Di Roberto Colombo da Avvenire del 01/02/2020
Senza accoglienza del reale – così come esso è e non come si vorrebbe, a ogni costo, che fosse – tutto diventa possibile e nulla può essere escluso, anche il paradossale e l’inconcepibile. E persino l’intenzione di vita diventa un esperimento, un rischio, un azzardo. Con una sentenza depositata il 25 gennaio, il Tribunale di Rimini ha accolto il ricorso presentato da una coppia di donne contro la decisione dell’ufficiale di Stato civile del Comune di Riccione, che non aveva iscritto entrambe come ‘genitori’ di due gemelli, nati in Italia dopo che in una clinica di Barcellona era stata praticata la fecondazione in vitro con doppia eterologia: del gamete maschile e del gamete femminile.
Un donatore anonimo ha messo a disposizione gli spermatozoi che hanno fertilizzato gli ovociti di una delle due donne italiane e gli embrioni ottenuti sono stati trasferiti nell’utero del-l’altra, che ha portato a termine la gestazione. È una delle ormai numerose varianti in cui si articola la ‘procreazione medicalmente assistita’, che – in questo e altri casi – meglio andrebbe indicata come ‘riproduzione medicalmente praticata’.
I legali delle ricorrenti contro il diniego dell’ufficio di Stato civile hanno considerato «il rifiuto del Comune di Riccione» come «un’illegittima discriminazione dei minori in ragione del loro luogo di nascita» e accolto con plauso la sentenza che avrebbe a loro dire – «ribadito l’interesse dei minori e sancito il fatto che le coppie omogenitoriali hanno gli stessi diritti delle altre coppie». Ci si può legittimamente chiedere se l’’interesse’ – ma perché non parlare più apertamente di ‘bene’? – di un bambino sia davvero quello di nascere e crescere, essere accolto ed educato senza alcun riferimento alla figura e alla presenza paterna (come, in altri casi, cancellando la madre), e se le convivenze di persone d’identico sesso – in riferimento alla procreazione e alla genitorialità – «hanno gli stessi diritti delle altre coppie»? Oppure, questa domanda è illegittima e deve essere censurata in nome di una pretesa, illiberale (e magari omofoba) ‘discriminazione’ che essa nasconderebbe tra le pieghe?
Quando l’esercizio del giudicare – sia esso quello del dibattito civile nell’arena pubblica o del dibattimento giuridico nell’aula di un tribunale – archivia o piega i grandi princìpi, si adegua alle richieste più autoreferenziali e prende il largo dalla realtà biologica, psicologica, pedagogica e sociale della relazione affettiva e generativa, così come è evidente alla ragione attraverso l’esperienza della genitorialità integrale di cui la storia della civiltà umana (occidentale e no) è intrisa, si apre una breccia in cui può infiltrarsi la ‘dittatura dell’intenzione’ di diventare genitori a ogni costo (per i figli). Essa prende così il posto del ‘primato dell’azione’ di essere genitori attraverso gli atti umani propri del generare e dell’educare, che non possono essere surrogati né dalla ‘medicina dei desideri’, né dal diritto creativo e neppure da un potenziale consenso mediatico.
Quando la ‘madre intenzionale’ viene separata dalla ‘madre generazionale’ e/o dalla ‘madre gestazionale’, non solo il padre viene messo in ombra, ma è l’ombra stessa del padre che si dissolve. E viceversa. La doppia o tripla maternità (così come la doppia paternità) non sono una conquista che emancipa la donna e l’uomo dal giogo di una reciprocità asimmetrica ritenuta come ormai superata, ma il dominio di un ‘non pensiero’ che ha tagliato i ponti con la realtà umana per sperimentare nuove strade. Ma, come ha messo in guardia papa Francesco, sin dall’11 aprile 2014, «con i bambini e i giovani non si può sperimentare. Non sono cavie da laboratorio! Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti; conservano la loro attualità sotto vesti diverse e proposte che, con pretesa di modernità», ci portano «a camminare sulla strada dittatoriale del ‘pensiero unico’».