di Valter Maccantelli
In queste settimane molte pedine si stanno muovendo sulla scacchiera di quella che fu la Libia. A gettare il sasso che ha generato l’onda è stato il maresciallo Khalifa Haftar, capo dell’ENL (Esercito Nazionale Libico), dominus politico-militare della Cirenaica (con “capitale” a Bengasi), che, con un colpo di mano militare, ha tentato di prendere il controllo dell’intero Paese, conquistando la città di Tripoli, sede del GUN (Governo di Unità Nazionale) del presidente Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale come governo legittimo della Libia.
L’offensiva militare di Haftar era cominciata il 4 aprile, ma, dopo una vampata iniziale nella quale sembrava che Tripoli dovesse cadere in poche ore, la situazione sul terreno era entrata in una fase di stallo dalla quale il maresciallo di Bengasi sta provando a uscire ora con la ripresa dell’iniziativa sul campo.
La natura e le ragioni di questa battaglia, solo apparentemente dominata dalla cronaca militare, dicono molto della situazione generale del Paese a cui l’Italia, per ragioni più che ovvie, è davvero molto interessata.
Haftar, profondo conoscitore delle dinamiche del territorio più recondite, non ha sparigliato a caso il tavolo della complessa opera diplomatica internazionale tesa alla ricostruzione per vie politiche di un’unità nazionale che, in realtà, è stata tale solo sotto il pugno di ferro di Muhammar Gheddafi (1942-2011). La Libia non è uno Stato, ma è uno sciame di tribù e di clan che tendono ad aggregarsi e a dividersi a seconda dei coaguli e degli interessi del momento, determinando così lo spostamento dell’asse politico del Paese. A volte basta un ritardo nel pagamento degli stipendi dei miliziani per determinare un cambio di fronte. Una verità che sia i libici sia gli apparati di intelligence dei Paesi interessati ‒ sul punto quelli italiani sono all’avanguardia ‒ sanno benissimo, ma che i politici europei sembrano ignorare.
Quando si parla di tribù si tende a pensare alle carovane di cammelli e alle tendopoli nel deserto: non è così. Si tratta di forze politiche e sociali coese internamente, strutturate e dotate di un’ampia rete di relazioni internazionali almeno a livello regionale, che sono in grado di esprimere istanze economiche, sociali e politiche reali anche se non sempre le declinano in un linguaggio e in un comportamento “ortodosso” secondo i canoni occidentali.
L’offensiva militare delle forze cirenaiche è scattata dopo lunghe trattative che hanno indotto Haftar a credere che una parte delle tribù sostenitrici del governo di Tripoli fossero disposte a passare dalla sua parte: non pensava di dover combattere tanto a lungo perché riteneva che qualcuno gli avrebbe aperto le porte del fortino di al-Sarraj. Lo stallo seguito alla prima offensiva di aprile lo ha convinto del contrario ‒ grande delusione ‒ e quindi l’“uomo forte” cerca, al pari del suo avversario, di coinvolgere altri attori internazionali nello scontro.
Sulle ragioni di questo, lo scontro, tutto sembra più semplice: interessi e potere. Sul versante degli interessi il maresciallo sembra comunque piazzato meglio del presidente. Haftar controlla infatti l’area economicamente più interessante del Paese, ossia quella dei campi petroliferi nella regione orientale, ma, per sfruttarne appieno le potenzialità, ha bisogno del potere, e questo passa per il controllo dell’intera costa e per il riconoscimento internazionale. Al-Sarraj si aggrappa invece al proprio status di governo internazionalmente riconosciuto, ma sa che il sostegno internazionale è volubile e tutt’altro che infinito; pertanto cerca di rendersi, se non proprio autonomo, almeno più robusto. Ma questo richiede armi, oggi formalmente soggette all’embargo decretato dalle Nazioni Unite, e le armi richiedono denaro.
Entrambi i contendenti sembrano avere metà del biglietto vincente e ciascuno vuole il pezzo della controparte. Uno stallo che, nella grammatica politica libica, si può risolvere più facilmente con la forza che con la politica e con le conferenze internazionali, evocate invece come un mantra dai governi europei, quello italiano in testa.
Sotto questo livello in Libia si sta però svolgendo una complessa trama di interessi e di dissidi di natura geopolitica, visto che gli attori locali cercano alleati all’esterno, che la posizione al centro del Mediterraneo della Libia fa gola e che alcuni Paesi preferiscono regolare i propri conti lì piuttosto che a casa propria.
Le operazioni sul campo condotte dalle truppe di Haftar hanno evidenziato una crescita strategica tecnologica: supporto aereo, droni (di fabbricazione cinese), armi anticarro, tutto verosimilmente fornito dai due principali alleati mediorientali, ovvero Egitto ed Emirati Arabi Uniti (EAU).
