Nel dibattito pubblico si tende a considerare la ricchezza come una “variabile indipendente”, focalizzando l’attenzione sulla “disuguaglianza” e di conseguenza su aspetti “redistributivi”. Le dimensioni della “torta” della ricchezza, in realtà, dipendono anche dal modo in cui ne vengono tagliate e distribuite le “fette”. Non sappiamo se il “socialismo finanziario” verso cui stiamo andando ci renderà più uguali, certamente ci renderà più poveri.
di Maurizio Milano
Partiamo dalla domanda: chi e come genera la ricchezza? L’esperienza ci insegna che il benessere economico è il frutto del lavoro e del risparmio: il risparmio sostiene gli investimenti, che fanno aumentare la produttività del lavoro e quindi la quantità, qualità e varietà dei beni disponibili, creando nel contempo le condizioni per una salita generalizzata di salari e stipendi in termini reali, cioè di “potere d’acquisto”. Se i “bisogni” dell’uomo, potenzialmente, sono “illimitati”, le risorse risulteranno per definizione “scarse” rispetto ai bisogni: la loro allocazione ottimale è quindi essenziale per la miglior crescita della vita economica e sociale. Il lavoro dell’uomo, coordinato dal genio imprenditoriale, insieme al “capitale” frutto del risparmio, in un quadro giuridico che garantisca una libera e leale concorrenza, consente di far crescere la “torta della ricchezza”, nel tempo e nello spazio. Non è il “consumo”, magari a debito spinto da politiche keynesiane di deficit spending, che genera la ricchezza; è invece la ricchezza prodotta lavorando, risparmiando e investendo, che rende possibile il consumo. Il focus non deve essere sulla domanda – sui consumi –, bensì sull’offerta – sulla produzione –, come ben insegna la scuola austriaca di economia.
Ma esiste un caveat: il processo di libera collaborazione tra gli uomini funziona soltanto se esiste la libertà, se il lavoro e il sacrificio vengono premiati, se i prezzi che veicolano le informazioni alla base dei calcoli di convenienza economica per la corretta allocazione delle risorse non sono falsificati, se il potere d’acquisto del denaro non viene manipolato. In assenza di tali condizioni, la redditività del lavoro tracolla, come ci ha insegnato l’esperienza dei paesi del socialismo reale e anche quella dei modelli di “Stato assistenziale” che pretendono di accentrare la ricchezza per poi provvedere direttamente ai bisogni dell’individuo, “dalla culla alla bara”, in sistemi socio-economici caratterizzati da elevata pressione fiscale, altissima spesa pubblica e perimetro di intervento pubblico amplissimo.
«Non siamo né al principio né al termine, ma siamo in una via, che sempre più declina verso un abisso […], l’inferno del socialismo, ultima e necessaria conseguenza del liberalismo»: così prevedeva profeticamente la Civiltà Cattolica nel lontano 1886(Serie XIII, Vol. 1, Quaderno 853, pag. 394). Anche Papa Leone XIII, nell’enciclica Rerum Novarum del 1891 (cfr. nr. 3-12), ammoniva che il «falso rimedio del socialismo» ai mali sociali era in realtà «peggiore del male»: «tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria individuale», infatti, le «fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero». Un secolo dopo, Papa Giovanni Paolo II ricordava che «intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con crescita enorme delle spese» (cfr. Centesimus annus, 1991, nr. 48). La violazione del principio di sussidiarietà, conseguenza di un errore antropologico e di una visione distorta del ruolo dello stato in ordine al bene comune, rende meno liberi, meno responsabili e più poveri; insomma, fa diminuire le dimensioni della torta.
Giunti al 2020, constatiamo che l’accentramento della ricchezza prosegue, anzi post-Covid sta accelerando: non solo per l’interventismo statale che quasi ovunque nel mondo va a ridurre sempre più gli spazi di sussidiarietà, ma anche per il “socialismo finanziario” delle Banche Centrali, oramai prigioniere delle loro politiche monetarie ultra-espansive. Le banche centrali non possono generare ricchezza né dare solvibilità, possono però creare faustianamente denaro dal nulla, virtualmente senza limiti, denaro fiat senza valore intrinseco. La liquidità globale è raddoppiata dai 40 trilioni di $Usa del 2008 agli 80 trilioni pre-Covid, per balzare verso gli 87 trilioni negli ultimi mesi, andando ad alimentare artificialmente la crescita dei mercati azionari e dei corsi obbligazionari, favorendo il formarsi di un debito globale che ha superato i 250 trilioni di $Usa, oltre il 100% del Pil mondiale. I fiumi di liquidità creata dal nulla hanno generato una discrasia forte e crescente tra le dinamiche dell’economia reale e le dinamiche finanziarie.
