Valter Maccantelli, Cristianità n. 398 (2019)
Hong Kong: la porta della Cina
Introduzione
Lo scrittore umoristico Ennio Flaiano (1910-1972), parlando di Hong Kong alla fine degli anni 1960, ebbe a definirla «La Cina, vista dal buco della serratura» (1). Se questa definizione ha ancora una qualche attualità, quello che vediamo accadere attraverso quel buco nella minuscola e affollata ex colonia britannica ha il sapore di una lite domestica sul punto di trasformarsi in tragedia.
Da alcuni mesi Hong Kong è sconvolta da proteste di piazza — concentrate specialmente nei fine-settimana — che coinvolgono centinaia di migliaia (qualcuno parla di milioni) di manifestanti. Mentre scrivo queste note si è appena concluso il dodicesimo week-end consecutivo di mobilitazione (2).
Le manifestazioni sono cominciate nel giugno scorso, motivate dalla richiesta di ritiro di una legge che, se approvata, avrebbe permesso «l’estradizione» verso la Cina continentale degli accusati di alcuni reati gravi, e che avrebbe consentito a Pechino di processarli secondo il suo sistema giudiziario. La discussione del provvedimento è stata spostata a data da destinarsi ma ciò non ha calmato le proteste, che si sono trasformate in una richiesta più generale di maggiori libertà politiche e civili e in un’aperta sfida al regime comunista cinese.
Non è la prima ondata di disordini che ha per teatro le strade di Hong Kong. Nel 2014 vi fu la cosiddetta Rivoluzione degli Ombrelli — durata ben 79 giorni consecutivi — e nel febbraio del 2017 vi sono stati 44 feriti e 25 arresti durante gli scontri fra i manifestanti e la polizia che cercava di far sgombrare alcuni commercianti ambulanti non autorizzati dal distretto turistico di Mongu Kong (3).
Nessuno in questo momento sa dire se le proteste andranno scemando con l’imminente inizio dell’anno scolastico — molti manifestanti sono studenti — o se Pechino deciderà di intervenire con la forza dando luogo a una «nuova Tienanmen». Una crisi così forte, in quello che i cinesi considerano un teatro chiave della propria strategia regionale, cade in un momento difficile per la Repubblica Popolare Cinese, la cui leadership vede crescere le criticità sia sul fronte interno sia su quello globale.
Per questa ragione le proteste di Hong Kong potrebbero trascendere facilmente il significato locale, comunque notevole, per diventare un fattore in grado di sconvolgere numerosi equilibri nell’intero quadrante geopolitico.
L’ambiguità di Hong Kong
Dal 1° luglio 1997 Hong Kong — che si estende per 1.104 chilometri quadrati e ha una popolazione di 7.300.000 abitanti — è una Regione Amministrativa Speciale (HKSAR) all’interno della Repubblica Popolare Cinese (RPC). Le basi giuridiche delle Regioni Amministrative Speciali (SAR) erano state poste, proprio in vista della riunificazione con Hong Kong e la colonia portoghese di Macao, dall’art. 31 della Costituzione approvata per la prima volta nel 1982. Tale articolo prevede che «lo Stato, se necessario, istituisce Aree Amministrative Speciali. L’ordinamento delle Aree Speciali deve essere fissato secondo le norme di legge dall’Assemblea Popolare Nazionale in base alle diverse situazioni concrete» (4).
Fino ad allora il Porto Profumato — come veniva soprannominata la baia di Hong Kong dai visitatori stranieri nell’Ottocento — era stato una colonia inglese. La Corona britannica vi aveva stabilito il proprio dominio in diverse fasi: sull’isola di Hong Kong (in «possesso perpetuo») grazie al Trattato di Nanchino che, nel 1842, aveva posto fine alla prima Guerra dell’Oppio (1839-1842); sulla penisola di Kowloon nel 1863 con la I Convenzione; infine, nel 1898, con la II Convenzione gli inglesi trattarono con la debole dinastia Quing (1636-1912) l’affitto per 99 anni di altre 236 isole e di alcune porzioni di terraferma (dette «Nuovi Territori»), destinati a dare spazio al porto che, nel frattempo, aveva molto incrementato il suo traffico.
