerla già. Cerchi nella sua fisionomia qualcosa che ti pare profondamente familiare. In un che dello sguardo, in una certa particolare nota di affetto nel sorriso, in qualcosa della sicurezza che irradia, ricca di espressioni sottintese di affetto, riconosci certi lampi spirituali ineffabili che vedevi nei più generosi slanci spirituali della madre terrena che hai avuto oppure che – a causa delle innumerevoli forme di orfanezza, nel mondo attuale – della madre che vorresti avere avuto.
Fissi lo sguardo, e vedi ancora di più. Non soltanto una madre, la tua, ma qualcuno – Qualcuno – che rappresenta la quintessenza ineffabile, la sintesi amplissima di tutte le madri che sono esistite, che esistono e che esisteranno. Di tutte le virtù materne che la intelligenza e il cuore dell’uomo possano conoscere. Ancora di più, di quei gradi di virtù che soltanto i santi sanno trovare, e ai quali soltanto loro sanno accostarsi, volando sulle ali della grazia e dell’eroismo. È la madre di tutti i figli e di tutte le madri. È la madre di tutti gli uomini. È la madre dell’Uomo. Sì, dell’Uomo-Dio, del Dio che si è fatto Uomo nel seno verginale di questa Madre, per riscattare tutti gli uomini. È una Madre che si definisce con una parola – il mare -, che, a sua volta, dà origine a un nome. Un nome che è un cielo: è Maria.
Attraverso di lei ti vengono, dal sole divino, infinitamente superiore, ma che in lei sembra abitare – come i raggi di un sole sembrano dimorare nelle vetrate -, ti vengono, dico, tutte le grazie, tutti i favori. Tu implori, e ti vedi esaudito. Tu desideri, e ti vedi soddisfatto. Dalla profondità della pace che comincia a toccarti e a circondarti, senti nascere una forma di felicità che è il contrario radioso di quella che, fino a poco fà, cercavi freneticamente. Questa felicità terrena, se la possedevi, finivi per buttarla da parte, invecchiato, blasé, così simile al bambino che butta da parte i giocattoli che ormai non lo distraggono più.
Nell’egoista frustrato che sei stato, comincia a sorgere, come un giglio che nascesse dal pantano, oppure una fonte in un arenile desertico, qualcosa di nuovo. È l’amore. Non l’egoismo, che è amore esclusivistico di te stesso. Ma l’amore dei principi eterni, degli ideali folgoranti, delle cause elevate e senza macchia, che vedi risplendere nella dama ineffabile, e che cominci a volere servire.
Servire, dedicare te stesso, immolare te stesso, e tutto quanto ti appartiene, ecco il nome della tua nuova felicità. Questa felicità la trovi in tutto quanto evitavi: la dedizione non ricompensata, la buona volontà incompresa, la logica derisa da ipocriti oppure ignorata da sordi volontari, il confronto con la calunnia che ora ulula come un uragano, ora agita discreti sonagli come un serpente, ora, infine, mente come una brezza tiepida e carica di miasmi fatali. Ora la tua gioia consiste nel resistere a tanta infamia, nell’avanzare, nel vincere benché ferito, rifiutato, ignorato. Tutto per il servizio della Signora «ravvolta nel sole, e la luna sotto i suoi piedi, e sul suo capo una corona di dodici stelle» (11). Al suo servizio, sì, e di quanti la seguono.
Pensavi che la felicità stesse nell’avere tutto. Verifichi ora che, al contrario, consiste nel darti completamente.
Ti spaventa, forse, il timore che io stia sognando e che ti stia facendo sognare con queste righe che, eventualmente, la tua benevolenza avrà immaginato sapide. Orbene, non sogno, non ti faccio sognare e non sono splendenti le righe che hai letto.
