Valter Maccantelli, Cristianità n. 400 (2019)
Testo, rivisto e annotato, dell’intervento tenuto nel corso della prima sessione del convegno 30 anni senza Muro. L’Europa non nata, organizzato da Alleanza Cattolica a Roma, presso il Salone dei Piceni, il 16 novembre 2019. È stato mantenuto lo stile colloquiale della relazione.
Sembra ieri
Sembra ieri, quella sera di novembre nella quale i telegiornali hanno cominciato a trasmettere le immagini della folla che da Berlino Est si riversava ai check point per passare nel settore occidentale e — quando i varchi non sono più bastati — ha cominciato a scavalcare il Muro, a picconarlo, a sedersi sulla sommità, con un bicchiere di birra in mano, semplicemente guardando dall’altra parte.
Sembra ieri e invece sono passati trent’anni. Non è, come potrebbe sembrare, l’esclamazione di chi, invecchiando, ha la sensazione che la storia cammini più velocemente solo perché è lui ad andare più lento. Non è stata un’illusione. La caduta del Muro ha rappresentato veramente un cambio di marcia, di passo, nell’avanzare della storia non solo dell’Europa ma del mondo intero e chi, come alcuni di noi, ha vissuto parte della sua esistenza prima del 1989 e parte dopo, non si sbaglia nel percepire la staticità del mondo «ingessato» nella Guerra Fredda (1946-1991) e la vorticosità devastante di quello del trentennio successivo, quello che arriva a fino noi, oggi, qui.
Noi parliamo del crollo del Muro e di una data specifica, ma nella prospettiva della storia — non della cronaca — sotto il titolo «caduta del Muro di Berlino» dobbiamo catalogare un periodo ben più che un evento. Un lasso di tempo che potremmo inquadrare fra l’elezione alla Cattedra di Pietro nel 1978 di un giovane cardinale polacco, che diventerà san Giovanni Paolo II (1978-2005), e la firma dei cosiddetti accordi di Belaveza, nel 1991, che sancirono la fine dell’URSS come soggetto politico.
Questo cambio di velocità e di paradigma — proprio perché si percepisce solo nel vissuto, meglio se un vissuto di militanza — è forse la cosa più difficile da trasmettere alle nuove generazioni: la maggior parte dei giovani a cui mi capita di parlare sono nati anni, ormai decenni, dopo la caduta del Muro e guardano a quei fatti, se e quando ci guardano, più o meno con lo stesso pathos con il quale io guardo alle guerre napoleoniche. Forse meno, perché quando penso alle guerre napoleoniche io ancora mi arrabbio.
È una nostra responsabilità precisa far percepire loro non solo il ricordo dei fatti dolorosi che hanno costellato il «mondo oltre il Muro», ma anche, direi soprattutto — e lo dico con il massimo rispetto per quel dolore —, che questo mondo è figlio di quello. Si può obiettare che questo mondo è figlio di tutta la storia precedente, ed è vero. Ma qui si tratta di una filiazione diretta, senza soluzione di continuità.
Fuor di metafora geriatrica, il fatto che siano passati trent’anni, e che siano passati in questo modo, ci consente — direi ci obbliga — a uscire dall’ottica meramente rievocativa nella cui tentazione potremmo cadere, per addentrarsi nel perimetro di una storia più «ragionata».
Non per dimenticare, anzi! Per meglio ricordare. Perché è dall’interiorizzazione e dalla sedimentazione consapevole degli eventi che scaturisce il ricordo più duraturo e certamente più utile: la cultura di un evento storico nel senso vero del termine.
Che cosa è stato il Muro di Berlino?
La storia «semplice», quella dei fatti materiali, che non va assolutizzata ma neppure trascurata, ce lo descrive con nitida chiarezza: un muro, di pietre, di mattoni, di cemento, che ha diviso a metà la capitale della Germania sconfitta, separando il settore occupato dall’Armata Rossa dell’Unione Sovietica da quelli occupati dalle altre potenze vincitrici: Stati Uniti d’America, Regno Unito e Francia.