Come colonia dell’Impero britannico Hong Kong si è sviluppata per quasi un secolo con uno stile di vita tipicamente occidentale, un sistema giuridico basato sulla common law e un’economia fondata sul libero mercato. Quando, negli anni 1980, l’accordo si approssimava alla scadenza, la Cina, nel 1949 diventata la comunistissima Repubblica Popolare Cinese, fece sapere che non intendeva assolutamente rinnovarlo e che pretendeva il ritorno alla madrepatria del proprio territorio a lungo rimasto separato.
Il passaggio non si presentava affatto semplice: si trattava di unire due mondi che più distanti non avrebbero potuto essere. In quegli anni il Regno Unito si dibatteva in pesanti difficoltà economiche e il governo guidato da Margaret Thatcher (1925-2013) vide nelle trattative sulla sua colonia l’occasione per stabilire un punto di contatto con l’emergente economia cinese. Dopo due anni di intense trattative si arrivò alla cosiddetta Dichiarazione Congiunta del 1984 (5). In questo atto si prevedeva il passaggio (handover) di Hong Kong alla Cina a partire dal 1° luglio 1997 con un periodo di successivi 50 anni durante il quale l’ex colonia avrebbe mantenuto il proprio ordinamento giuridico, la propria moneta, le proprie istituzioni autonome e ogni altro tipo di libertà presente al momento del passaggio. Era la concreta applicazione del principio «una nazione, due sistemi» proposto da Deng Xiaoping (1904-1997) nel 1979 per agevolare la riannessione non solo di Hong Kong ma anche quella di Macao e, in prospettiva, di Taiwan.
Dal 1978 Deng Xiaoping era il leader de facto della Cina dopo la morte di Mao Zedong (1893-1976). Considerato un profondo modernizzatore, Deng fu l’autore delle teorie del «socialismo con caratteristiche cinesi» — formula quasi letteralmente ripresa oggi da Xi Jinping — e fautore di un passaggio dall’economia pianificata a quella (socialista) di mercato mediante l’istituzione, nel 1979, delle Zone Economiche Speciali (ZES).
Questo clima da perestrojka cinese ha generato il grande equivoco di Hong Kong, i cui nodi stanno venendo al pettine a mano a mano che si avvicina la scadenza del 2047. Al tempo della dichiarazione congiunta del 1984 la Cina sembrò concedere moltissimo e chiedere una cosa soltanto: a Hong Kong non sarebbe cambiato praticamente nulla se non il piccolo dettaglio del passaggio sotto la sovranità formale della RPC.
Nel periodo intercorso fra la dichiarazione congiunta del 1984 e la sua entrata in vigore nel 1997, è stata concordata fra le parti quella che potremmo chiamare la «carta costituzionale» destinata ad essere la base del governo locale: la cosiddetta Basic Law (6). L’impostazione data al quadro istituzionale deriva in parte dalla condizione coloniale precedente, nella quale, pure nel quadro di un’ampia autonomia locale, la legittimazione del potere veniva formalmente dalla Corona britannica.
Pur in presenza di un ampio spettro di libertà e di uno stile di vita ispirato al modello delle democrazie occidentali, Hong Kong non è mai stata — e ancora meno lo è ora — una democrazia.
A capo del potere esecutivo sta il Chief Executive, carica oggi occupata da Carrie Lam (nome originale Cheng Yuet-ngor), eletta nel 2017 e prima donna a rivestire tale carica. Il Chief Executive, la cui elezione deve essere obbligatoriamente ratificata da Pechino, viene designato da un Comitato Elettorale di 1200 persone. I membri del Comitato sono in parte nominati dagli ordini delle categorie professionali e produttive, in parte scelti fra i membri del Consiglio Legislativo, ai quali si aggiungono di diritto i deputati di Hong Kong nel Congresso Nazionale del Popolo.
