di Marco Invernizzi
È difficile una valutazione completa e significativa del tempo della pandemia appena trascorso e non ancora concluso. Troppe le valutazioni da fare di carattere religioso e politico, riguardanti il comportamento della Chiesa italiana e dello Stato, non esente da criticità in entrambi i casi. Rimando a una analisi più profonda anche se non ancora completa (e come potrebbe?) sul n. 403 di Cristianità per la penna di Domenico Airoma.
Credo che non si debbano trascurare le vittime, 35mila circa secondo il Dipartimento della protezione civile alla fine di giugno, tante anche se concentrate in poche regioni e province, e nemmeno chi ha combattuto in prima linea la “buona battaglia” per la vita degli altri, medici e infermieri, e i sacerdoti che sono sempre stati vicini ai fedeli, ma anche tante famiglie costrette a casa a fare smartworking, con i figli da gestire, con gli anziani in ospedale o rintanati in casa per paura del virus: dimenticarle sarebbe l’ingiustizia peggiore. Mi rendo anche conto di come il tempo della pandemia sia stato percepito diversamente dai diversi punti di vista geografici e anche questo forse avrebbe meritato maggiore attenzione perché certe limitazioni, forse essenziali per combattere e limitare la diffusione del virus in alcune regioni e province, in altre sono state percepite come inutili e dannose.
La mia breve riflessione prende spunto dalle parole che il Papa ha rivolto a medici, infermieri e operatori sanitari della Lombardia, ricevuti il 20 giugno con il Presidente della Regione Attilio Fontana e i vescovi di Milano, Bergamo, Brescia, Cremona, Crema e Lodi, oltre al vescovo di Padova, diocesi colpita soprattutto nel paese di Vo’ Euganeo. Spesso il Pontefice viene ripreso solo quando può essere criticato o quando fa delle affermazioni che possono essere “giocate” in maniera ambigua sui titoli dei giornali, nella vana speranza di fermare la crisi delle vendite dei giornali stessi. È un errore, soprattutto quando viene fatto da chi si professa cattolico, il cui compito dovrebbe essere anzitutto quello di comunicare le parole del Magistero.
«I pazienti hanno sentito spesso di avere accanto a sé degli “angeli”» – ha detto il Pontefice riferendosi a medici, infermieri e operatori sanitari – «che li hanno aiutati a recuperare la salute e, nello stesso tempo, li hanno consolati, sostenuti, e a volte accompagnati fino alle soglie dell’incontro finale con il Signore». È una riflessione non banale in un tempo in cui molti sperimentano la riduzione dell’umanità nei rapporti fra il medico e il paziente, mentre negli ospedali delle città più colpite, Bergamo e Brescia, Codogno e Piacenza per citarne solo alcune, sono stati tenuti autentici comportamenti eroici fino all’estremo sacrificio della vita. Faccio soltanto l’esempio di un medico milanese di 56 anni, con quattro figli, che è andato a fare dei turni di volontariato in un ospedale della bergamasca, come mi ha raccontato il suo direttore spirituale, contraendo il coronavirus e morendo dopo una lunga degenza in un ospedale milanese.
«Adesso, è il momento di fare tesoro di tutta questa energia positiva che è stata investita. Non dimenticare!» – ha ricordato il Santo Padre – perché questa è stata «una ricchezza che in parte, certamente, è andata “a fondo perduto”, nel dramma dell’emergenza; ma in buona parte può e deve portare frutto per il presente e il futuro della società lombarda e italiana».
Ricordare per ricostruire, per evitare che questa “prova” sia stata inutile, se non dannosa. Ma se ricostruire significa certamente prevedere un’analisi politica e pastorale da parte delle istituzioni civili e religiose, significa anche e soprattutto «ripartire dalle innumerevoli testimonianze di amore generoso e gratuito, che hanno lasciato un’impronta indelebile nelle coscienze e nel tessuto della società, insegnando quanto ci sia bisogno di vicinanza, di cura, di sacrificio per alimentare la fraternità e la convivenza civile». A qualcuno potrebbe apparire scontato e al limite inutile questo tipo di osservazione; in realtà la speranza in un mondo migliore non può nascere dall’alto, da provvedimenti, peraltro necessari ma che finora il nostro governo non ha concretizzato minimamente, lasciati cadere su una società in preda al relativismo e alla disperazione. Una società, quella italiana odierna, che avrebbe bisogno di un governo che la aiuti a risollevarsi partendo dalle sue capacità, secondo quel principio di sussidiarietà che sembra scomparso dall’orizzonte della politica italiana post-coronavirus, come ha notato fra altri il sociologo Luca Ricolfi paventando il passaggio da una “società signorile di massa” in cui si viveva al di sopra delle proprie possibilità a una “società parassitaria di massa”, in cui si sopravvive solo fino a quando lo Stato avrà la possibilità di elargire sussidi. Una specie di Venezuela, per capirsi.
Ma il principio di sussidiarietà prevede qualcuno che voglia farci uscire dall’individualismo, che il Papa denuncia essere diventato «il principio-guida della società», e coltivi invece la speranza, come quella infusa negli ammalati da quei «sacerdoti che sono rimasti accanto al loro popolo nella condivisione premurosa e quotidiana: sono stati segno della presenza consolante di Dio». Quella speranza così fondamentale per superare e vincere la tristezza della nostra epoca.
Giovedì, 26 giugno 2020