Un’ampia filmografia ce lo descrive come una divisione fra russi e americani, ma ricordiamoci che — ovviamente — è stato in primo luogo una divisione fra tedeschi. Certo, il confine fra le due Germanie non passava da Berlino, passava anzi molto lontano verso Ovest, essendo Berlino rimasta isolata al centro della parte di suolo tedesco liberata/occupata dalle truppe sovietiche. Il Muro era però un confine nel confine, che esprimeva questa divisione con la quale le potenze vincitrici da un lato speravano, spezzandone in due la massa critica, di stroncare le velleità di dominio che periodicamente erano emerse nello spirito tedesco e dall’altro sancivano la divisione di quell’Europa che, passata dagli imperi agli Stati nazionali, aveva partorito due devastanti guerre in meno di mezzo secolo.
Ma il Muro ha costituito anche l’icona di una divisione ben più ampia: era il tratto in muratura di quella che Winston Churchill (1874-1965) aveva definito la Cortina di Ferro, anche se era fisicamente decentrato rispetto a essa. Una linea ininterrotta di reticolati di filo spinato, cavalli di frisia, torrette di osservazioni, postazioni militari pesantemente armate, che divideva l’Europa dall’estremo nord della Norvegia fino alla Turchia. È stata questa per quarant’anni la vera linea di frattura, la linea del fronte — quasi in stile «trincea» della Prima Guerra Mondiale (1914-1918) — della Guerra Fredda.
Il Muro di Berlino ne era il simbolo, il monumento che più icasticamente la rappresentava proprio nella sua mostruosità visiva: quei condomini tagliati a metà, quei vicoli dimezzati sui quali si affacciavano palazzi con le finestre murate, quelle piazze mutilate che solo il bianco e nero delle vecchie fotografie descrivono nella loro cupa tristezza. Qualcosa che, proprio perché attraversava e tagliava a metà quella che era stata una delle più grandi capitali europee, rendeva molto meglio l’idea della divisione di un continente, certamente meglio di una recinzione in aperta campagna.
Abbiamo detto un simbolo, ma un simbolo «non simbolico», al contrario molto reale. Era il Muro di una prigione, una prigione da cui moltissimi hanno provato a evadere, e molti sono morti nel tentativo: 140 nel solo tratto berlinese, 700 lungo tutto il confine fra le Germanie, un numero che non conosceremo mai lungo tutta la Cortina.
O meglio, era la porta di una prigione sulla cui soglia si sono consumate queste tragedie che erano però un minimo riflesso di quel che accadeva all’interno, dove il social-comunismo ha mostrato nei decenni il suo vero volto: quello di una società costruita su princìpi antropologici «intrinsecamente perversi» (1) — per usare l’espressione di Papa Pio XI (1922-1939) — e quindi «antropofobici», dominati cioè dall’odio per quell’uomo vecchio che rifiutava la metamorfosi dell’uomo nuovo, dell’homo sovieticus.
Attorno al Muro vi era il resto del mondo che in esso si rifletteva. Un mondo che è stato giustamente definito bipolare, nel senso geopolitico del termine. Al di qua c’era «l’Occidente» e al di là il comunismo. Tutto si riconciliava in questi due schieramenti e tutto poteva essere riassunto in termini dicotomici: capitalismo a ovest e statalismo a est, democrazia di qua e totalitarismo di là, libertà a occidente e censura a oriente, Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) di qua e Patto di Varsavia di là, e potremmo continuare.
Se sul piano storico il Muro è stato la divisione del bottino della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e sul piano pratico è stato un fronte tiepido della Guerra Fredda, sul piano geopolitico è stato la linea di faglia che ha separato due imperi ciascuno con la sua corte di alleati, i suoi eserciti, la sua «sublime porta» — una a Washington e l’altra a Mosca —, la sua moneta — l’impero del dollaro contro quello del rublo. La pervadenza omnidimesionale di questa dicotomia ha determinato la geopolitica dell’ultima metà del secolo XX. Qualunque mutamento si presentasse alla cronaca, un cambio di regime, un colpo di Stato, la fine o l’inizio di una guerra, dall’America Latina all’Africa, al Sud-Est asiatico, il giudizio era rapido e semplice: quelli che venivano sostenuti o riconosciuti prima da Washington erano «nostri» e quelli riconosciuti prima o sostenuti da Mosca erano «gli altri».
Non contavano il perché, o a quale etnia o religione appartenessero, le condizioni sociali e quelle politiche. O si stava di qua o di là. Quando diciamo che quello era un mondo bipolare lo diciamo a tutto tondo, come se due semi-gusci, più o meno simmetrici, incapsulassero il pianeta in un gigantesco blister.