Anche Parigi fornisce un supporto di altissimo livello all’ENL: nonostante l’embargo, le truppe di Haftar hanno recentemente beneficiato di missili controcarro statunitensi di ultima generazione Javelin, originariamente forniti dagli Stati Uniti d’America alle forze armate francesi.
A tutto questo si è poi aggiunto il sostegno di specialisti in tecniche di combattimento urbano fornito dalla Russia.
Egitto, EAU, Francia e Russia vedono infatti in Haftar il possibile nuovo Gheddafi, utile per implementare le proprie agende. L’Egitto vuole mettere in sicurezza la frontiera occidentale, permeabile a infiltrazioni jihadiste dal Sahel; gli EAU cercano di aggiungere un elemento all’egemonia che stanno cercando di esercitare sull’intero teatro mediorientale onde contrastare un eventuale radicamento dei Fratelli Musulmani nel Golfo della Sirte, in questo incoraggiati dall’Arabia Saudita; la Russia vorrebbe ritornare in possesso delle basi libiche che furono dell’URSS, vera spina nel fianco della NATO; e la Francia tutela così propri interessi petroliferi in chiave anti-italiana.
Nel campo di al-Sarraj si sono invece andati consolidando i rapporti con gli Stati che nutrono interessi geopolitici opposti: Turchia e Qatar, che contrastano gli avversari emiratini e sauditi; Stati Uniti e Unione Europea in chiave antirussa; e l’Italia, con una presenza di supporto (un ospedale da campo e strutture di addestramento per la Guardia costiera) a tutela dei propri interessi energetici e di controllo della rotta migratoria del Mediterraneo centrale.
L’ultima novità è l’ingresso a piedi giunti della Turchia nello scenario. Il presidente Recep Tayyip Erdogan si è dichiarato disponibile a inviare in Libia truppe e armi di supporto al governo di Tripoli e, probabilmente, lo sta già facendo. Questa mossa, dettata dal desiderio di Erdogan di accreditarsi come potenza regionale per compensare la perdita di prestigio interno, contrasta in maniera palese con la linea del mero supporto politico dato dai Paesi europei, Italia compresa, e rappresenta una forte tentazione per il presidente al-Sarraj. La lettera che lo stesso al-Sarraj ha scritto ai governi di Algeria, Italia, Turchia, Stati Uniti e Gran Bretagna per chiedere “aiuti di ogni tipo” ‒ in pratica armi ‒ per fermare l’avanzata di Haftar, mette di fatto in mora i Paesi come l’Italia e come la Germania che, per non sporcarsi le mani, puntano su una soluzione diplomatica di tipo tradizionale. In fondo non sarà colpa sua se a questo appello risponderà solo la Turchia e se la Libia diverrà terra ostile verso i suoi timidi alleati europei.
Nel frattempo, il Fezzan, nel sud-ovest del Paese, fuori da tutti i radar perché poco appetibile, sta diventando terra di conquista per la joint venture stretta nel Sahel dalle organizzazioni jihadiste e dalle consorterie criminali internazionali che vedono nell’Europa (tramite la Libia e poi l’Italia) il mercato d’elezione per il traffico di droga, di medicinali contraffatti e di esseri umani, e chissà che in mezzo non ci passi anche qualche terrorista.
Di fronte a questo quadro, le dichiarazioni di questi giorni dalla Farnesina e da Palazzo Chigi non sembrano trasmettere la sensazione che a Roma si abbia contezza delle complessità e della multidimensionalità del problema.
La soluzione per l’Italia non può essere quella di competere sul piano dell’intervento militare diretto, non sostenibile neppure nel breve periodo. Non è però neppure quella, auspicata dal ministero degli Esteri, di delegare la soluzione al tavolo di una conferenza internazionale che si dovrebbe tenere a Berlino in data da destinarsi, alla quale, se mai ci sarà, Roma finirebbe per essere pesata soprattutto per le proprie debolezze. L’Italia in Libia deve in primo luogo individuare con chiarezza alcuni obbiettivi realistici di medio termine – dire che si vuole la pace non basta – e poi perseguirli usando la propria arma migliore: la conoscenza, reale e profonda, del tessuto tribale libico. Solo così potrà sperare di ottenere, nel lungo periodo e con molta fatica, il triplice risultato di difendere il popolo libico da avance criminal-jihadiste sempre più evidenti, tutelare la sicurezza dei propri confini e promuovere i propri interessi nazionali politico-economici nella regione.
Giovedì, 26 dicembre 2019