Il potere legislativo, con alcune limitazioni, è appannaggio del Consiglio Legislativo, composto da 70 membri di cui 35 eletti a suffragio universale in collegi territoriali uninominali, 5 eletti sempre a suffragio universale in una sorta di «super seggi» generali, 30 votati dalle categorie professionali nei «seggi funzionali». Nell’attuale configurazione il Consiglio Legislativo, da assimilare a un parlamento, vede la presenza di due schieramenti. Il primo, che con 43 membri detiene la maggioranza, è detto «filo-governativo» perché molto vicino a Pechino, ed è composto dalla Democratic Alliance for the Betterment and Progress of Hong Kong e dai rappresentanti delle categorie professionali riuniti nella Business and Professionals Alliance for Hong Kong e nella Federation of Trade Union, tradizionalmente favorevoli al mantenimento della pax cinese. Il secondo — di minoranza con 24 membri — è chiamato Pan-Democratico e raggruppa il Partito Civico ed il Partito Democratico, orientati verso un maggiore sviluppo delle libertà politiche.
Il potere giudiziario, che applica la legge secondo il sistema della common law britannica, è quello considerato più indipendente e imparziale e rappresenta il massimo grado di autonomia rispetto al sistema della Cina continentale. Nelle corti di Hong Kong possono sedere, in alcuni casi, perfino giudici di altre nazioni, come l’Australia o il Regno Unito. La differenza di sistemi giuridici è considerata uno dei pilastri dell’autonomia di Hong Kong. Ciò spiega perché la proposta di legge di Carrie Lam sull’estradizione verso la Cina continentale per alcuni reati — una questione apparentemente secondaria — sia stato visto come un gravissimo tentativo di assimilazione da parte di Pechino e abbia dato origine alle proteste di massa di questi mesi (7).
Al tempo delle trattative pochi badarono al fatto che per Pechino il passaggio aveva una valenza ideologica ben diversa da quella inglese e pochi si sono soffermati sulle clausole «in piccolo» che aggiungevano ad ogni concessione la formula «sotto il controllo dell’Assemblea del Popolo», quella controllata dal Partito Comunista Cinese (PCC) naturalmente. Non si è trattato di ingenuità, perché entrambe le parti hanno agito con una riserva mentale: nei 50 anni di transizione Hong Kong e gli inglesi pensavano che avrebbero «hongkonghisizzato» la Cina mentre la Cina e Pechino pensavano di poter «cinesizzare» Hong Kong. Lo si coglie bene analizzando i termini usati nel testo: da parte inglese si usa l’espressione handover, traducibile con «rilascio», mentre nelle versioni cinesi si usa il termine Huigui, cioè «ritorno», nel senso di riunificazione (8). In definitiva, per realizzare il concetto di «una nazione, due sistemi» è stato creato un ibrido istituzionale, giuridico ed economico che genera continue tensioni nel momento in cui Pechino spinge dal lato di «una nazione» e la società civile di Hong Kong verso quello dei «due sistemi». È questo il grande equivoco.
I manifestanti
Le ragioni immediate delle manifestazioni di questi mesi sono evidenti o comunque facili da individuare. Una parte significativa della popolazione di Hong Kong mostra da anni una crescente insofferenza nei confronti dei tentativi della Cina continentale di normalizzare la gestione dell’ex colonia inglese. Nel 2014 le rivolte note come Rivoluzione degli Ombrelli, che bloccarono la città per quasi tre mesi, scoppiarono quando il governo locale, su pressione di Pechino, propose un sistema di controllo più stringente sulla nomina delle autorità politiche locali. Quelle odierne sono nate a seguito del tentativo, condotto con gli stessi metodi, di depotenziare il sistema giudiziario. Quando, fra aprile e giugno del 2019, è cominciata a montare la protesta, molti, forse le stesse autorità locali e cinesi, hanno pensato a una riedizione del copione del 2014. A mano a mano che il tempo passa questa teoria si sta rivelando sempre meno plausibile. Gli slogan che vengono intercettati dai giornalisti presenti («Hong Kong Libera», «Hong Kong non è la Cina») (9) sembrano indicare che le ire dei manifestanti si indirizzano sempre di più verso il bersaglio grosso, cioè Pechino.