Perché è caduto il Muro di Berlino?
Sono sicuro che alcune risposte ci saranno offerte da ciascuno degli autorevoli interventi che seguiranno. Voglio qui limitarmi a qualche osservazione di metodo. Molte delle spiegazioni che ho sentito in queste settimane cadono, a mio parere, in due errori: il riduzionismo e la monocausalità. E in alcuni casi ho il dubbio che non lo facciano in buona fede.
Il riduzionismo è l’errore peggiore, direi il più malevolo. Siccome quello imploso insieme al Muro è stato il social-comunismo, un’ideologia con la quale molti in Occidente hanno flirtato con utopico entusiasmo, coprendone i crimini con complice silenzio, e molti di questi innamorati delusi, dopo infinite metamorfosi, occupano tuttora ruoli guida nei media come nella politica, si va diffondendo una specie di postuma omertà. Il Muro, la Cortina di Ferro, i regimi — raramente chiamati con il loro nome, cioè comunisti — sono caduti non sotto il peso del male che hanno incarnato, ma travolti da un improvviso slancio edonistico dei popoli d’oltre Cortina.
Ci raccontano che Nostro Signore è morto di freddo! La gente avrebbe scavalcato il Muro per avere auto migliori, birra gratis, film a luci rosa o rosse, vestiti più alla moda. Forse, probabilmente, anche. Ma la lettura completa del fatto non può ignorare che a cadere sono stati i sistemi politici basati sull’ideologia comunista che ci venivano proposti come esempi di «socialismo reale». Proprio per questo il loro crollo ha un significato storico: perché il socialismo «reale» ha dimostrato di non poter reggere il confronto con la realtà, incaricatasi di dimostrare che non si può tenere prigioniero un popolo contro la propria natura, almeno non per sempre.
La natura sistemica di questo crollo batte in breccia l’altro errore, spesso commesso anche da persone in buona fede: il monocausalismo, la spiegazione unica. Molti, vittime dell’economicismo — versione patinata dello stesso materialismo di cui si festeggia il crollo — vorrebbero spiegare gli eventi con la sola insostenibilità dell’economia socialista. Cosa senza dubbio vera, causa fra le prime da catalogare, ma non esclusiva. Anche perché molti degli Stati che si sono affrancati negli anni successivi si sono trovati economicamente peggio di prima, tanto da far temere in più di un’occasione un ritorno volontario dell’elettorato d’oltre Cortina al comunismo.
Le tendenze centripete degli Stati satelliti spiegano molto. Il riemergere delle identità etniche e religiose, specialmente islamiche, dal Caucaso all’Asia centrale all’Afghanistan, è stato un potente fattore di crisi dell’impero sovietico. Da solo però non basta: al Cremlino si erano arresi da anni all’idea di perdere, o addirittura di espellere segmenti d’impero nella consapevolezza di non poterne più reggere il costo.
La competizione militare, portata su di un altro piano dalla presidenza di Ronald Wilson Reagan (1911-2004), al governo fra il 1981 e il 1989, con il suo progetto delle «guerre stellari», evidenziava oramai l’incapacità sovietica non solo di espandersi aggressivamente, ma persino di difendere la madrepatria da aggressioni di portata strategica. Ma, in fondo, quel tipo di guerra non sarebbe mai stata combattuta.
Anche le aspirazioni a uno stile di vita quotidiana migliore hanno giocato un ruolo: l’embrione della globalizzazione si stava impiantando e proiettava al di là del Muro aspirazioni e desideri che il Cremlino e i suoi regimi satelliti non erano più in grado di soddisfare.
Molto probabilmente a produrre il crollo del sistema del Muro sono state tutte queste cause, e altre ancora, che si sono sommate e sincronizzate. Ma — questo è un debito d’onore che dobbiamo pagare ancora oggi ai popoli, cioè agli uomini e alle donne dell’Est, che hanno combattuto la battaglia sotterranea della resistenza e del dissenso — vi è di più. Vi sono la lotta, il coraggio, la tenacia di chi ha combattuto nel silenzio, in clandestinità, scrivendo, parlando o semplicemente resistendo; di chi come Aleksandr Solženicyn (1918-2008) è rimasto in piedi a testimoniare la verità in mezzo alle rovine dell’errore. Mi piace credere che, molto distanziato nel merito, abbia contribuito in qualcosa anche chi da questa parte non si è allineato al «pensiero unico» e ha continuato a denunciare l’abominio comunista con i mezzi di cui disponeva.
