di Valter Maccantelli
La notte del 3 gennaio un UAV Reaper MQ-9 appartenente alle forze aeree degli Stati Uniti d’America ha condotto un attacco mirato sull’aeroporto di Baghdad, in Iraq, lanciando tre missili contro un convoglio di automezzi militari. Bersaglio principale, come dichiarato poco dopo dal Pentagono, è stato il generale iraniano Qasem Soleimani (1957-2020), comandante della milizia Quds, unità scelta del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione della Repubblica Islamica dell’Iran. Nel corso dell’azione sono stati uccisi anche Abu Mahdi al-Muhandis (1954-2020), capo della milizia irachena filoiraniana Kataib Hezbollah, e alcune guardie del corpo (tra 7 e 15).
Si tratta dell’atto ostile di più alto profilo, fino a ora, nello scontro fra Stati Uniti e Iran dopo il 1979, anno della nascita della Repubblica Islamica. Soleimani era il terzo uomo più potente dell’Iran dopo la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, e il presidente della repubblica, Hassan Rouhani. Anche se la sua attività si svolgeva prevalentemente al di fuori dei confini iraniani, consistendo nel supporto e coordinamento delle milizie sciite filoiraniane operanti in Iraq, Siria, Libano e Yemen, Soleimani godeva di forte notorietà in patria dove, grazie all’appoggio dei Guardiani della Rivoluzione, veniva dato come prossimo candidato alla presidenza della repubblica.
Perché gli Stati Uniti e il presidente Donald J. Trump, che ha espressamente rivendicato l’iniziativa, hanno deciso di compiere un gesto di tale portata nei confronti dell’Iran? Le ragioni possono essere numerose e riguardano piani diversi. La motivazione ufficiale ‒ il fatto che il generale stesse ponendo in atto piani d’azione che avrebbero causato vittime americane ‒, pur nella sua tragica e certa verità, non spiega molto: il gesto non è riducibile a un’operazione di prevenzione del crimine.
Alcuni hanno messo in relazione la mossa di Trump con la situazione politica interna degli Stati Uniti, caratterizzata dall’imminente inizio della campagna elettorale per le presidenziali e dalla recente votazione della Camera per l’avvio della procedura di impeachment. Come motivazione primaria sembra debole: le elezioni sono lontane e, a novembre, per l’opinione pubblica americana sulla tomba di Soleimani sarà già cresciuta l’erba alta. Trump aveva già il proprio trofeo nella lotta contro il terrorismo, il sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi (1971-2019). E l’impeachment, se mai la procedura avrà esito, sembra aver già fatto solo un gran bene all’immagine del presidente americano.
Se uno spot elettorale c’è stato, questo non era dunque destinato al pubblico statunitense, ma ‒ non si può dire se più o meno consapevolmente ‒ a quello israeliano. In Israele il premier uscente Benjamin “Bibi” Netanyahu ‒ fedelissimo alleato e grande amico di Trump ‒ sta attraversando un momento difficile, dopo un ventennio passato alla guida del Paese. Il prossimo 2 marzo Israele voterà per la terza volta in un anno e le precedenti due tornate si sono risolte con un sostanziale pareggio per “Bibi” e un conseguente stallo nella formazione del governo. In un Medioriente sotto pressione, Israele si preoccupa e l’elettorato tende a spostarsi verso chi, come Netanyahu e il suo partito, il Likud, mostrano una postura più determinata nella difesa della nazione.
In ogni caso si tratta di concause che potranno essere valutate solo se e quando avranno prodotto un qualche effetto. Le ragioni più fondanti dell’eliminazione di Soleimani vanno ricercate sul piano geopolitico, includendovi anche quella che lo scienziato francese della politica Dominique Moisi definisce la «Geopolitica delle emozioni».
Sul terreno della geopolitica pura si trova infatti, se non la spiegazione del gesto americano, almeno quella della strategia di pressing che la Casa Bianca sta praticando nei confronti dell’Iran. Una piccola crepa in questo atteggiamento si è aperta alla fine del mandato presidenziale di Barack Obama, ma si è subito richiusa con l’arrivo di Trump, come dimostra la vicenda del cosiddetto «Iran Deal» sul nucleare.
A dispetto del disimpegno internazionale attribuitogli dagli avversari, insomma, Trump continua a perseguire una politica imperiale della quale gli Stati Uniti non possono fare a meno, pena la perdita della leadership globale. Tale politica presuppone che in ogni teatro regionale ‒ e il Medioriente resta uno dei teatri principali del pianeta ‒ nessun attore abbia un ruolo egemone rispetto agli altri. Questo vale anche per gli alleati, ma vale a maggior ragione per coloro che, come il regime degli ayatollah, ne sono acerrimi avversari.
La Repubblica Islamica aspira sin dalla fondazione a questo ruolo egemone. Ritiene di averne diritto per storia, civiltà e anche sulla base di un retro-pensiero messianico che attraversa da sempre l’identità sciita, ma che è esploso nella “dottrina sociale” dell’ayatollah Ruhollah Khomeyni (1902-1989). La strategia geopolitica per raggiungere questo scranno passa per l’unificazione (non necessariamente istituzionalizzata in un’unica nazione ma comunque in continuità territoriale), sotto la guida di Teheran, di tutte le genti di appartenenza sciita del Medioriente. È quella che viene comunemente definita la «mezzaluna sciita», che partirebbe dall’Afghanistan occidentale, attraverserebbe la mainland sciita di Iran e Iraq, per quindi proseguire verso ovest grazie ai buoni uffici dell’alleato Bashar al-Assad in Siria e sfociare sul Mediterraneo con un Libano controllato dall’alleato Hezbollah.