La maggior parte di chi scende in strada è composta da persone molto giovani, spesso nate dopo l’Handover del 1997; non hanno vissuto il passaggio e vedono avvicinarsi la scadenza del 2047 come un’apocalisse che cadrà a metà della propria vita, privandole delle libertà di cui hanno sempre goduto: «nel 2047, se la città tornerà alla Cina, gli abitanti originari se ne andranno … non esisterà più alcuna Hong Kong», dichiara un giovane manifestante, nome di battaglia Ha Lung, che di giorno fa il commesso e di notte l’attivista, al giornalista che lo intervista nel suo piccolo appartamento mentre prepara il casco e gli occhiali protettivi contro i lacrimogeni (10). L’espressione rivelatrice è: «se la città tornerà alla Cina», un condizionale che nessun hongkonghese si era mai permesso di esprimere. Quel «se» lascerebbe intendere che, almeno una parte dei manifestanti, più che una rivolta abbia in mente una vera e propria rivoluzione.
Ad accentuare ulteriormente la natura sistemica di queste proteste contribuisce il fatto che questa volta, a differenza del 2014, sono scese in strada anche alcune categorie non ascrivibili direttamente agli attivisti dei movimenti giovanili di contestazione. Il 16 agosto scorso gli insegnanti del Sindacato degli Insegnanti Professionisti hanno organizzato una manifestazione, autorizzata dalla polizia, nella quale 22.000 persone vestite di nero hanno marciato verso la Casa del governo scandendo lo slogan «salvaguardare la prossima generazione, facciamo parlare la nostra coscienza». Durante le manifestazioni principali si sono viste anche organizzazioni di dipendenti pubblici, tradizionalmente neutrali, e alcuni gruppi di operatori sanitari degli ospedali pubblici hanno organizzato spontaneamente punti di soccorso e kit medici per curare i feriti negli scontri con la polizia (11).
Il modello organizzativo scelto dai dimostranti, ispirato al be water (siate come l’acqua) dell’attore cino-americano Bruce Lee (1940-1973), è quello della convocazione istantanea tramite social o chat di piccole manifestazioni in punti differenti della città e dei sobborghi, che costringe la polizia a spostarsi continuamente rendendo impossibile il contrasto preventivo. Come ripetono gli intervistati: «non ci sono capi». Ogni volontario organizza i presenti sul posto per contrastare l’azione delle forze dell’ordine.
I manifestanti godono certamente dell’appoggio di attivisti esperti e delle organizzazioni dei partiti di opposizione così come delle comunità religiose perseguitate nella Cina continentale — compresa quella cattolica (12) che nel 2016 contava 581.000 battezzati (13) —, ma ogni tentativo di mettersi a capo delle proteste in modo organizzato sembra destinato a fallire. Lo stesso Joshua Wong, uno dei leader della Rivoluzione degli Ombrelli, arrestato e rilasciato più volte e unitosi alle manifestazioni a giugno subito dopo l’ennesima scarcerazione, ammette di aver avuto difficoltà a farsi accettare e di essere stato anche contestato quando ha cercato di presiedere alcune adunate (14).
La fluidità, la scarsa organizzazione e l’assenza di capi rende estremamente difficile per le forze di sicurezza il controllo e la prevenzione dei disordini, ma rende altrettanto difficile la gestione del livello di intensità delle proteste da parte dei manifestanti che in alcuni casi potrebbero esagerare, alienandosi così la simpatia della popolazione non impegnata direttamente nelle proteste e comunque preoccupata del proprio futuro.
