Un cavaliere che si fa eremita, un’abbazia diroccata e una spada nella roccia: nulla di più lontano dal comune sentire. Eppure rievocano atmosfere e aspirazioni radicate nel cuore umano, ridestando una nostalgia che si trasforma in aspirazione alla pienezza.
di Stefano Chiappalone
Nel senese, a Chiusdino, un edificio abbandonato da secoli continua a irradiare una potenza evocativa che trascende la pur pregevole dimensione storica o artistica e non si riduce a un dato puramente emotivo, alla suggestione effimera di un luogo dai contorni “esotici”. Apparentemente c’è poco da vedere all’abbazia di San Galgano, se non le maestose rovine di una chiesa cistercense consacrata nel 1218, a pochi decenni dalla morte e dalla canonizzazione del cavaliere-eremita Galgano Guidotti (1148 ca.-1181). L’abbazia raggiunse una notevole prosperità per poi lentamente decadere già dal secolo seguente, con l’accelerazione del decadimento a partire dal 1503, contestualmente al governo degli abati commendatari, e la definitiva sconsacrazione nel 1789.
Eppure quelle pietre continuano a parlare e ad attrarre. Pilastri e navate si stagliano imponenti direttamente verso il cielo. L’abside stesso lascia intravedere l’orizzonte. Nel vuoto di finestre e rosoni le cui vetrate un tempo filtravano la luce, adesso il visitatore stesso proietta il proprio mondo interiore – un mondo di cui forse persino ignorava l’esistenza nel proprio intimo. Riemergendo dall’anima come la scultura dal marmo grezzo, immagini ancestrali sembrano trovare terreno fertile in quell’abbazia scoperchiata, ma tutt’altro che muta. Vi si sperimenta una sorta di sovrapposizione, come nel film Nostalghia (1983) del regista russo Andrej Arsen’evič Tarkovskij (1932-1986). Il protagonista, Andrej Gorčakov, è un poeta sovietico giunto in Italia «[…] che vive un profondo dissidio col mondo e con se stesso, incapace di trovare un equilibrio tra la realtà e una sospirata armonia, che si strugge di una nostalgia provocata non soltanto dalla sua lontananza da casa, ma anche da una sua globale aspirazione a una pienezza di vita» (A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, trad. it. a cura di Vittorio Nadai, Ubulibri, Milano 19882, p. 182). Nella scena finale Gorčakov si ritrova seduto davanti alla sua casa russa, la dimora dell’infanzia e dei ricordi, che misteriosamente compare proprio all’interno dell’abside di San Galgano.
Alla nostalgia personale si può intrecciare quella per un mondo remoto, mai conosciuto e sicuramente imperfetto, ma la cui eco ci rinvia a quel «riflesso dell’eterno» che il filosofo francese Gustave Thibon (1903-2001) ravvisa in certe tracce del passato (G. Thibon, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, Effedieffe, Milano 1998, p. 298). Egli specifica che non le amiamo di per sé, «[…] altrimenti lo statalismo romano del IV secolo ci sarebbe più caro della civiltà medievale. Quel che noi amiamo in certe forme del passato, è un’incarnazione più profonda della verità umana e sociale» (ibidem). Questo riflesso e questa incarnazione sono come condensate nella singolarissima reliquia custodita a pochi passi dalla grande abbazia. Per i cavalieri era un gesto comune quello di configgere la spada in terra a forma di croce e servirsene per la preghiera. La stessa forma non era casuale: «[…] la spada era cruciforme, e in particolare, tale era la sua impugnatura, per una serie di motivi che ruotavano attorno all’idea della sacralità d’un’arma destinata al ristabilimento della giustizia e addirittura usata nei giuramenti» (Franco Cardini, San Galgano e la spada nella roccia, Edizioni Cantagalli, Siena 2000, p. 106). Nel caso di Galgano, poi, il gesto porta a compimento una scelta di vita definitiva, ispirata da due visioni dell’arcangelo Michele, al culmine di una giovinezza dedita alla cavalleria e non priva di gioie mondane: «[…] si prese la spada chegli aveva a llato e in luogo di croce su la dura pietra la ficcò, la quale insino al dì d’oggi così è ne la pietra fitta» (Leggenda di santo Galgano confessore, cit. in F. Cardini, op. cit., p.134).
L’esperienza eremitica di Galgano si concluse nel giro di un anno con la sua prematura morte – seguita da una rapida canonizzazione, avvenuta in soli quattro anni. Una vita breve, quasi un’anticipo del destino della “sua” abbazia, la cui decadenza è stata persino più lunga della fioritura. E come dell’abbazia vediamo la possente struttura, ma non più il “volto”, così di Galgano possiamo afferrare soltanto quei pochi tratti che il tempo e le fonti ci hanno tramandato. Ma quelle pietre e quella spada «ne la pietra fitta» ridestano ben più di un’emozione momentanea. Trascendono il mero richiamo a un periodo storico per ridestare perenni aspirazioni umane. Sono rovine, reliquie di qualcosa che è stato – e definitivamente passato – o fondamenta di qualcosa che verrà?
Sabato, 12 settembre 2020