Di Michele Brambilla
La XXX domenica del Tempo ordinario, nel cui contesto liturgico Papa Francesco chiude il 27 ottobre il Sinodo sull’Amazzonia, offre alla meditazione dei fedeli un brano paradigmatico: la parabola del fariseo e del pubblicano (cfr Lc 18, 9-14).
Nell’omelia della Messa solenne celebrata nella basilica di S. Pietro il Pontefice si sofferma in un primo tempo sulle parole del fariseo, evidenziandone l’inizio promettente e la conclusione esecrabile: «La preghiera del fariseo comincia così: “O Dio, ti ringrazio”. È un ottimo inizio, perché la preghiera migliore è quella di gratitudine, è quella di lode. Ma subito vediamo il motivo per cui ringrazia: “perché non sono come gli altri uomini” (Lc 18,11)». Il fariseo, quindi, si astrae dal resto dell’umanità, si autocelebra in una perfezione del tutto illusoria. «Traboccante della propria sicurezza, della propria capacità di osservare i comandamenti, dei propri meriti e delle proprie virtù», spiega il Santo Padre, «è centrato solo su di sé. Il dramma di questo uomo è che è senza amore. Ma anche le cose migliori, senza amore, non giovano a nulla, come dice san Paolo (cfr 1 Cor 13)».
Proprio per questo il Papa si scaglia con durezza contro chi si ritenga addirittura in “credito” con Dio come il personaggio della parabola: «Sta nel tempio di Dio, ma pratica un’altra religione, la religione dell’io», un culto autoreferenziale caratterizzato da un “pacchetto” di credenze e di pratiche tagliate su misura. «E», ammonisce Francesco, «tanti gruppi “illustri”, “cristiani cattolici”, vanno su questa strada».
Le critiche del Pontefice proseguono denunciando nel fariseo la “cultura dello scarto”: «Si ritiene migliore degli altri, che chiama, letteralmente, “i rimanenti, i restanti” (“loipoi”, Lc 18,11). Sono, cioè, “rimanenze”, sono scarti da cui prendere le distanze. Quante volte vediamo questa dinamica in atto nella vita e nella storia», ripete ancora con scandalo. «Anche cristiani che pregano e vanno a Messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io. Possiamo guardarci dentro e vedere se anche per noi qualcuno è inferiore, scartabile, anche solo a parole. Preghiamo per chiedere la grazia di non ritenerci superiori, di non crederci a posto, di non diventare cinici e beffardi».
La nostra preghiera deve essere, secondo il Santo Padre, come quella del pubblicano, un uomo dal quale l’intero mondo ebraico dell’epoca prendeva le distanze perché i pubblicani riscuotevano le tasse per i Romani, trattenendone (lecitamente, secondo la legge di Roma) una percentuale che poteva renderli molto ricchi. «Quell’uomo che sfrutta gli altri», dice il Papa, «si riconosce povero davanti a Dio e il Signore ascolta la sua preghiera, fatta di sole sette parole ma di atteggiamenti veri. Infatti, mentre il fariseo stava davanti in piedi (cfr Lc 18,11), il pubblicano sta a distanza e “non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo”, perché crede che il Cielo c’è ed è grande, mentre lui si sente piccolo». «E “si batte il petto” (cfr Lc 18,13), perché nel petto c’è il cuore», sede, secondo la cultura ebraica, di tutta l’interiorità della persona. Il pubblicano mette davanti al Signore tutto se stesso, senza presumere degli altri. La tentazione, ieri come oggi, è quella dell’autosoteria, credere di potersi salvare davvero con le sole proprie forze.
Lunedì, 28 ottobre 2019