Che cosa è successo dopo la caduta del Muro?
Comunque la si voglia mettere, però, il Muro e la Cortina di Ferro sono crollati e con essi i regimi che li avevano costruiti. Nel 1992 fu pubblicato un testo, che ebbe fama anche da noi, del politologo statunitense Francis Fukuyama intitolato La fine della storia e l’ultimo uomo (2). Si tratta di un titolo chiaramente provocatorio. È evidente che la storia non può tecnicamente finire, almeno fino a quando esiste un’umanità.
Fukuyama in realtà teorizza che la storia è «finita» — nel senso di «compiuta» — perché non c’è più molto da dire. Il crollo della prospettiva politico-ideologica concorrente ha confermato che la democrazia liberale — e l’economia di mercato, anche se tecnicamente Fukuyama non la cita — sono l’espressione più completa della volontà umana di organizzarsi in società. L’ultimo uomo è l’ultimo modello di uomo incarnato dal cittadino ideale di tale democrazia, anch’esso unico sopravvissuto all’ordalia della storia dopo il suicidio dell’homo sovieticus.
A queste tesi si contrapposero quelle di un altro politologo statunitense, Samuel Philips Huntington (1927-2008), riassunte in un articolo per la rivista Foreign Affairs del 1993 e sfociate nell’omonimo volume edito nel 1996, intitolato Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (3). Vi si sosteneva che con la fine del mondo bipolare, esattamente come lo abbiamo descritto prima, non sarebbe affatto nato un mondo unipolare bensì un mondo multipolare. Ciò che era stato ibernato sotto la calotta del bipolarismo — le identità popolari, le religioni, le società, le culture, gli stili e le aspirazioni di vita: in una parola le «civiltà» — sarebbero riemerse e avrebbero costituito il nuovo palcoscenico geopolitico del mondo.
Le due tesi furono messe in competizione. In realtà non erano alternative, ma complementari. Fukuyama descriveva un problema, quello del nuovo ordine mondiale, e le modalità con cui i vincitori della Guerra Fredda — cioè di fatto gli Stati Uniti — si proponevano di gestirlo; Huntington ne evidenziava la complicatezza e ne prevedeva le difficoltà.
Nel periodo 1991-1993 la comunità internazionale prese lentamente coscienza della mutazione sostanziale verificatasi nel quadro geopolitico. La vastità del mutamento fu talmente ampia — e per molti versi anche così veloce — da richiedere un certo lasso di tempo per essere interiorizzata: il mondo diviso in due per davvero non esisteva più e questo perché uno dei due poli era scomparso per implosione. Il cambiamento fu perfino più radicale — e non necessariamente meno cruento — di quello della fine della Seconda Guerra Mondiale.
L’Unione Sovietica, con i suoi satelliti e i suoi vassalli, aveva rappresentato per davvero l’altra metà del mondo ed era scomparsa lasciando incustodito un «patrimonio geopolitico» gigantesco: il Patto di Varsavia, decine di regimi alleati in giro per il mondo, milioni di russi slavi sparsi in repubbliche ora autonome, centinaia di basi militari nei cinque continenti, pezzi di Armata Rossa rimasti «dietro le linee nemiche», il più grande arsenale nucleare e convenzionale del mondo. E non solo: anche un enorme apparato economico produttivo, le più grandi riserve di risorse naturali del pianeta, il più grande territorio del mondo. Il tutto presidiato da una popolazione esausta, nel corpo e nello spirito, dopo settant’anni di comunismo aggressivo. E possiamo aggiungervi il più grande sistema concentrazionario della storia, uno dei tenori di vita più bassi fra i Paesi del Primo Mondo — e forse anche del Secondo —, natalità ai minimi esistenziali, alcolismo alle stelle, religione a livelli catacombali, «nomenclatura» (4) ex sovietica — che Giovanni Cantoni amava definire una «etnia sociologica» — composta da quasi 12 milioni di persone allo sbando. Una preda sconfitta ma ancora succulenta, alla mercé della controparte, risultata vincitrice più per i difetti dell’avversario che non per i propri meriti morali.
