Paolo Martinucci, Cristianità n. 374 (2014)
L’11 febbraio 2004 moriva a Pisa il professor Marco Tangheroni.
A dieci anni di distanza Alleanza Cattolica, nelle cui file ha militato dal 1970 — dal 1993 responsabile della Regione Toscana — e della quale, dalla sua costituzione giuridica nel 1998, era socio fondatore, desidera ricordarne con profonda gratitudine e con enorme ammirazione la testimonianza straordinaria d’impegno culturale, civile e cristiano, profusa con generosità e con costanza nonostante una grave condizione di malattia, che ne ha accompagnato e segnato l’esistenza dal 1969. Questa «lunghissima e drammatica storia sanitaria» — sono parole sue —, questo autentico calvario vissuto come una buona battaglia ha trovato significativo epilogo nella ricorrenza liturgica della Madonna di Lourdes.
1. Lo storico
Marco Tangheroni nasce il 24 febbraio 1946 a Pisa, dove compie gli studi medi superiori e frequenta il primo anno di università. È allievo di Cinzio Violante (1921-2001), che «[…] con le sue lezioni su Le città italiane nell’alto Medioevo nell’anno accademico 1964-1965, fece di lui, “matricola universitaria, un aspirante storico del Medioevo”» (1). Si laurea all’Università di Cagliari — dove si era trasferita la famiglia, a causa degl’impegni professionali del padre, docente di Clinica Pediatrica in quell’ateneo — con una tesi di storia medievale su Gli Alliata. Una famiglia pisana del Medioevo (Cedam, Padova 1973), relatore il professor Alberto Boscolo (1920-1988).
Dopo aver insegnato Storia d’Italia a Barcellona e Storia della Sardegna a Cagliari, rientra a Pisa come assistente alla cattedra di Storia Medievale. Nel 1980 vince il concorso per professore ordinario e per un triennio insegna nella facoltà di Magistero dell’Università di Sassari, dov’è anche direttore dell’Istituto di Storia e, dal 1981 al 1983, preside di facoltà. Viene richiamato a Pisa nel 1983 come professore ordinario di Storia del Commercio e della Navigazione e poi, nel 1987, di Storia Medievale. Nell’Università di Pisa è direttore del dipartimento di Medievistica, membro del consiglio di amministrazione dell’ateneo, prorettore nel 1994, componente del Nucleo di Valutazione e infine direttore del dipartimento di Storia dal 3 febbraio 2004. Qui prosegue la tradizione degli storici cattolici, iniziata con Giuseppe Toniolo (1845-1918) e continuata con Giovan Battista Picotti (1878-1970) e Ottorino Bertolini (1892-1977).
Nel 2001 viene insignito dell’Ordine del Cherubino, conferito dallo stesso ateneo a docenti universitari in riconoscimento dei loro meriti scientifici e culturali, e della cittadinanza onoraria del comune d’Iglesias. È stato anche consigliere di amministrazione del Teatro Giuseppe Verdi di Pisa e membro della Deputazione della Fondazione Cassa di Risparmio del capoluogo toscano. Nel 2003 — ultima fatica che ha potuto inaugurare ma non concludere per l’ennesimo ricovero ospedaliero — è curatore scientifico della mostra Pisa e il Mediterraneo. Uomini, merci, idee dagli Etruschi ai Medici. Nel 2008 l’amministrazione comunale di Pisa gli ha intitolato una strada, seguita dal comune di Iglesias il 14 agosto 2009.
1.1 I suoi referenti metodologici
Anch’egli, come i suoi maestri, attinge alle varie metodologie proprie della moderna storiografia, conservando, comunque, sempre l’ancoraggio al cattolicesimo, come irrinunciabile punto di riferimento valoriale e humus culturale, alla luce del quale inquadrare le vicende umane, discernendo sempre i semina veritatis ovunque si trovassero, anche presso studiosi non cattolici.