Su questa preoccupazione fa leva la contro-propaganda governativa, sostenuta dalle élite economiche — e, pare, anche dalla criminalità organizzata delle Triadi — che vedono nella sudditanza a Pechino un fattore di stabilità propizio ai buoni affari e alla crescita economica, additando i disordini come la causa di un’incombente stagnazione economica della regione.
Hong Kong vista da Pechino
Come previsto dall’art. 14, comma 2, della Basic Law, il controllo e la gestione dell’ordine pubblico nei territori di Hong Kong è di competenza del governo locale. Il comma 1 prevede invece che il governo centrale sia responsabile della difesa dell’HKSAR da attacchi esterni e potrebbe essere invocato qualora, come sostengono i media vicini al governo, sia provato il coinvolgimento di uno Stato straniero nei disordini.
Pechino mantiene nella HKSAR un contingente militare di circa 5.000 uomini che, come recita il comma 3 del citato art. 14, «[…] non interferiranno negli affari locali della Regione»; tuttavia il medesimo comma 3 specifica di seguito che «il Governo della HKSAR può, quando necessario, chiedere al Governo Centrale del Popolo l’assistenza di tale guarnigione per il mantenimento dell’ordine pubblico e per il soccorso in caso di disastro» (15). Fino a questo momento l’Esercito Popolare di Liberazione (EPL) di stanza in loco ha mantenuto un profilo basso, ma il territorio di Hong Kong confina con la città di Shenzhen, area sensibile per i cinesi e quindi molto militarizzata. Non sarebbe difficile per l’EPL intervenire direttamente con eventuali rinforzi.
Per capire quali potrebbero essere le prossime mosse del governo cinese occorre, però, esaminare la crisi di Hong Kong sullo sfondo del quadro politico interno non meno che su quello del panorama geopolitico globale.
La situazione politica interna cinese è un argomento molto trascurato dai commentatori politici, spesso focalizzati sull’impatto internazionale delle mosse del Dragone: in realtà, le seconde discendono direttamente dalla prima. Molte cancellerie occidentali, non quella statunitense, tendono a glissare sui temi di politica interna cinese anche perché l’occuparsene comporta inevitabilmente la constatazione «politicamente scorretta» della sopravvivenza di un quadro ideologico di matrice social-comunista tuttora vivo e vegeto a Pechino, cosa che non gioverebbe agli affari.
Una delle occasioni migliori per guardare al presente e al futuro della politica cinese viene dai periodici congressi del PCC. L’ultimo, il XIX, si è svolto nell’ottobre del 2017 e nella relazione introduttiva, durata cinque ore, il presidente e segretario Xi Jinping, confermato a vita in quell’occasione, ha tracciato le linee della dottrina per «il socialismo con caratteristiche cinesi per un nuova era». Nel suo discorso Xi ha indicato i fari che guideranno il socialismo cinese nella nuova era: contro la tesi dei progressi della Cina «nonostante» il Partito Comunista, ha ribadito l’assoluta centralità del partito unico in tutti gli aspetti della vita e della politica, interni ed esterni; a fronte della perdita di tensione ideale ha confermato una pesante campagna di moralizzazione interna destinata a consolidare la centralità etica del partito; ha indicato nell’eliminazione degli squilibri esistenti nella società cinese il fine tattico dei futuri programmi economici; ha anche indicato il fine strategico, cioè un nuovo ruolo per la Cina nel mondo.