Occorreva effettivamente pensare a un «nuovo ordine mondiale» che tenesse conto di questo fatto. La civiltà occidentale, di cui gli Stati Uniti (USA) erano l’alfiere almeno in termini di potenza, aveva vinto ed era rimasta l’unica visione del mondo ancora operativa.
Su questa vittoria si è generato un «equivoco», che al tempo Alleanza Cattolica fu tra le poche realtà a individuare: il fatto che lo sconfitto fosse il «male assoluto» — e lo era veramente — non significava automaticamente che i vincitori fossero il «bene assoluto». Quell’Occidente che trionfò sull’empio comunismo non era la civiltà cristiana, come la prospettiva deformata dello scontro aveva fatto, e fa ancora, credere a qualcuno, ma il liberalismo capitalista e democratico. Il comunismo defunto per consunzione lasciava il passo a un liberalismo bulimico ed ebbro del suo successo. Certo, c’era la libertà, ma non una società in grado di amministrarla con saggezza.
L’enciclica Laborem exercens di san Giovanni Paolo II aveva espresso in magnifica sintesi questo giudizio fra le prospettive in campo: «Il suddetto principio [quello della proprietà privata], così come fu allora ricordato e come è tuttora insegnato dalla Chiesa, diverge radicalmente dal programma del collettivismo, proclamato dal marxismo e realizzato in vari Paesi del mondo nei decenni seguiti all’epoca dell’Enciclica di Leone XIII. Esso, al tempo stesso, differisce dal programma del capitalismo praticato dal liberalismo e dai sistemi politici, che ad esso si richiamano»(5).
A trent’anni dai fatti possiamo dire che siamo ancora immersi nelle doglie del parto di questo nuovo ordine mondiale. Il mondo di prima scalpita per riemergere, i vincitori esigono il bottino di guerra, le disuguaglianze incidono sempre più in profondità su quelle che Huntington chiamava le «linee di faglia» che dividono i continenti culturali.
Il mondo di prima presenta il conto con fenomeni come la rinascita identitaria dell’islam, la nuova coscienza politica dell’induismo indiano, la rinnovata percezione del ruolo dei popoli slavi nella storia, il rianimarsi del populismo in America Latina. Fenomeni che hanno una dignità storica ma che, corrotti dall’amoralità dell’età post moderna, generano a tratti eruzioni di violenza e soprusi.
Le pretese dei vincitori della Guerra Fredda, cioè degli americani, danno corpo a quella che possiamo definire la cifra geopolitica primaria di questi ultimissimi anni: una nuova corsa al ruolo di super-potenza mondiale. Gli USA hanno cercato di esercitare il monopolio della potenza che deriva loro dall’aver sostenuto la quasi totalità dei costi occidentali della vittoria. Lo fanno egemonizzando quel fenomeno complesso e articolato che noi chiamiamo «globalizzazione» e che ha un genoma nativamente a stelle e strisce. Ma il monopolio assoluto — la storia ce lo ha ribadito in molti casi — è pressoché impossibile: inevitabilmente nascono dei competitor. Nel caso specifico la Russia, che cerca di rimontare come nazione, popolo e impero le posizioni perse con il crollo dell’URSS, e la Cina che diventa sempre più consapevole del fatto che una mera potenza economica non si regge senza un corredo di potenza politica.
La frammentazione delle linee di faglia incide profondamente i tessuti sociali ed economici delle nuove e vecchie nazioni creano competizione, normale se giocata secondo le regole del bene comune, perversa se giocata secondo la metrica dell’homo homini lupus. In una parola crea disuguaglianze così profonde da destabilizzare tutto il contesto mondiale e indurre uno stato di continuo rancore geopolitico.
Il tempo è tiranno e nulla di più della cornice di un quadro concede. Ma nei tre umili capoversi appena enunciati vi sono tutti i singoli problemi che le cronache ci ripropongono a singhiozzo come la tragedia del momento. Il terrorismo, al Qaida, l’ISIS e le persecuzioni ai cristiani in Asia; le carestie del Venezuela e il possesso dell’Amazzonia; il Russiagate e l’Iran deal; la guerra dei dazi e la competizione per il 5G; la spartizione dell’Ucraina e quella della Siria; le grandi migrazioni dal Sahel al Messico; le proteste di massa a Hong Kong, in Cile, in Libano, in Iraq, perfino in Francia. Potremmo continuare per ore.
