di Marco Invernizzi da Tempi di settembre 2020
Per Wojtyla il Libano era l’esempio di come comunità religiose diverse potessero coesistere. Ma dal 1975 i cristiani vivono senza pace
Cento anni fa, nel 1920, dopo la scomparsa dell’impero ottomano, nasceva il Grande Libano. Al Monte Libano, luogo simbolico che raccoglieva tutte le minoranze religiose perseguitate, fra cui drusi e maroniti, si univano le popolazioni della Valle della Bekaa e del Sud del Libano a maggioranza sciita, e la città di Tripoli abitata prevalentemente da sunniti. I cristiani, a loro volta divisi in tante comunità diverse fra le quali prevaleva quella derivante dal monaco san Marone, passavano dall’essere la grande maggioranza della popolazione (79,4 per cento) a poco più della metà (50,4 per cento).
Tuttavia, l’«idea» forte del Monte Libano, quello che san Giovanni Paolo II chiamerà il “messaggio” portato al mondo dalla nazione libanese, rimaneva nella sua interezza. In che cosa consista questo “messaggio” lo si può comprendere paragonando il Libano agli altri Stati del Medio Oriente, politicamente dominati da una maggioranza musulmana. Questi ultimi sono Stati dove non viene rispettata la libertà religiosa, uno dei principi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa ma anche del diritto naturale, che assicura alla persona e alle comunità la possibilità di scegliere liberamente la propria religione, senza interferenze e pressioni da parte dello Stato. Al contrario, nel Libano, che qualcuno ha definito un sistema politico basato su una “democrazia confessionale”, si è sviluppato e sostanzialmente mantenuto un accordo fra le diverse comunità religiose, cristiana, sunnita, sciita e drusa, che appunto lo ha fatto diventare un “messaggio” per il mondo intero, quasi l’annuncio concreto della possibilità di coesistere fra diverse comunità religiose purché nessuna di queste pretenda di imporre fondamentalisticamente la propria fede alle altre comunità, attraverso un confessionalismo di Stato, come avviene per esempio con la shari’a. Su questo “Libano come messaggio” si è abbattuta, e da molto tempo, una serie di sventure, delle quali l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto è solo l’ultima. Essa ha provocato 190 morti e la devastazione di moltissime abitazioni, nonché il blocco dell’importante attività portuale, mettendo definitivamente in ginocchio l’economia libanese già resa fragile dalla diffusione del Covid-19 e ancora prima dall’occupazione siriana dopo la fine della guerra con i palestinesi nel 1990 e la costante incertezza politica degli anni successivi.
Ma per veramente comprendere la situazione libanese bisogna tornare là, al Monte Libano. In questo luogo, dove vive la “gente della montagna”, si sperimenta fin dall’inizio quella che il cardinale Angelo Scola chiama la “società plurale”, cioè quel tipo di società che prevede la coesistenza di fatto di comunità religiose diverse, per le quali la religione e l’appartenenza alla comunità rappresentano un dato importante.
Possono coesistere queste comunità mantenendo ciascuna la propria identità? Per rispondere a questa domanda nasce il Libano come messaggio. Qui non si tratta di fare del relativismo religioso, per esempio sostenendo che tutte le religioni sono uguali. La non verità di questa affermazione si evince proprio guardando la loro vita concreta e quotidiana, come avviene nel caso del Libano, oltre che attraverso un’analisi teologica comparata. Ma diverso non vuole dire nemico con cui è impossibile tentare una forma di coesistenza nella parità, cioè mantenendo gli stessi diritti politici per le diverse comunità, come è avvenuto in Libano e come non avviene negli Stati islamici.
La Svizzera del Medio Oriente
Portare un messaggio comporta una grande responsabilità ed è un grande peso, per noi cristiani una vera croce. E infatti il cristiano libanese porta sulle proprie spalle come una croce la difficoltà di realizzare il messaggio che è stato chiamato ad annunciare al mondo. Egli non può dimenticare che proprio nel giorno della festa dell’Esaltazione della croce, il 14 settembre 1982, venne assassinato il presidente eletto della Repubblica libanese, Bashir Gemayel (1947-1982), che era stato il capo della resistenza cristiana durante la guerra contro i terroristi palestinesi che avevano scelto il Libano come luogo dal quale lanciare i propri attacchi contro Israele, di fatto costituendo uno Stato nello Stato. È dal 1975, dall’inizio della guerra all’interno del perimetro libanese, che questa croce accompagna un Paese che fino a pochi anni prima veniva definito la Svizzera del Medio Oriente, per l’abbondante ricchezza che vi circolava. Da allora qualcuno ha cominciato a pensare che il Paese dei cedri fosse diventato il Paese delle croci.
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