Quest’ultimo punto è stato letto come la volontà di portare la RPC al suo centenario, nel 2049, nella posizione di prima potenza mondiale. Ciò implica un’intensificazione degli sforzi per incrementare il perimetro della propria proiezione esterna — come si prefigge il famoso piano Belt And Road Initiative, detta anche «la nuova via della seta» — ma, e questo è un vero e proprio dogma, anche la ricomposizione dell’integrità territoriale della Cina con il riassorbimento completo dei territori separati di Hong Kong, Macao e Taiwan. Non è solo, come vedremo fra poco, una questione di convenienza ma è, soprattutto, una questione di principio: la nuova Cina, grazie al socialismo «con caratteristiche cinesi», si riprenderà ogni metro di quanto le è stato sottratto nel secolo XIX dalle potenze straniere con i «Trattati Iniqui» e nel XX dai «traditori» nazionalisti, e nessuno dovrà impedirlo.
In questo clima si capisce bene come le parole citate prima dell’attivista Ha Lung — «se la città tornerà alla Cina» — non sono neanche lontanamente concepibili a Pechino. Al contrario, la leadership del PCC pensa di giungere ben prima del 2047 a un’assimilazione completa dei territori separati alla nascita: non solo Hong Kong e Macao, per i quali ha già lo status legale, ma anche, con le buone o con le cattive, Taiwan.
Quindi la leadership cinese non vuole perdere il controllo del processo di inclusione di Hong Kong. A ciò si deve aggiungere, passando al quadro geopolitico, che neppure può permettersi di perdere le briglie della situazione nella baia del Porto Profumato.
La RPC è impegnata da anni in una corsa disperata che le permetta di diventare ricca prima di diventare vecchia: vuole cogliere i benefici del ruolo di superpotenza globale sperando che le permettano di sopportare le conseguenze dell’enorme gap generazionale causato dalla politica del «figlio unico», pur dismessa, che la porterà ad essere, sempre verso il 2049, una nazione di vecchi, inabili alla produzione e senza alcuna protezione di welfare. Gli Stati Uniti d’America, del presidente Donald Trump — ma non solo lui —, cercano di difendere la propria attuale posizione imperiale spezzando il ritmo di questa corsa e infilando nei raggi della bicicletta cinese alcuni bastoni: l’asfissia da capitali, inibendone le esportazioni; la crescita dei costi, mediante i dazi; e l’inibizione delle rotte oceaniche dell’Indo-Pacifico, mediante una corona geografica di alleati dal Giappone all’India. È la nuova Guerra Fredda del secolo XXI. Sui fronti di questa guerra Hong Kong è — insieme a Taiwan e a Macao — un presidio al quale non si può rinunciare.
Sul piano economico, se è pur vero che nel 1997 il PIL di Hong Kong pesava per un buon 15% su quello cinese e oggi vale il 3%, anche una perdita così piccola sui bilanci della RPC, in un periodo di contrazione di tutti i parametri economici critici, potrebbe rappresentare la goccia capace di far traboccare il vaso. Sul piano geopolitico, Hong Kong rappresenta una delle sponde essenziali per il corridoio marittimo attraverso il Mar Cinese Meridionale che Pechino sta cercando di mettere in sicurezza mediante l’occupazione militare degli arcipelaghi Spratly e Paracelso e il corteggiamento economico-diplomatico di Filippine e Malaysia. Il controllo completo di questo mare, solo apparentemente domestico, permetterebbe alle rotte commerciali cinesi di arrivare a ridosso dei vitali Stretti di Malacca per poi dilagare nell’Oceano Indiano. Sarebbe la principale via marittima della Belt And Road Initiative e ogni falla nel suo presidio rappresenterebbe una vittoria per i suoi competitor americani e indiani.
Conclusione
Il combinato disposto della volontà e del bisogno per Pechino di riprendere il pieno controllo della Regione Speciale di Hong Kong la dice lunga sulle prospettive a medio termine dei manifestanti e delle loro richieste e rende, con tutto il rispetto, irrilevanti le dinamiche sociali e religiose che pure si muovono dietro le quinte.
La liquidità della struttura politica e la mancanza di riferimenti ideali radicati se, da un lato, assicurano ai contestatori un certo mimetismo che rende difficile la loro individuazione da parte della macchina della repressione, dall’altro lato li rende anche molto deboli sul piano dell’efficacia pratica delle loro azioni e fragili su quello della tenuta nella media e lunga distanza, sulla quale le autorità sembrano puntare.