Nel titolo ho deciso di indicare come approdo di questo primo contributo il multiculturalismo. Sarebbe stato tecnicamente più esatto parlare di multidimensionalità, ma ne avrebbe risentito la comprensibilità della proposta. In definitiva la conclusione cui vorrei giungere è che il mondo nato dal crollo del Muro e dagli eventi che lo hanno seguito è un mondo radicalmente diverso e molto più complesso di quello di prima.
Il multiculturalismo è l’ideologia che vorrebbe negare questa complessità affogandola nel relativismo assoluto delle identità, sbiancando l’essere umano da qualunque colorazione di storia, vita, religione, posizione ideale e valoriale. È il lato oscuro dell’obbligo di convivenza nelle diversità a cui è chiamato il genere umano. La multiculturalità — la multidimensionalità se volete — è un fatto che va gestito sulla base di premesse radicalmente diverse da quelle del multiculturalismo. La sfida della multiculturalità si affronta e si vince sulla base di punti fermi, scopi chiari, strategie flessibili ma orientate.
Proprio questa complessità ci costringe a prendere atto che la dicotomia di giudizio, di schieramento, di posizionamento, che caratterizzava il mondo bipolare, nel mondo multipolare non ha spesso più senso. Le sfumature si moltiplicano così come le ragioni di scontro, ma anche quelle di intesa. Questo nuovo approccio richiede conoscenza, partecipazione, capacità di intelligence, chiara comprensione di ruoli e scopi molto superiori al passato. Non solo da parte degli Stati o degli attori politici, ma da parte di tutti noi. Il crollo del Muro ci ha messo davanti un mondo che, proprio perché frammentato, richiede la fatica della consapevolezza.
Conclusione
Come sempre a questo punto mi accorgo di non aver parlato dell’Europa e me ne stupisco ogni volta. In questa occasione un po’ di più perché stiamo parlando di accadimenti che in Europa si sono svolti, che l’hanno coinvolta per decenni, che continuano a condizionarne l’esistenza. Dal crollo del Muro avrebbe dovuto rinascere anche l’Europa, soprattutto un’Europa finalmente riunificata dalla sutura della ferita del Muro e della Cortina. Perché tutto questo non è successo? Anzi, anche la pallida e artificiosa parodia di questa unione, incarnata dall’Unione Europea, sembra decomporsi ogni giorno di più e sopravvive in un limbo burocratico distante dai popoli come dal mondo.
Di fronte al radicale ribaltamento di prospettiva indotto dal crollo del social-comunismo a Est, l’Europa continua a essere prona alla logica bipolare e non ha saputo — o voluto — ricostruire la propria unità integrando i popoli dell’Est e dell’Ovest per ricominciare a respirare con «due polmoni» (6). La crisi d’identità e di scopo della sua espressione militare — la NATO — testimonia plasticamente questa incapacità di superare la logica degli schieramenti del mondo bipolare.
Ci siamo ripetuti infinite volte in questi anni, sulla scia del magistero di san Giovanni Paolo II, che l’Europa non è un continente geografico in senso tecnico, ma è un continente culturale, definito dai suoi elementi identitari che derivano — come ci ha ricordato Benedetto XVI (2005-2013) — da una filosofia (quella greca), da un diritto (quello romano) e da una visione dell’uomo, del mondo e della storia (quella cristiana). Tutto ciò, con tutta evidenza, si è perso, dando origine a quella crisi antropologica dell’uomo europeo di cui ha parlato il Papa emerito poche settimane or sono (7).
Quando affrontiamo questo tema molti dei nostri interlocutori pensano che sia il solito fervorino etico-morale; del resto, si sa, tutti i salmi per forza in gloria devono finire. E invece non è così, non stiamo facendo direzione spirituale, stiamo parlando di geopolitica contemporanea. Quello che l’Europa non ha saputo trovare, o ritrovare, dopo il crollo del Muro è un’identità che è esattamente ciò che serve per sopravvivere nel mondo multipolare. Lo dimostrano, paradossalmente, quelle nazioni che hanno saputo darsene una, giusta o sbagliata che sia, come la Cina, l’India, la Russia, gli stessi Stati Uniti. Senza identità non vi è scopo, senza scopo non vi è strategia, senza strategia non vi è politica, senza politica le nazioni — o i continenti — semplicemente non sono tali. E, se non sei, ovviamente non puoi contare.
