Il problema della cattedrale cristiana trasformata in moschea non comincia con Erdogan ma oltre cinque secoli fa. E l’alternativa non è il laicismo di Atatürk ma il rispetto della libertà religiosa.
di Andrea Morigi
Era il 29 maggio 1453, non il 24 luglio 2020, quando le vittoriose truppe del sultano Maometto II [1432-1481] fecero ingresso a Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, commettendo orrendi massacri di cristiani. Fu proprio quel giorno che il conquistatore, che fra i suoi attributi poteva vantare anche quello di “Ombra di Dio sulla Terra”, «cavalcò fino alla grande chiesa di Santa Sofia – Hagia Sophia – scese da cavallo ed entrò nell’edificio sacro. Lì convocò un imam che salì sul pulpito e intonò il credo musulmano: “Dichiaro che non c’è altro dio che Allah. Dichiaro che Maometto è il suo profeta”. In quel momento, la cattedrale greca diventava una moschea turca», come spiega Bernard Lewis, (La Sublime Porta. Istanbul e la civiltà ottomana, Lindau, 2007, p. 20), dopo oltre nove secoli dalla sua inaugurazione nel 537 sotto l’imperatore cristiano Giustiniano (482-565). La stessa sorte toccò, in breve tempo, ad altre sei chiese, mentre un’altra divenne una scuola coranica.
Ed era il 1° febbraio 1935, nel pieno del processo di secolarizzazione in cui «[l]a nuova repubblica di [Mustafà Kemal] Atatürk [1881-1938] affrettò la fine dell’Istanbul poliglotta emulticulturale dell’epoca imperiale» (Justin Marozzi, Imperi islamici. Quindici città che riflettono una civiltà, Einaudi, 2020, p. 287), che lo stesso edificio di culto fu riconvertito in museo. Vent’anni dopo, in conseguenza del Pogrom di Istanbul, la locale comunità greco-ortodossa che nel 1927 contava 100mila persone, si era ridotta a 47mila. E attualmente, secondo il ministero degli Esteri greco, risiedono in Turchia appena 3.500 greci etnici.
La civiltà cristiana quindi, proprio dove si formarono le prime comunità ecclesiali, subisce una sconfitta epocale dall’Islam, il quale a sua volta vedrà sgretolarsi il Califfato e dovrà arretrare sotto i colpi del laicismo kemalista. Quest’ultimo in realtà, lungi dal vendicare il sopruso avvenuto nella basilica dedicata all’Eterna Sapienza, non l’aveva ripristinata come luogo di culto cristiano, ma piuttosto aveva deconfessionalizzato l’edificio.
Eppure, il giorno successivo alla rituale preghiera del venerdì di cui è stato protagonista il 24 luglio il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, che nell’occasione ha letto la XXX sura coranica detta “della conquista” o “dei romani”, il quotidiano la Repubblica, per commentare l’evento dava voce, in un’intervista, al premio Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk, secondo il quale «ci sono milioni di turchi come me che credono nel secolarismo e si oppongono a questa decisione» e sono «orgogliosi di avere l’eredità secolare di Kemal Atatürk. Di essere diversi dalle altre nazioni musulmane. Ma adesso questo orgoglio è stato tolto dalla nazione. E questo è un errore, un errore populista». Davvero, in alcuni ambienti intellettuali, il populismo rappresenta la minaccia percepita come più grave, anche di fronte a una dimostrazione di forza da parte della Ummah nei confronti di tutto il mondo. Si dovrà ricredere anche chi negli scorsi decenni ha creduto ingenuamente all’analogia fra i partiti democratici cristiani e l’Akp “moderato” di Erdogan perché, dietro la rivendicazione della porzione di territorio sul quale ha pregato Maometto II, c’è un messaggio inquietante ma certo non nazionalista, quanto piuttosto imperiale: il presidente turco si propone come la guida dei credenti per la ricostituzione del Califfato. Senza contare che un hadith di Maometto particolarmente caro ai fondamentalisti islamici profetizza che, dopo la presa di Costantinopoli, sarà la volta di Roma.
Sul versante opposto, spiace dover sottolineare un’ovvietà, non c’è il Sacro Romano Impero, ma nemmeno l’Europa accusata proprio da Erdogan di essere un esclusivo ed escludente “club cristiano”. Tant’è che la prima profanazione del tempio di Santa Sofia risale a più di 566 anni addietro e non conosce soluzioni di continuità. Peraltro, durante un arco di tempo di quasi sei secoli, tutta la comunità internazionale sembra averne definitivamente accettato lo status quo, se si eccettuano il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli e le altre Chiese ortodosse che non hanno mai esplicitamente rinunciato al loro diritto di tornare a celebrarvi le funzioni liturgiche. E in effetti, le reazioni più timorose sembrano essersi quasi tutte rivolte verso la tutela dei tesori artistici contenuti nell’ex basilica, dichiarata patrimonio universale dell’Unesco, piuttosto che a preservare la sua originaria destinazione.
Le Nazioni che governano sui territori che appartennero alla Cristianità non stanno certo immaginando una controffensiva né nei confronti del loro stesso laicismo né dell’espansionismo turco. Anzi, da un lato, in Europa il diritto alla libertà religiosa è largamente interpretato come il dovere di liberarsi dalla presunta oppressione della fede in Dio, mentre dall’altro tutto l’Occidente sembra incapace di assumere una posizione comune sia sull’intervento delle truppe di Ankara nel conflitto che divide la Libia, a un braccio di mare dall’Italia, sia sul recente tentativo turco di impadronirsi dell’isola greca di Kastellorizo. Si cede per non perdere, sotto la pressione delle minacce di un prossimo via libera all’invasione di profughi siriani sulla riva settentrionale del Mar Egeo.
L’appeasement, tuttavia, non appare come il frutto di una strategia, quanto piuttosto di un disarmo unilaterale dovuto principalmente alla rinuncia alle risorse spirituali da parte dei popoli a maggioranza cristiana, ormai a un passo dall’abisso della scomparsa demografica. Le cronache evidenziano ogni giorno i segnali della crisi e non hanno mancato l’appuntamento nemmeno lo stesso 24 luglio 2020. Quella sera, a Bologna, accanto alla basilica di San Petronio, al termine di una rassegna cinematografica, uno degli spettatori ha pubblicamente proiettato con i propri dispositivi elettronici una pellicola pornografica. È stato denunciato e multato per atti contrari alla pubblica decenza, senonché una subitanea raccolta pubblica di fondi gli ha permesso di superare abbondantemente la cifra di 5mila euro dovuti per la sanzione amministrativa. Ma chissà cosa gli sarebbe accaduto se avesse compiuto la medesima azione a Istanbul. Là, di certo, non lasciano che i templi vadano a fuoco per incuria, come accaduto per Notre-Dame a Parigi, o per dolo, come pare sia accaduto alla cattedrale di Nantes.
Martedì, 28 luglio 2020