In una vera e propria “finanziarizzazione” dell’economia mondiale, con una “repressione finanziaria” che spinge i rendimenti obbligazionari verso e sotto lo zero – un’usura ai danni del creditore/risparmiatore – le banche centrali acquistano mensilmente sul mercato secondario centinaia di miliardi di controvalore di obbligazioni pubbliche e private, anche quelle di standing creditizio divenuto molto basso post-Covid. In caso di nuovi crash finanziari non si può escludere che potrebbero spingersi – andando oltre i loro mandati – ad acquistare anche titoli classificati come junk bond già prima del Covid, i c.d. “titoli spazzatura”, con un gigantesco bail-out dei debitori che salverebbe le imprese zombie con concorrenza sleale nei confronti di quelle sane; in casi estremi potrebbero spingersi ad acquistare titoli governativi sul mercato primario o addirittura titoli azionari, o mettere denaro creato dal nulla nelle tasche dei cittadini (il cosiddetto helicopter money), per tentare un’uscita inflazionistica dalla crisi come capita dopo le guerre, o portare il sistema verso tassi nominali negativi sui conti correnti. Ancora, potrebbero penalizzare l’uso del contante – un chiodo fisso delle sinistre – ed introdurre divise digitali con rendimenti nominali fortemente negativi. Si arriverebbe così ad un accentramento completo del sistema finanziario presso le banche centrali stesse, che diverrebbero – ma forse lo sono già – i principali attori e registi della vita economica e sociale delle nazioni. Un vero e proprio socialismo finanziario, come dicevamo, con una totale distruzione del meccanismo di price discovery, che è essenziale per veicolare le informazioni necessarie per un’allocazione ottimale delle risorse. Per non parlare dei rischi di derive inflazionistiche, una sorta di “tassa occulta” sul risparmio e sui redditi fissi, con pesanti effetti redistributivi della ricchezza.
La repressione finanziaria con i rendimenti in territorio nullo o addirittura negativo porta infatti a molteplici effetti distorsivi: il risparmio viene scoraggiato a vantaggio del consumo, si trasferisce surrettiziamente ricchezza dai creditori ai debitori, si incentivano l’azzardo morale e i cattivi investimenti sia finanziari che nell’economia reale, minando così alle basi il processo di accumulazione di capitale che solo fa aumentare la produttività del lavoro, spinge la crescita e favorisce il benessere generale.Tra le principali vittime, i giovani e le future generazioni.
L’esito ultimo di tale processo vedrebbe il “reddito di cittadinanza universale” di una società disarticolata, in totale collasso demografico e crisi delle famiglie, ridotta a somma di individui che dipendono dalla “paghetta” pubblica. Un welfare state onnicomprensivo, finanziato da una pressione fiscale crescente, con ovvie conseguenze di forte limitazione della libertà e dell’autonomia personale e familiare. Le crisi, la storia insegna, spingono sempre verso una concentrazione del potere, purtroppo con il consenso dei consociati che abdicano volentieri alla propria libertà in cambio della speranza, illusoria, di ricavarne in compenso maggiore sicurezza. Le crisi tendono a comprimere la sussidiarietà, quando solo il decentramento consentirebbe invece di fornire risposte tempestive e adeguate alle esigenze.
Il processo in atto da decenni – in accelerazione post-Covid – porta alla progressiva contrazione della classe media e se favorisce un’“eguaglianza” è proprio nel senso di un impoverimento generalizzato, non solo economico ma anche morale: scoraggiare il lavoro, la concorrenza libera e leale, il risparmio, la pianificazione della propria indipendenza personale e familiare genera l’atrofizzazione di quelle virtù fondamentali di laboriosità, prudenza, risparmio e iniziativa imprenditoriale che fanno crescere la torta della ricchezza, a vantaggio di tutti. I “talenti”, come tutti i doni del buon Dio, vanno fatti fruttificare, non sotterrati o mortificati alterando le regole del gioco.
Il “socialismo finanziario” e il capitalismo clientelare – per di più in un contesto di inverno demografico e debito accumulato insostenibile – faranno diminuire ancora di più la “torta della ricchezza” negli anni a venire, non solo in Italia. Nel nostro paese ciò metterà in crisi quella «società signorile di massa» in cui siamo vissuti negli ultimi decenni, «una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano», secondo la lucida descrizione del sociologo e professore all’Università di Torino, Luca Ricolfi. La pretesa dei cittadini di essere mantenuti dal governo; la pretesa delle aziende insolventi e degli investitori imprudenti di essere “salvati” col denaro dei contribuenti; la pretesa di Pd e M5s di essere mantenuti da sussidi a fondo perduto da parte dell’Unione europea; la pretesa di consumare senza produrre; la pretesa di non onorare i debiti: la società italiana post-Covid, ipotizza ancora Ricolfi, sta degenerando in una «società parassita di massa», popolata da tanti non-produttori che vivranno in condizioni di dipendenza dall’assistenzialismo statale? In tale “decrescita infelice” pentastellata i «parassiti signori» di ieri rischiano di diventare i «parassiti sudditi» di domani.
Giorvedì, 16 luglio 2020