Come sono spente, al contrario, in confronto al libro che ho citato nell’articolo Ritorno alla torre di Babele?, cioè il Trattato della vera devozione a Maria, di san Luigi Maria Grignion di Montfort! In esso, il famoso missionario della fine del secolo XVII e dell’inizio del secolo XVIII – i cui seguaci furono gli chouan, eroi della lotta contro la Rivoluzione francese atea e ugualitaria, della fine dello stesso secolo XVIII – ha fondato, basandosi sulle più solide verità della fede, e attraverso un modo di ragionare impeccabilmente logico, il profilo della santità di Maria. Egli ha analizzato a fondo il significato della sua maternità verginale, la sua parte nella redenzione del genere umano, la sua posizione come regina del cielo e della terra, come corredentrice degli uomini e come mediatrice universale delle grazie che ci vengono da Dio. Come anche delle preghiere della umanità sofferente a Dio onnipotente. Il santo analizza, alla luce di tutto questo, la provvidenza di Maria, e come questa provvidenza abbia a tale punto amorosamente in vista ogni uomo, che la Madre dell’Uomo-Dio ama ciascuno di noi con un amore maggiore di quello con cui tutte le madri del mondo amerebbero il loro unico figlio.
Ho deciso di scriverti, per attirarti a considerare questi grandi tesori, questi grandi pensieri e queste grandi verità. Nello stesso tempo, soddisfo il desiderio di diversi fratelli nella fede, che desiderano solamente averti in mezzo a loro, ben vicino … a lei.
Se è piaciuto alla grazia benedire le mie parole, hai sentito in te qualcosa come una musica lontana, a tale punto consonante con te, con le tue aspirazioni più vive, che si direbbe che è stata composta per te. E che, da parte tua, hai, o sei, una sete di armonia, sei nato per darti a essa.
In una parola, sei ordinato a lei, e senza di lei sei soltanto disordine.
E se, nella grande armonia dell’universo, persino il più
insignificante granello di sabbia, la più anonima goccia di acqua, oppure l’ultimo e il più attortigliato verme della terra ha il suo posto e la sua funzione, non coinciderà con questo ordine dell’universo – o, piuttosto, con i suoi pinnacoli più alti – l’insieme di verità che ti ho appena presentato attraverso metafore, e che san Luigi Maria Grignion di Montfort deduce, con la più sana e rigorosa coerenza, dalla fede cattolica, da quella fede che, dal canto suo, san Paolo ha definito come «culto ragionevole» (12)?
Se tutto questo panorama che ti ordina, e senza il quale sei soltanto caos, è falso, allora nell’universo, esso stesso così sommamente ordinato, tu sei – ogni uomo è – un essere fuori posto, sconnesso, perdonami il tono prosaico, ma sei – e ogni uomo è – escrescenza, una verruca, un cancro, una catastrofe. Prima tu; poi noi, poi tutti gli uomini, che, in quanto uomini, siamo tuttavia il vertice regale di questo ordine!…
Credere che le cose stiano così, credere in una così mostruosa contraddizione posta al vertice stesso di un ordine tanto perfetto, questo è certamente irrazionale. Costituisce la apoteosi dell’assurdo.
5. Ubbidire per essere libero
No, caro ateo. Facendo eco lontana alle parole del vescovo san Remigio in occasione del battesimo di Clodoveo, primo re cristiano dei franchi, ti dico: «Brucia ciò che hai adorato e adora ciò che hai bruciato». Sì, brucia l’egoismo, il dubbio, la apatia, e, mosso dall’amore di Dio, ama e servi e lotta per la fede, per la Chiesa e per la civiltà cristiana. Sacrificati. Rinuncia.
Come? Come lo hanno fatto, in tutti i secoli, quelli che hanno combattuto per Gesù Cristo la «buona battaglia» (13).
E lo farai in modo molto segnalato se seguirai il metodo definito e fondato da san Luigi Maria Grignion di Montfort. Si tratta della «schiavitù di amore» alla Vergine santissima.
«Schiavitù»… Parola dura e insolita, soprattutto per le orecchie moderne, abituate a sentire parlare, in ogni momento, di disalienazione, di liberazione, e sempre più propense a una grande anarchia, che, come uno scheletro con la falce in mano, sembra ridere sinistramente agli uomini, dal limitare della porta di uscita del secolo XX, dove li aspetta.
Ora, vi è una schiavitù che libera, e vi è una libertà che schiavizza.
Dell’uomo che adempiva ai suoi obblighi si diceva un tempo che era «schiavo del dovere». Di fatto, era un uomo posto al vertice della sua libertà, che comprendeva con un atto tutto personale le vie che doveva percorrere, decideva con forza virile di percorrerle, e vinceva l’assalto delle passioni disordinate, che tentavano di accecarlo, di rammollirne la volontà e di sbarrargli il cammino liberamente scelto. L’uomo che, ottenuta questa suprema vittoria, proseguiva con passo fermo nella direzione dovuta, era libero.
