Pierre Faillant de Villemarest, Cristianità n. 132 (1986)
La struttura del vertice dell’Unione Sovietica – e, quindi, del socialcomunismo internazionale – uscita dall’importante assise moscovita, e i tratti salienti della sua politica interna ed estera come si possono ipotizzare sulla base delle dichiarazioni e della scelta degli uomini posti a occupare le posizioni chiave.
Dopo il XXVII congresso del Partito Comunista dell’URSS
Il nuovo volto del potere sovietico
Dal nuovo assetto del potere sovietico, uscito dal XXVII congresso del Partito Comunista dell’URSS, emerge un triunvirato significativo, costituito da Mikhail Gorbaciov, da Egor Ligaciov e da Lev Zaikov. Esso rivela le linee di forza di cui Mikhail Gorbaciov è il denominatore comune, e non – come assicurano certi commentatori politici – «il capo incontestato del partito e dello Stato».
Infatti, dietro al «numero uno» stanno due uomini: Egor Ligaciov, di sessantasei anni, uscito dall’ombra dal 1983, e Lev Zaikov, di sessantatrè anni, «ingegnere economista» venuto da Leningrado. Il primo siede nel comitato centrale come titolare dal 1966; l’altro è diventato sindaco della seconda città dell’Unione Sovietica dal punto di vista del partito nel 1976, ma è entrato a fare parte del comitato centrale soltanto nel 1981. Il primo è il nuovo inquisitore permanente del Sistema, l’erede di Mikhail Suslov agli affari generali; il secondo ha dietro a sé il peso del complesso militare-industriale dell’URSS che, oltre all’industria pesante, copre praticamente dodici ministeri della produzione del paese.
In altri termini, dietro a Mikhail Gorbaciov dominano l’ortodossia la più fedele al mezzo secolo trascorso, e tutto ciò che riguarda l’armamento dell’URSS.
Quanti vedevano già spuntare un comunismo affabile e pacifico sono ora con le pive nel sacco, tanto più che – in occasione dell’apertura del congresso, che si è tenuto da fine febbraio al 7 marzo 1986 – la Pravda ha reso omaggio ad Andrei Jdanov, che fu, alla fine della seconda guerra mondiale, l’effimero delfino di Stalin.
Andrei Jdanov incarnava allora l’espansionismo sovietico armato o sovversivo, che già si impadroniva dei paesi dell’Europa Orientale, e un antisemitismo che numerosi «compagni di strada», nell’URSS, nei paesi trasformati in satelliti e anche nel resto del mondo, dovevano sentir soffiare fino alla morte di Stalin.
Anche Andrei Jdanov veniva da Leningrado. Se poi fu silurato, fino a morire molto misteriosamente, è accaduto unicamente perché dava fastidio a Stalin per le sue spalle larghe e le sue amicizie nell’esercito. Anche di recente, G. Romanov, venuto da Leningrado, intralciava la marcia verso il potere di Mikhail Gorbaciov, ed è stato silurato. Resta da vedere se il suo successore, Lev Zaikov, avrà più fortuna di tutti i suoi predecessori.
La seconda lezione da trarre dal nuovo volto del potere sovietico è il fatto che Mikhail Gorbaciov e i suoi soci hanno obbligato i marescialli a rientrare nei ranghi, pur dando soddisfazione alle esigenze dell’alto stato maggiore politico-militare, facendo di Lev Zaikov uno dei tre soli personaggi che cumulano funzioni nella segreteria e nel Politburo, quindi dando la priorità alle industrie belliche.
Infatti i marescialli sono – fra i membri del comitato centrale – sei in meno che nel 1981 – trentacinque invece di quarantuno – ma, soprattutto, quello che sembrava il loro portavoce, il maresciallo S. Sokolov, di settantacinque anni, ministro della Difesa, resta soltanto uno dei sette supplenti del Politburo: egli è solamente un docile esecutore degli orientamenti elaborati dalla segreteria e imposti poi dai titolari del Politburo stesso.
