di Valter Maccantelli
Le informazioni disponibili sul ruolo svolto dai servizi segreti turchi (Mit, Millî İstihbarat Teşkilâtı, Organizzazione di Informazione Nazionale) nelle trattative per la liberazione di Silvia Romano hanno portato alla ribalta un fatto geopolitico piuttosto noto agli specialisti ma, a giudicare dalle reazioni di sorpresa, pressoché sconosciuto all’opinione pubblica nazionale cioè l’ingresso dei paesi del Corno d’Africa, nel caso specifico della Somalia, nella sfera di influenza della Turchia.
Queste evidenze hanno minato una radicata quanto anacronistica convinzione secondo la quale l’Italia sarebbe la nazione di riferimento in quell’area in virtù del passato coloniale e degli stretti rapporti che sono proseguiti con le nazioni del Corno d’Africa anche nel dopoguerra. Non è più così da molto tempo. Non che sul campo non si faccia nulla, anzi, gli interventi di supporto non sono mai venuti meno; manca evidentemente la capacità e la forza di capitalizzare politicamente questi sforzi.
Qualche tempo fa, dopo una conferenza, mi si avvicinò uno dei tanti membri della diaspora somala in Italia: era giunto nel nostro paese da non molti anni e, dopo qualche scambio di commenti sulla serata, mi complimentai per l’ottima conoscenza della nostra lingua acquisita in così poco tempo. Lui mi rispose: “io sono nato in Italia! cioè – aggiunse ridendo – non proprio in Italia, nell’ospedale degli italiani a Mogadiscio”.
Probabilmente si trattava dell’ospedale soprannominato comunemente Digfer, costruito nel 1960 dalla ditta Degola e Ferretti in collaborazione con la Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia. Se tra qualche anno mi capitasse di incontrare un discendente di quel somalo, la battuta sarebbe che è nato in Turchia, o quasi. Il Digfer è stato ristrutturato a partire dal 2013 in collaborazione con il ministero della sanità turco e ribattezzato nel 2015 Erdogan Hospital. Lo stesso Presidente Recep Tayyip Erdogan ha presenziato alla sua inaugurazione e da allora vi operano più di 50 fra medici, operatori sanitari e della sicurezza, provenienti dalla Turchia.
Chiaramente per capire come questo sia potuto accadere e a che punto sia arrivata tale influenza turca in Somalia – ma la stessa cosa possiamo dire di Etiopia, Eritrea, perfino del Sud Sudan – bisogna partire da che cosa è diventata la Somalia in questi anni, e per questo vi rimando ad un prossimo approfondimento.
La presenza in loco per Ankara non è a buon mercato e la prima domanda da farsi è perché Erdogan nell’ultimo decennio, non certo grasso dal punto di vista economico, ha investito tanto nell’area. Dal punto di vista storico – sempre tenuto in gran conto nella retorica politica turca – il territorio somalo non ha mai fatto parte dell’Impero Ottomano ma le relazioni tra i due popoli sono antiche: a partire dal XV secolo i somali si sono sempre schierati a sostegno della Sublime Porta e rientravano a buon diritto nella sua sfera di influenza.
Erdogan, anche in questo periodo di ristrettezze economiche, non ha mai abbandonato le sue aspirazioni geopolitiche neo-ottomane che mirano a trasformare la Turchia in una potenza sovra-regionale. Deve quindi estendere il suo potere (sia hard che soft) ad est, verso l’Asia centrale, riappropriandosi degli spazi turcofoni in competizione con Russia e Cina, ad ovest, verso il mediterraneo e il Nord-Africa (Siria, Egitto, Libia) in competizione con l’Europa e l’Italia, a sud verso il Golfo Persico, il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, in competizione con le petromonarchie arabe.
Ciò premesso l’importanza del Corno d’Africa per Ankara risulta lampante anche solo guardando la carta geografica. La Turchia, nonostante il doppio affaccio su Mediterraneo e Mar Nero e il controllo del Bosforo, percepisce storicamente sé stessa come “anatolica” e quindi terrestre. Sugli altopiani centrali batte il suo cuore e si è forgiato il suo spirito da lontane radici tataro-mongole. Ma oggi il colore della potenza geopolitica è il blu, quello delle acque profonde, dei mari aperti e dei loro passaggi di transito. Lo ha accettato anche la Russia, che pure resta l’unico impero della storia divenuto una potenza globale senza andare per mare.
