Da Libero del 20/03/2020. Foto da articolo
Dicono che i preti sono ormai pochi. E allora perché ne muoiono così tanti? A nessuno viene il dubbio che sia perché stanno disarmati in prima linea? Domenica a Bergamo ne erano spirati, coi polmoni secchi, già sette, e non se n’era accorto nessuno, prima che il vescovo Francesco Beschi avvertisse il popolo senza enfasi alcuna, quasi fosse normale routine. Hanno avvisato il Papa di questa strage misconosciuta il quale – mi dicono – ha pianto, quindi telefonato e ringraziato. Dovremmo metterci tutti un po’ di testa, in questa ecatombe, forse non tanto misteriosa. Mercoledì il numero dei presbiteri deceduti era salito a dieci. Ieri, a giornata non ancora finita, tredici. E l’epidemia purtroppo deve ancora spremere i suoi succhi più amari. Parroci e vicari sono anch’essi stati deposti nelle casse di legno, e se ne sono andati senza funerali, appoggiati nella loro bara qualunque, ciascuna con una vita unica, mescolati al gregge, sui camion dell’esercito, verso un crematorio chissà dove.
Niente cotta né pianeta bianca, né calzette da monsignore, per presentarsi al Principale. Anche Gesù non fu sepolto vestito da prete.
Avevano detto, i maligni – e neppure io mi sottratto a battute pasciute – che i preti in questi dì tremendi, evitano gli appestati, non imitano padre Cristoforo o San Camillo, pronti a soccorrere il moribondo, rischiando la pelle per un’anima, ma funzionari che agli ordini dello Stato hanno tirato giù la saracinesca dei sacramenti come gli impiegati abbassano lo sportello del catasto. Non era così, non è proprio andata come ce la siamo raccontata, immaginando i sacerdoti sepolti in canonica tali e quali a don Abbondio per recitare il breviario delle precauzioni. Perché allora sono morti se le celebrazioni sono state abrogate, e consacravano pane e vino da soli sull’altare o su un tavolino? Come si sono contagiati? Cosa c’è dentro i loro occhi adesso chiusi, cosa e chi hanno visto nei loro giorni estremi?
Visitate i malati
Il Papa aveva chiesto: non fate mancare l’eucaristia a chi ha bisogno, visitate i malati. Devono averlo fatto, senza suonare il campanellino del viatico, come raccontano i Promessi sposi, ma nella solitudine della città di Bergamo e delle Valli Orobiche, andando via rapidi. In Val Seriana, nella Bassa verso Cremona, su per i bricchi e giù per gli scoscendimenti, il curato resta l’essenza della comunità, la sorgente da cui non molti bevono, ma la si sente scrosciare e guai se non ci fosse, senza non c’è vita. Non rappresentano un’astrazione di valori e comandamenti, ma sono una faccia rossa che gioca a pallone all’oratorio, e risponde sia lodato Gesù Cristo alle bestemmie ai tavoli della briscola, giocando a chi si stufa prima, ma di solito vince lui. Uomini, cazzo!
Mi dico. Ma non erano tutti pedofili i preti? Non aspettano di solito i chierichetti in sacristia per infilare le mani nei calzoncini? Che vergogna. Abbiamo assecondato troppo facilmente l’identificazione tra abuso sessuale dei minori e sacerdozio. Persino l’alto clero ha accettato la bastonatura senza reagire. Lodevole volontà di pulizia, davanti a episodi gravissimi, ma invece di buttar fuori dalla barca il lerciume, hanno accettato atti di pirateria che hanno sfregiato la figura del parroco in quanto tale, consegnandone alcuni al linciaggio, innocenti fino a prova contraria, per salvare il salvabile.
Il cellulare
Molti tra i “don” morti sono anziani, certo. Ma il virus non ha razziato tra i rottamati del clero: i preti con le loro mani che consacrano, ungono, assolvono non dismettono mai, a novant’anni si fanno trasportare da braccia più forti di giovani in confessionale. E allora rischiano. Dappertutto in Italia, ma soprattutto in Lombardia. A si muore di più perchè il virus qui urla possente. Ma sulla porta della chiesa sotto casa, in Brianza, il prete ha incollato il suo numero di cellulare, «per chi ha necessità, don Paolo».
Non ha scritto: rivolgetevi al numero della Regione, della Diocesi, della guardia medica o spirituale. Per questo nel resto della Lombardia altri sette come lui sono deceduti, ma il conto salirà. In diocesi di Milano due preti di Comunione e liberazione, cappellani di universitari e da oratorio se ne sono andati svelti e amati.
Questi numeri orrendi sono meravigliosa testimonianza di chi siano, dove stiano e per cosa esistano i preti. Portano il divino-umano, anche quando stanno antipatici. Saperli morti – è strano – ma dà insieme dolore e consolazione. Perché? Non è la morte irraggiungibile dell’eroe, ma comunicano che forse la vita non è tutta qui. Forse «la tua grazia vale più della vita». Ho fatto un conto. I sacerdoti in diocesi di Bergamo sono 895. A epidemia lungi dall’estinguersi ne sono morti – dicevamo – tredici. Cioè l’1,45 totale. Una enormità. Raportiamolo alla popolazione italiana fatta di 60 milioni: vuol dire 413.793. Nessuno li considera tra gli eroi, perrché non lo sono: è il loro lavoro essere dentro il popolo. Morirci se necessario, nella fossa comune di questi giorni di lutto ci stanno bene, benedicono da lì, con le loro rugose mani consacrate.
Renato Farina