Di contro, il direttore del KGB, Viktor Cebrikov, di sessantatrè anni, rimane nel Politburo a pieno titolo. Il fatto conferma l’alleanza stretta nel 1985 fra lui e Mikhail Gorbaciov, quando G. Romanov e qualche altro tentarono di impedirgli di diventare segretario generale del partito; e rivela anche il peso della polizia e dei servizi segreti nella macchina del potere, e non soltanto in materia di spionaggio e di sovversione all’estero.
I ritocchi non sono riforme
Il risultato del XXVII congresso del Partito Comunista dell’URSS è stato deludente anche per gli osservatori stranieri convinti che – a causa del vicolo cieco economico che toglie ogni prospettiva all’unione Sovietica e alle sue colonie dell’Europa Orientale – il Cremlino stesse per lanciarsi sulla via di importanti riforme, anzi ispirarsi alle varianti introdotte in Ungheria oppure nella Repubblica Democratica Tedesca. Sull’argomento, il presidente del consiglio dei ministri Nikolai Ryzhkov, di cinquantasette anni, che è anche uno dei cinque premier fra i dodici titolari del Politburo, non ha lasciato alcuna speranza.
Certamente si intende razionalizzare la gestione e i rapporti tra il Piano e i suoi esecutori, per branche o settori o regioni. certamente si intende ammettere che il profitto potrà determinare salari e redditi delle imprese, invece di attenersi alle norme, quindi alla produzione statistica e non qualitativa. Certamente vi sarà una gestione autonoma delle imprese, tenendo conto delle indicazioni dei pianificatori; e nel settore agricolo le fattorie collettive potranno vendere sul mercato libero tutta la produzione eccedente le quote fissate dal Piano. Ma è tutto. Gli «ispettori» del partito continueranno a svolgere la funzione di cani da guardia, ciascuno con la speranza che non continui la spaventosa corruzione che, dall’alto al basso dell’apparato sotto Leonid Breznev, permetteva di truccare statistiche e bilanci, e di depistare la produzione verso il mercato nero.
E poi, nel 1987, «si» vedrà se sarà possibile procedere ancora a qualche ritocco. Nell’attesa, la parola d’ordine continua a essere, nel 1986 come nel 1985, «perestroika», cioè «ricominciamento», «ripresa in mano». Quindi disciplina, cioè quello che, in sintesi, si era già sentito al congresso del 1981.
Ma se l’apparato sovietico – comitato centrale e sue dipendenze dirette – non è realmente ringiovanito rispetto all’età media in seno al partito, e ancora meno in rapporto all’età media della popolazione, almeno compaiono, fino al seguito della segreteria e del Politburo, uomini tecnicamente qualificati, e non soltanto «amici di amici», come ai tempi di Leonid Breznev. Tali sono, per esempio, Y. Nikonov, incaricato del settore agro-industriale, nella segreteria per il clan Gorbaciov, oppure N. Talyzin, di cinquantasette anni, fra i supplenti del Politburo, incaricato del Piano statale, per il clan Ligaciov-Ryjkov-Eltsin.
Il caso Dobrynin: ammiccamento ai liberal americani
Fra i cinque nuovi segretari – su undici – merita di essere notata la comparsa di Anatoli Dobrynin, di sessantasette anni, ambasciatore negli Stati Uniti dal 1962, ormai incaricato degli affari internazionali. La scelta operata da Mikhail Gorbaciov è, in questo caso, quella di un personaggio che è entrato nel 1971 nel comitato centrale e che è uno specialista dei club, degli istituti e dei comitati che, negli Stati Uniti, decidono realmente la politica estera, chiunque sia il presidente in carica.
Così, Anatoli Dobrynin, oltre ai suoi amici Henry Kissinger o Samuel Pisar, frequenta da, ormai tredici anni i «colloqui» finanziati dalle Fondazioni Rockefeller, Ford e Carnegie. È stato fra coloro che hanno «istituzionalizzato», con i loro amici americani, diversi incontri permanenti che si immagina possano riorganizzare il mondo oppure «preservare la pace». In questo senso, la Grande Marcia per la Pace, che si è svolta nel marzo del 1986 negli Stati Uniti, è un risultato di questi incontri, con il coinvolgimento finale di una cinquantina di organizzazioni che vanno da Pax Christi all’Associazione per una Federazione Mondiale, passando attraverso Greenpeace e l’AFL-CIO come anche il Congresso Ebraico Americano e dodici organizzazioni pacifiste.