Non è un discorso astratto: si può tirare un filo rosso che senza soluzione di continuità ci porterebbe dalla crisi antropologica dell’uomo europeo alla… crisi dell’ILVA, e la spiegherebbe molto meglio di certe arrampicate sui vetri a cui abbiamo assistito.
Ma vi è una speranza di cambiamento? Sì, e la fornisce esattamente la vicenda della caduta del Muro. Racconta Lech Wałęsa che quel giorno si trovava a Varsavia in riunione con una delegazione del governo della Germania Ovest. Durante l’incontro il leader di Solidarność pose bruscamente una domanda: «Sta per cadere il Muro di Berlino, cosa contate di fare?». I suoi interlocutori rimasero interdetti e il ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher (1927-2016), che gli stava di fronte, gli rispose: «Signor Wałęsa, sarei felicissimo di veder accadere questo evento, ma non credo che accadrà nel corso della nostra esistenza, lo vedranno i nostri figli quando gli alberi saranno cresciuti sulle nostre tombe» (8). Poco dopo la riunione fu interrotta perché la delegazione venne richiamata urgentemente in patria; era il pomeriggio del 9 novembre 1989.
Abbiamo sommariamente esplorato le cause della caduta del Muro, ma ne abbiamo trascurata una, l’ingrediente che molti vorrebbero segreto e che invece dobbiamo tenere ben presente per non perdere la speranza e cedere all’apparente ineluttabilità della storia umana. Non trovo parole migliori di quelle che il 5 gennaio 1990 don Romano Scalfi (1923-2016), fondatore e direttore di Russia Cristiana, scriveva proprio per rispondere a chi era rimasto incredulo di fronte all’imprevedibilità e rapidità della caduta del Muro: «L’azione di Cristo, centro del cosmo e della storia, sembrava eclissata dalla potenza di chi voleva eliminarlo dalla società e anche dal cuore dell’uomo. La potenza di Cristo lavorava nel segreto e portava a compimento il suo piano.
«Il sacrificio dei martiri, la fede dei testimoni, la resistenza degli onesti, la verità dei giusti sembravano materiale utile per lo più alla salvezza dell’anima: oggi possiamo dire che tutto è servito per rifare la storia. Nulla è andato perduto, tutto è stato raccolto, conservato, fecondato dalla Memoria di Cristo.
«Una cultura autentica è sempre feconda: non sempre immediatamente ma nel tempo la verità, come il bene, fioriscono e portano frutto per la vita» (9).
Note:
(1) Cfr. Pio XI (1922-1939), Lettera enciclica sul comunismo ateo «Divini Redemptoris», del 19-3-1937, n. 58.
(2) Cfr. Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it., Rizzoli, Milano 2003.
(3) Cfr. Samuel P.[hillips] Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, trad. it., Garzanti, Milano 2000.
(4) Sul tema cfr., fra l’altro, Mihail Sergeevic Voslenskij (1920-1997), Nomenklatura. La classe dominante in Unione Sovietica, trad. it., con una Prefazione di Milovan Gilas (1911-1995), n. ed., Longanesi, Milano 1984.
(5) Giovanni Paolo II, Enciclica «Laborem exercens» sul lavoro umano nel 90° anniversario della Rerum novarum[di Leone XIII (1878-1903)], del 14-9-1981, n. 14.
(6) L’espressione appare per la prima volta in Idem, Discorso ai rappresentanti delle altre confessioni cristiane in occasione del viaggio apostolico a Parigi e a Lisieux, 30-5/2-6-1980, Parigi 31-5-1980.
(7) Cfr. Esclusiva. Benedetto XVI ci spiega da dove nasce la crisi dell’uomo europeo, intervista a cura di Matteo Matzuzzi, ne il Foglio quotidiano, 26-10-2019.
(8) Cfr. Lech Walesa, «Aspettavo i missili russi», intervista a cura di Fulvio Scaglione, in Famiglia Cristiana, anno LXXIX, n. 41, 11-10-2009, reperibile nel sito web <http://www.sanpaolo.org/fc09/0941fc/0941fc54.htm> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 27-12-2019).
(9) Don Romano Scalfi, Stiamo assistendo al farsi della storia, del 5-1-1990, reperibile nel sito web <https://www.lanuovaeuropa.org/dossier/2019/11/05/stiamo-assistendo-al-farsi-della-storia>.