« Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti. Come avvenne anche nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma, piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti. Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà. In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza e avrà lasciato le sue cose in casa, non scenda a prenderle; così, chi si troverà nel campo, non torni indietro. Ricordatevi della moglie di Lot. Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva. Io vi dico: in quella notte, due si troveranno nello stesso letto: l’uno verrà portato via e l’altro lasciato; due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l’una verrà portata via e l’altra lasciata”. […] Allora gli chiesero: “Dove, Signore?”. Ed egli disse loro: “Dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi” » (Lc 17,26-37).
Queste parole di Gesù si riferiscono a due eventi: la distruzione di Gerusalemme ad opera dell’esercito romano nell’anno 70 dopo Cristo e la fine del mondo. Gesù annuncia un evento terreno per significare attraverso di esso un evento che si situerà al confine tra questo mondo e il mondo a venire.
La distruzione di Gerusalemme fu la fine di un mondo ed essa è il “tipo” della fine del mondo. I cristiani, memori delle parole del Maestro, non si accanirono in una difesa inutile ma fuggirono senza cercare di prendere le proprie cose e senza neppure voltarsi indietro (come fece invece la moglie di Lot: Gen 19,26). Uscirono dalla Gerusalemme terrena per rifugiarsi nell’Arca, come i figli di Noè, cioè per trovare rifugio nella nuova Gerusalemme che è la Chiesa: una città le cui fondamenta sono in cielo, come un albero le cui radici sono in cielo.
L’unica realtà di questo mondo destinata a sopravvivere alla sua fine per essere già ora l’inizio di un mondo nuovo. Se la fine di Gerusalemme fu la fine di “un” mondo e il tipo della fine “del” mondo, questo “tipo” è destinato a ripetersi nella storia tutte le volte che un mondo – una civiltà – finisce.
Pensiamo alla fine dell’impero romano di cui molti storici rivedono oggi i tratti caratteristici e prefiguranti (cfr. Michel De Jaeghere, Gli ultimi giorni dell’impero romano, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2016). Anche allora molti gridarono alla “fine del mondo”, mentre altri, più avvedutamente, vi riconobbero solo la fine di “un” mondo e si preoccuparono di trasmettere efficacemente i semi di una possibile rinascita: sant’Anicio Manlio Torquato Severino Boezio, Flavio Magno Aurelio Cassiodoro e san Benedetto da Norcia. Soprattutto si preoccuparono di lasciare il mondo che crollava, con la sua “spiritualità mondana” per tenere i pieni ben in saldo sul ponte della barca di Pietro che attraversa sicura e inaffondabile le tempeste del mondo, come l’arca di Noè.
Senza voltarsi indietro a lanciare sguardi nostalgici ad un mondo che era ormai finito per non correre il rischio di diventare “statue di sale”.
Il Santo del giorno: San Alberto Magno, vescovo e dottore della chiesa