Di Alfredo Mantovano da Tempi di gennaio 2020
La prescrizione è una sconfitta per lo Stato. Costituisce una obiettiva sconfitta per lo Stato arrivare a sentenza definitiva un decennio e più dopo la consumazione di reati che hanno provocato danni ingenti alle persone offese, il cui accertamento ha richiesto fatica ed energie a causa di indagini complicate e di tre gradi di giudizio, e vedere tutto azzerato a causa dello scorrere del tempo. Sull’altro piatto della bilancia vi è l’esigenza dell’accusato di concludere in tempi accettabili la propria posizione processuale, soprattutto se innocente.
Alla certezza che con la nuova prescrizione quelle situazioni di disagio si moltiplicheranno si affianca la vaghezza di una riforma dell’intero processo solo annunciata, dai contenuti tutti da definire. Si tratta di scegliere se interessarsi del dito o della luna: il dito è per il vero non poco fastidioso, perché viene introdotto nell’occhio del primo che incappa in una disgrazia giudiziaria. La luna è sfaccettata e complessa, e presenta un lato oscuro che è colpevole continuare a ignorare.
Ecco i profili principali (della luna, non del dito):
un’ampia riforma della prescrizione è già entrata in vigore nel 2017, per iniziativa dell’allora ministro della Giustizia Orlando, con nuove e ulteriori ipotesi di sospensione e interruzione e con sensibili incrementi dei termini. Per coglierne l’efficacia sarebbe stato necessario attendere qualche anno, perché la prescrizione è un istituto di diritto sostanziale, dalla ricaduta non immediata, e invece si è cambiato daccapo;
su un totale di 100 procedimenti penali chiusi a causa del tempo inutilmente decorso una quota annua variabile fra il 58 e il 70% matura nel corso delle indagini preliminari. Percentuali più contenute interessano il primo grado e l’appello – più o meno il 18% per ciascuno dei due -, mentre in Cassazione si viaggia poco al di sopra dell’1%. Poiché la legge n. 3/2019 non incide né sulla fase delle indagini, né nel corso del processo in primo grado, essa sarà inutile in almeno i 4/5 dei casi di prescrizione;
il dato realmente allarmante è la conclamata discrezionalità di fatto dell’azione penale, in virtù della quale una parte significativa delle Procure della Repubblica sceglie quali reati perseguire e quali no. La sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado distrae dal primo vero lato oscuro della faccenda: capire quale senso abbia oggi il vincolo costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale – allorché i 2/3 dei procedimenti vengono fatti prescrivere dal P.M -, e se non è il caso di aprire un dibattito politico serio sulla individuazione di criteri oggettivi e omogenei per l’avvio delle indagini. Il tema è decidere se le linee di politica giudiziaria appartengono ancora al Parlamento e al Governo, o se sono state nella prassi delegate alle Procure disseminate sul territorio nazionale, ciascuna delle quali segue propri criteri, in uno pseudo-federalismo dell’azione penale che si traduce nella diseguale applicazione della legge;
per le prescrizioni maturate dopo le indagini varrebbe la pena di domandarsi perché i relativi termini si allungano con maggiore frequenza fra la decisione di primo grado e quella di appello, mentre è percentualmente irrilevante – poco più dell’1% – l’incidenza della prescrizione in Cassazione. L’altro tema importante è la necessaria riorganizzazione delle Corti di appello, per far sì che queste seguano moduli simili a quelli della Cassazione, per es. nella definizione in camera di consiglio delle impugnazioni evidentemente inammissibili. Non entro nel dettaglio tecnico; è però verosimile che se quanto sperimentato con successo in Cassazione fosse mutuato dalle Corti di appello le prescrizioni maturate in questa fase verrebbero ridotte della metà. Non c’è bisogno di una riforma, è sufficiente un po’ di attenta dedizione: il ministero della Giustizia potrebbe svolgere un ruolo di coordinamento fra le iniziative dei vari distretti;
fra le misure organizzative che non esigono modifiche di norme vi è pure la garanzia che il giudice – monocratico o collegiale – che inizia un processo poi lo conclude. Detta così, sembra scontata, ma in concreto non lo è, perché ai rinvii di mesi o di anni fra una udienza e l’altra seguono i cambi della composizione del giudicante, e questo rende necessario ricominciare da capo l’istruttoria, e quindi perdere tempo: non è impossibile da affrontare.
Letterina alla Befana. Fa che gli italiani ricevano in regalo: a) un ministro della Giustizia che migliori il sistema giudiziario a legislazione invariata, magari sui fronti prima sintetizzati; b) un Parlamento che modifichi il codice di procedura penale per rendere il processo più celere senza abbassare le garanzie (non è vietato!); c) giudici che, in coerenza col principio codicistico di concentrazione e immediatezza, inizino e concludano il singolo processo loro assegnato, senza lasciarlo in eredità ad altri. Non negarci questi regali, lasciando nella calza solo il carbone della sospensione della prescrizione!
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