Questo è il progetto al quale gli Stati Uniti cercano di tagliare la strada e al quale, per contro, la Russia di Vladimir Putin guarda con interesse. A questo fronte sciita si oppone, in stretta alleanza con Washington, un fronte sunnita che fa capo alle ricche petromonarchie del Golfo Persico capeggiate dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Arabia Saudita (escluso, ovviamente, il Qatar).
Per gli sciiti sembrerebbe uno scontro perso in partenza: la maggior parte dei paesi della “mezzaluna” sono di fatto degli Stati falliti, o quasi, mentre quelli del fronte sunnita capeggiano le classifiche sia di reddito sia dei budget militari, ma non è necessariamente così. Nei bilanci sugli equilibri di forza si trascura spesso il fattore demografico-sociale: se si mettono insieme le popolazioni dei Paesi del fronte sunnita si arriva a stento a 50 milioni di abitanti (escluso l’Egitto, che però oggi guarda più all’Africa che alla penisola arabica): pochi, ricchi, vecchi, accuditi da una massa sterminata di immigrati senza diritti che si fa sempre più minacciosa, e, come dimostra la guerra in Yemen, poco adusi alla battaglia e militarmente piuttosto imbelli. La «mezzaluna sciita» conta su quasi 150 milioni di abitanti, giovani, affamati, molti dei quali hanno visto solo guerre e i cui padri si lanciavano sui campi minati a piedi nudi per la gloria di Khomeyni. Fino a quando ci sono gli Stati Uniti a fare da scudo con la propria potenza militare e geoeconomica l’equilibrio regge, ma se si dovesse venire alle mani nel senso classico del termine le cose sarebbero diverse, salvo che non si voglia mettere in conto un’immane strage a cui nessun governo occidentale è in grado di sopravvivere politicamente.
Al di là dei meriti o demeriti sul campo, il ragno che stava tessendo questa tela di milizie e governi destinati a comporre l’area di influenza sciita a guida iraniana era esattamente il generale Qasem Soleimani, e questo, se non spiega del tutto, almeno illumina il gesto in una logica geopolitica possibile.
A tutto ciò si può aggiungere una componente emozionale che entra in gioco quando si parla di Iran e che incrina il proverbiale pragmatismo statunitense in materia di strategie politiche ed economiche. Dall’avvento del regime komeinista fra le due visioni del mondo si è sviluppata un’idiosincrasia profonda che rende ciascuno dei contendenti il nemico per antonomasia della controparte. Una storia cominciata nel novembre 1979, con la vicenda degli ostaggi dell’ambasciata americana di Teheran, il cui spettro ha rifatto capolino durante gli attacchi alla sede diplomatica di Baghdad nei giorni scorsi, e proseguita con una lunga teoria di scontri palesi e sommersi. Un fattore che attraversa tutte le amministrazioni americane di qualunque orientamento e che, senza esagerare, bisogna mettere nel conto.
Ma la domanda che più circola sui media oggi è: e adesso cosa succederà? Se già il passato e il presente possono presentare così tante sfumature, possiamo immaginare quanto sia infido il terreno del futuro, ma anche in questo caso possiamo cercare indizi nella logica dei comportamenti possibili.
L’Iran reagirà, non può non farlo, anche se in questo momento di forte crisi economica che genera proteste interne di lungo corso non ha molte opzioni. Questo porta a ritenere poco probabile, per ora, la temuta escalation verso una guerra vera e propria nel Golfo Persico. Teheran, al di là di un’impennata nei toni retorici, sarà costretto a limitare la sua reazione ai contesti locali, il che non esclude affatto il versamento di sangue, anche americano. Potrebbe anche rendere difficile la navigazione nei vitali Stretti di Hormuz, generando uno stress petrolifero importa
nte, ma si tratterebbe, al di là dell’isteria mediatica che causerebbe, di un’arma spuntata: il mercato petrolifero non è più quello degli anni 1970 e un aumento del prezzo del greggio sopra i 100 dollari al barile farebbe felici un sacco di nazioni.
Un fattore che avrà conseguenze e che è stato abbondantemente ignorato nei commenti di questi giorni è quello che potremmo definire “formale”. Soleimani non era un Osama Bin Laden (1957-2011) o un al-Baghdadi qualunque, un terrorista alla macchia, braccato dal mondo intero, che puoi far fuori con una “eliminazione mirata” mentre si nasconde sotto il letto o in un seminterrato ammuffito. L’aver reintrodotto nel galateo delle relazioni internazionali l’uccisione delle figure apicali della leadership politica di una nazione avversaria apre la strada a scenari che, se estesi, potrebbero risultare problematici per tutti. Sotto questo profilo, e non sotto quello di una possibile escalation, sta forse l’avventatezza dell’attacco all’aeroporto di Baghdad e l’insostenibile leggerezza di alcuni commenti festanti.
Ci si potrebbe lamentare ancora una volta dell’assoluta assenza o, peggio, inconsistenza della reazione europea e italiana, anche solo verbale, a fatti che riguardano direttamente la vita e la sicurezza del nostro continente e del nostro Paese, ma sarebbe oramai un esercizio sadico. Se questa vicenda dimostra qualcosa, è che nel mondo frammentato e multipolare nato dal crollo del Muro di Berlino, la forza (non sto parlando di quella militare) è presidio della
P.S. : un’ultima considerazione che non vuole apparire moralistica ma che è invece di sostanza: le persone uccise in una guerra, dichiarata o no, sono appunto creature di Dio, anche se terroristi. Per loro, come per chiunque, deve essere rivolta una preghiera perché Dio abbia misericordia della loro anima.
Domenica, 05 gennaio 2020