Il Corno d’Africa e la Somalia in particolare rappresentano il vertice meridionale – gli altri due sono il Kurdistan iracheno a nord-est e la Libia ad ovest – di un triangolo di posizioni per la proiezione di potenza. La fascia costiera somala nella parte meridionale si affaccia sul Golfo di Aden che senza barriere sfuma nell’Oceano Indiano fino al sub continente controllato da Nuova Delhi; in quella settentrionale è dirimpettaia dello Yemen e costituisce il secondo stipite della porta del Mar Rosso: Bab al Mandab, appunto.
La stessa frammentazione in corso del territorio somalo riflette una delle direttrici dello scontro geopolitico della Turchia con i vicini arabi. Istanbul è schierata a supporto del governo centrale di Mogadiscio mentre le due province ribelli del Somaliland e del Puntland sono sostenute da Emirati Arabi Uniti su mandato saudita, per coprirsi sul fianco occidentale del Mar Rosso e non lasciare campo libero alla Turchia.
È chiaro che per fare della Somalia la sua punta di lancia nei mari a sud della penisola arabica, Ankara vorrebbe stabilità. E’ per questo che è schierata con il governo centrale e che una gran parte dell’aiuto che fornisce a Mogadiscio è di tipo militare, grazie anche alla capacità sempre maggiore delle sue forze armate di sostenere missioni in teatri distanti. Nel 2017 è stata inaugurata nelle vicinanze dell’aeroporto di Mogadiscio la più grande base militare turca al di fuori dei suoi confini nazionali nella quale si formano tutti gli ufficiali dell’esercito somalo, che si diplomano cantando l’inno dell’accademia militare turca e prestando giuramento in turco.
La Somalia rappresenta anche il banco di prova di una strategia che Erdogan sembra voler replicare in Libia: intervenire militarmente nella bagarre di uno stato sull’orlo dell’implosione e consolidare i rapporti con investimenti infrastrutturali che permettano una penetrazione di istituzioni e personale turco nei gangli vitali del paese.
Nell’infuriare della discussione qualcuno si è spinto a chiedere se il supposto ruolo del Mit nella vicenda di Silvia Romano sia stato in qualche modo pagato dal governo italiano. Ipotesi davvero improbabile e non solo perché estranea al galateo per questo genere di prestazioni ma perché Erdogan il suo tornaconto lo ha già avuto. Un tornaconto posturale che attesta il suo ruolo di potere nella regione, talmente stabile da poter essere esercitato in favore di paesi terzi e in un momento come questo, nel quale gli apparati di grandi nazioni non riescono neppure ad aiutare sé stessi all’interno dei propri confini. Il farlo in quello che fino a qualche anno addietro era il cortile di casa di chi oggi ti chiede aiuto, come dice la pubblicità, non ha prezzo.
Un tornaconto Erdogan che si è premurato di riscuotere grazie alla diffusione da parte dell’agenzia di stampa paragovernativa Anadolu, della famosa foto della Romano appena liberata che indossa un giubbotto antiproiettile con le insegne dell’esercito turco, definita una fake dai servizi italiani ma che comunque ha portato in evidenza su tutti i media del mondo il ruolo svolto dai turchi nella vicenda.
Attenzione: dire che l’intermediazione non è stata pagata non vuol dire che sia stata gratuita per l’Italia. La posizione di subordine nella quale ci siamo messi garantisce ad Erdogan e al mondo intero che il nostro paese rinuncia di fatto ad avere un ruolo autonomo nella regione lasciando campo libero ai turchi. Ma c’è dell’altro.
La Somalia non è l’unico teatro in cui il sultano può giocarsi questo jolly: vi è anche il Mediterraneo nel quale Italia e Turchia sono in contenzioso sullo spinoso tema delle prospezioni petrolifere dei giacimenti nel mare di Cipro. Ricordiamo tutti il blocco della nave Saipem 12000 in acque cipriote da parte della marina turca nel febbraio 2018. Anche su questo fronte il pasticcio di questi giorni , irresponsabilmente trasmesso in mondovisione, non ci mette certo in una posizione di forza.
Le posture geopolitiche e le strategie di sicurezza nazionale sono gli ambiti di governo nei quali occorrono cultura, esperienza, professionalità, uniti all’attenzione per il bene comune e superiore della nazione. Lascio al lettore giudicare, dai risultati, il livello attuale di questa visione in Italia.
Martedì, 19 maggio 2020