«Schiavo» era, al contrario, chi si lasciava trascinare dalle passioni sregolate, in una direzione che la sua ragione non approvava, né la sua volontà aveva scelto. Questi autentici vinti venivano chiamati «schiavi del vizio». Si erano, per schiavitù al vizio, «liberati» dal sano imperio della ragione.
Leone XIII ha esposto questi concetti di libertà e di servitù, con la brillante maestria che gli è propria, nella enciclica Libertas (14).
Oggi si è rovesciato tutto. Come tipo dell’uomo «libero» si considera l’hippie con il fiore in pugno, che girovaga senza fissa dimora e senza meta, oppure l’hippie che, con una bomba in mano, semina il terrore a suo piacimento. Al contrario, si considera come legato, come uomo non libero chi vive nella ubbidienza alle leggi di Dio e degli uomini.
Nella prospettiva attuale, è «libero» l’uomo che la legge autorizza a comperare le droghe che vuole, a usarle come gli pare, e infine … a diventarne schiavo. Ed è tirannica, schiavizzante, la legge che vieta all’uomo di diventare schiavo della droga.
Sempre in questa strabica prospettiva, fatta di inversione di valori, è schiavizzante il voto religioso mediante il quale, in piena coscienza e libertà, il frate si dedica, rinunciando a qualsiasi ritirata, al servizio, pieno di abnegazione, dei più alti ideali cristiani. Per proteggere questa libera decisione contro la tirannia della propria debolezza, il frate si assoggetta, con questo atto, alla autorità di superiori vigilanti. Chi si lega così, per conservarsi libero dalle sue cattive passioni, è oggi soggetto a essere qualificato come vile schiavo. Come se il superiore gli imponesse un giogo che limitasse la sua volontà … quando, al contrario, il superiore serve da guida per le anime elevate che aspirano, liberamente e coraggiosamente – senza cedere alla pericolosa vertigine delle altezze -, a salire fino in cima alle scale dei supremi ideali.
Insomma, per gli uni è libero chi, con la ragione obnubilata e la volontà spezzata, spinto dalla follia dei sensi, ha la possibilità di scivolare voluttuosamente sulla slitta dei cattivi costumi. Ed è «schiavo» chi si piega alla propria ragione, vince con forza di volontà le proprie passioni, ubbidisce alle leggi divine e umane, e mette in pratica l’ordine.
Soprattutto è «schiavo», in questa prospettiva, chi, per garantire più completamente la propria libertà, sceglie liberamente di sottomettersi ad autorità che lo guidino verso la meta alla quale vuole giungere. A questo punto ci porta l’attuale atmosfera, impregnata di freudismo!
San Luigi Maria Grignion di Montfort ha pensato la «schiavitù di amore» alla Madonna in un’altra prospettiva, adatta a tutte le età e a tutti gli stati di vita: laici, sacerdoti, religiosi, ecc.
Cosa fa la parola «amore» coniugata alla parola «schiavitù» in un modo che sorprende, dal momento che questa ultima significa imperio brutalmente imposto dal forte al debole, dall’egoista al misero che sfrutta? In buona filosofia, «amore» è l’atto con il quale la volontà vuole liberamente qualcosa. Così, anche nel linguaggio corrente, «volere» e «amare» sono parole utilizzabili nello stesso senso. «Schiavitù di amore» è il nobile vertice dell’atto con cui qualcuno si dà liberamente a un ideale, a una causa. Oppure, talora, si lega a un altro.
L’affetto sacro e i doveri del matrimonio hanno qualcosa che vincola, che lega, che nobilita. In spagnolo, le manette si chiamano esposas, «spose». La metafora ci fa sorridere, e può fare rabbrividire i divorzisti.
Allude, infatti, alla indissolubilità. In portoghese, e in italiano, si parla di «vincolo» matrimoniale.
Più vincolante dello stato matrimoniale è quello sacerdotale. E, in un certo senso, lo è ancora di più quello religioso. Quanto più alto è lo stato liberamente scelto, tanto più forte è il vincolo, e tanto più autentica la libertà.