Lo stesso Anatoli Dobrynin, nel 1983 e soprattutto nel 1984 – nonostante l’«incidente di percorso» del Boeing abbattuto al largo dell’isola di Sachalin -, ha orchestrato negli Stati Uniti una delle riunioni più decisive del nostro tempo. Nel maggio del 1984, infatti, si è svolto un incontro di due giorni tra centoventicinque personalità sovietiche – fra cui una dozzina di ministri e di viceministri – della Nomenklatura economica dell’URSS, e duecentoventi patron oppure delegati delle più importanti multinazionali americane, come quelli della Pepsi-Cola, della General Motors, e così via.
Vi sono state poi sedute di lavoro sotto l’egida del Consiglio permanente sovietico-americano per il Commercio e l’Economia e del Comitato americano per un’intesa con l’Est, l’ACEWA. Evidentemente vi si ritrovavano Armand Hammer e Samuel Pisar, in compagnia di una dozzina di ex dirigenti americani, come Cyrus Vance. I lavori di questi signori hanno pesato direttamente sul summit di Ginevra, nel novembre del 1985, e si sono conclusi con il noleggio, per il mese seguente, di aerei speciali con destinazione Mosca e con a bordo trecentoventi uomini d’affari americani …
Proprio Cyrus Vance – uno degli interlocutori abituali di Anatoli Dobrynin – era discretamente presente a Mosca alla vigilia del XXVII congresso del Partito Comunista dell’URSS. Egli garantiva al capo dello Stato, Andrei Gromyko, che da parte americana sarebbe stato mantenuto l’orientamento verso la distensione. Venti giorni dopo, come per caso, Andrei Dobrynin diventava membro della segreteria del partito e il New York Times – con buone entrature per conoscere questi retroscena – sottolineava nei giorni seguenti, in un editoriale, che «grazie al canale Dobrynin Mosca può ormai evitare ogni interpretazione erronea relativamente alle intenzioni dell’amministrazione Reagan» (1).
L’amministrazione Reagan non è Ronald Reagan, cioè, in generale, non è assolutamente reaganiana, specialmente al dipartimento di Stato. Dagli anni Sessanta, infatti, l’amministrazione degli Stati Uniti è immutabilmente orientata nella direzione dell’intesa con l’URSS e di un mondo riorganizzato in comune con essa.
Mosca ha bisogno, per la sua economia, dell’aiuto americano, ma, a differenza dei suoi avversari – se ne esistono ancora a un certo livello – non perde mai di vista i suoi obiettivi né i mezzi per utilizzare il cinismo, o il candore, oppure la stupidità dell’establishment americano, continuando a perseguire i suoi fini sovversivi. Anatoli Dobrynin è l’uomo ideale per realizzare tutto questo, mentre Mosca fa sapere ai dirigenti dell’Europa Occidentale che dipende soltanto da loro se il dialogo sovietico-americano sarà per essi dannoso: basta che offrano all’URSS di meglio oppure a migliori condizioni degli Stati Uniti, nei campi politico, diplomatico e commerciale.
Insomma, tutto è semplice e chiaro: il XXVII congresso del Partito Comunista dell’URSS ha montato una struttura totalitaria appena ritoccata, assai poco ringiovanita, ma rafforzata da personaggi che sono autentici maestri della sovversione. Non si sa se François Mitterrand oppure la sua opposizione si siano resi conto della natura di quanti formano l’equipe di Mikhail Gorbaciov! E la stessa domanda si può porre a proposito dei dirigenti degli altri Stati dell’Europa Occidentale.
Pierre Faillant de Villemarest
Note:
(1) New York Times, 10-3-1986.