Il dubbio, che forse tormenta gli stessi protagonisti, non è se Xi Jinping e la sua squadra riprenderanno il pieno controllo, ma quando e come lo faranno. Tutte le soluzioni presentano, per Pechino, vantaggi e svantaggi. Un intervento duro di tipo poliziesco presenterebbe il vantaggio di una soluzione rapida ma fornirebbe al mastino Trump — non ai Paesi europei, succubi delle logiche di mercato — un enorme argomento per inasprire la rete di misure di isolamento che le sta stendendo intorno. Un approccio soft basato sullo strangolamento dei benefici economici che derivano a Hong Kong dall’essere un importante ponte nei commerci del mondo da e verso la Cina, alienerebbe ai manifestanti il sostegno della popolazione hongkonghese di fascia media, ma, contemporaneamente, danneggerebbe in maniera non mortale ma significativa la crescita economica cinese, già sempre meno impetuosa per altri versi. L’attesa passiva di un progressivo auto-spegnimento, oltre a non essere certa, lederebbe troppo l’autorità del governo centrale nei confronti del popolo non solo di Hong Kong ma anche di Macao e, in prospettiva, di Taiwan. Qualunque sia la soluzione che sceglieranno a Pechino, Hong Kong non sembra destinata a rappresentare per la Cina di Xi Jinping quello che i cantieri di Danzica sono stati per la Polonia di Wojciech Jaruzelski (1923-2014).
Valter Maccantelli
Note:
(1) Ennio Flaiano, Vanni Scheiwiller (1934-1999), Frasario essenziale per passare inosservati nella società, Bompiani, Milano, 1993, p. 31.
(2) Nel sito web <http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2019/08/25/scontri-a-hong-kong-la-polizia-spara_68cdc99e-2b04-4845-90b7-607c62b3caa8.html> (gl’indirizzi Internet dell’articolo sono stati consultati il 17-9-2019).
(3) Nel sito web <https://www.reuters.com/article/us-hongkong-protests-idUSKCN0VH28E>.
(4) Nel sito web <http://en.people.cn/constitution/constitution.html>.
(5) Cfr. il sito web <https://scholarship.law.berkeley.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1073&context=bjil>.
(6) Cfr. il sito web <https://www.basiclaw.gov.hk/en/basiclawtext/images/basiclaw_full_text_en.pdf>.
(7) Cfr. il sito web <http://www.infomercatiesteri.it/politica_interna.php?id_paesi=127>.
(8) Cfr. Elisabetta Esposito Martino, Un paese due sistemi: Hong Kong e la Repubblica Popolare Cinese nei nuovi scenari dell’universo giuridico globalizzato, p. 4, nota 14, nel sito web <https://www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/Elisabetta%20Esposito%20Martino%202.2015_.pdf>.
(9) Cfr. il sito web <https://www.internazionale.it/notizie/2019/08/21/rivolta-collettiva-hong-kong>.
(10) Ibidem.
(11) Cfr. il sito web <https://www.open.online/2019/08/17/hong-kong-in-piazza-gli-insegnanti-la-polizia-siamo-sfiniti-non-useremo-la-forza-se-non-subiremo-attacchi-violenti>.
(12) Cfr. il sito web <http://www.asianews.it/notizie-it/’La-speranza-nel-deserto’,-i-cattolici-alla-manifestazione-pro-Hong-Kong-47771.html>.
(13) Cfr. il sito web <https://archives.catholic.org.hk/Statistic/ST-Index.htm>.
(14) Cfr. il sito web <https://www.internazionale.it/notizie/2019/08/21/rivolta-collettiva-hong-kong>.
(15) Cfr. il sito web <https://www.basiclaw.gov.hk/en/basiclawtext/images/basiclaw_full_text_en.pdf>.