Così, san Luigi Maria propone che il fedele si consacri liberamente come «schiavo di amore» alla santissima Vergine, donandole il suo corpo e la sua anima, i suoi beni interiori ed esterni, e anche, persino, il valore delle sue buone opere passate, presenti e future, affinché la Madonna ne disponga, per la maggior gloria di Dio, nel tempo e nella eternità (15). La Madonna, come madre eccelsa, ottiene in cambio, per il suo «schiavo di amore», le grazie divine che elevano le sue operazioni intellettuali fino a una comprensione lucidissima dei più alti temi della fede, che danno agli atti della sua volontà una forza angelica per salire liberamente fino a questi ideali, e per vincere tutti gli ostacoli interiori ed esterni, che a essi indebitamente si oppongono.
Ma – chiederà qualcuno – come potrà mettersi a praticare questa diafana e angelica libertà un frate, già soggetto con voto alla autorità di un superiore?
Niente di più facile. Si è frate per chiamata, o «vocazione», di Dio, perciò il religioso ubbidisce ai suoi superiori per volontà di Dio. La volontà di Dio è volontà della Madonna. E così, qualora il religioso si sia consacrato come «schiavo di amore» alla Madonna, ubbidisce al proprio superiore in quanto schiavo di lei. La voce di questo è per lui, sulla terra, come la voce stessa della Madonna.
Chiamando tutti gli uomini alle vette di libertà della «schiavitù di amore», san Luigi Maria lo fa in termini così prudenti da lasciare libero il campo per importanti sfumature. La sua «schiavitù di amore», così piena di particolare significato per le persone legate con voto allo stato religioso, può essere ugualmente praticata da sacerdoti secolari e da laici. Infatti, contrariamente ai voti religiosi, che obbligano per un certo tempo oppure per tutta la vita, lo «schiavo di amore» può lasciare in qualsiasi momento questa elevatissima condizione, senza ipso facto commettere peccato. E, mentre il religioso che disubbidisce alla sua regola incorre in peccato, il laico «schiavo di amore» non commette nessun peccato per il semplice fatto di contraddire in qualcosa la generosità totale del dono che ha fatto.
Ciò posto, il laico si mantiene in questa condizione di schiavo con un atto libero, implicitamente o esplicitamente ripetuto ogni giorno. O meglio, in ogni istante.
Per tutti i fedeli, la «schiavitù di amore» è, dunque, la angelica e somma libertà con la quale la Madonna li aspetta sulla soglia del secolo XXI: sorridente, attraente, li invita nel suo regno, secondo la sua promessa a Fatima: «Infine, il mio Cuore Immacolato trionferà».
Vieni, caro ateo, convertiti e cammina con me, con tutti gli «schiavi di amore» di Maria, verso questo regno di libertà sommamente ordinata, e di ordine sommamente libero, nel quale ti invita la Schiava del Signore, la Regina del Cielo.
E allontanati dalla soglia sulla quale è il demonio, scheletro che ride in modo macabro, con in mano la falce della libertà sommamente schiavizzante, e della schiavitù sommamente libertaria. Ossia della anarchia.
Plinio Corrêa de Oliveira
Note:
(1) Lc. 2, 34-35.
(2) Mt. 10, 34-35.
(3) Gen. 3, 15.
(4) SAN LUIGI MARIA GRIGNION DI MONTFORT, Trattato della vera devozione a Maria, trad. it., 36ª ed., Edizioni Monfortane, Roma 1981, n. 52, p. 50.
(5) Ibidem.
(6) Ibid., n. 54, pp. 51-52.
(7) In italiano nel testo (ndr).
(8) Eccle. 1, 14.
(9) Mt. 11, 28.
(10) Luís DE CAMÕES, I Lusiadi, trad. it., 2ª ed. con introduzione riveduta e ampliata, a cura di Silvio Pellegrini, UTET, Torino 1966, canto terzo, stanza 120, p.104.
(11) Ap. 12, 1.
(12) «Rationabile obsequium» (Rom. 12, 1).
(13) 2 Tim. 4, 7.
(14) Cfr. Leone XIII, Enciclica Libertas, del 20-6-1888, in La pace interna delle nazioni, insegnamenti pontifici a cura dei monaci di Solesmes, trad. it., 2ª ed., Edizioni Paoline, Roma 1962, pp. 143-176.
(15) Cfr. SAN LUIGI MARIA GRIGNION DI MONTFORT, Consacrazione di sé stesso a Gesù Cristo, Sapienza incarnata, per le mani di Maria.