Con Henri-Irénée Marrou (1904-1977) Tangheroni condivide l’idea che la distanza temporale di un fatto storico favorisca la comprensione dello stesso e sia condizione indispensabile affinché gli uomini ne traggano profitto (2). Illuminante è per lui la lezione di Fernand Braudel (1902-1985), secondo il quale ripercorrere i fatti a distanza di tempo permette di cogliere gli stessi in una successione coerente, nella convinzione che sapere come si conclude un processo storico ne favorisca la comprensione (3). La lettura di Hans-Georg Gadamer (1900-2002) lo convince che il passato diventa comprensibile solo quando è «[…] abbastanza morto da poter essere oggetto di un interesse soltanto storico» (4); ciò, inoltre, dà allo studioso la possibilità di riconoscere nelle proprie acquisizioni l’altro da sé, condizione indispensabile per conoscere sé stessi (5). Il pensiero di Paul Ricoeur (1913-2005) — noi siamo gli eredi di coloro che ci hanno preceduti e lo storico in un certo senso celebra i funerali del passato (6) — viene da Tangheroni integrato con quella «lettura» del presente e del passato, già enunciata dai medioevali, a partire da Bernardo di Chartres (fine sec. XI-1126/1130 ca.): «“Noi siamo come nani sulle spalle dei giganti” e solo grazie a loro riusciamo a vedere più lontano»(7); ciò a significare che ogni civiltà si è costituita e sviluppata solo grazie ai contributi, agli sforzi, ai sacrifici e alle intuizioni proprie delle generazioni che l’hanno preceduta. Allo storico servono curiosità, progettualità, intuizione, ma anche preoccupazione per la morte, perché — secondo Guy Thuillier e Jean Tulard (8) — il passato osservato e analizzato «[…] rinvia alla […] morte, è in un certo senso anticipazione della propria morte» (9). Nello stesso tempo, come insegnarono Marc Bloch (1886-1944) e Henri Pirenne (1862-1935), non è dato allo storico di disinteressarsi del presente, della propria vita, dell’esistente; l’osservazione può esser d’aiuto per distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, tuttavia lo studioso delle discipline storiche deve avere la consapevolezza che il presente non è mai la ripresentazione in modo simile del passato, anche in presenza di elementi di continuità da una civiltà all’altra, dal momento che risultano infinite le possibilità di sviluppo dell’avventura umana (10).
1.2 Le opere
Marco Tangheroni è stato scrittore prolifico. Autore di numerose opere sulla storia di Pisa, della Toscana e della Sardegna — per esempio,Politica, commercio, agricoltura a Pisa nel trecento (Pacini, Pisa 1973),La città dell’argento. Iglesias dalle origini alla fine del Medioevo(Liguori, Napoli 1985) e Medioevo Tirrenico (Pacini, Pisa 1992) —, non si è limitato alla storia medievale mediterranea. I suoi interessi sono testimoniati da circa 130 articoli scientifici pubblicati in atti di congressi e su riviste italiane e straniere, nonché da opere monografiche di ampio respiro — Commercio e navigazione nel Medioevo (Laterza, Roma-Bari 1996) — e dalla collaborazione a importanti opere collettive, fra cui The New Cambridge Medieval History, vol. 5, c. 1198-c. 1300, a cura di David Abulafia, pubblicato nel 1999 dalla Cambridge University Press (Sardinia and Corsica from the Mid-Twelfth to the Early Fourteenth Century, pp. 447- 457). Ha suggerito, introdotto e talora curato l’edizione italiana di scritti di autori stranieri, a diverso titolo significativi, fra cui Gustave Thibon (1903-2001), Régine Pernoud (1909-1998), Jean Dumont (1923-2001) e Jacques Heers (1924-2013), nonchè un classico della spiritualità mariana come Il segreto ammirabile del Santo Rosario (trad. it., Cantagalli, Siena 2000), di san Luigi Maria Grignion di Montfort (1673-1716) (11).
Sue opere postume sono il volume di riflessioni sulla storia in prospettiva metodologica e filosofica Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, e la raccolta d’interventi Cristianità,modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico tra «mestiere» e impegno civile, entrambi già citati.
Ha collaborato ai quotidiani Il Messaggero Veneto, Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, Secolo d’Italia, il Giornale, L’Unione Sarda e Il Tirreno, nonché alle riviste Cristianità, Quaderni di «Cristianità», Jesus. Mensile di cultura e attualità religiosa, Storia e Dossier, Medioevo. Mensile culturale, La Torre, Intervento, Percorsi di politica, cultura, economia e il Timone. Mensile di informazione e formazione apologetica.
1.3 Contro una lettura ideologica della storia
La sua riflessione storiografica ha trovato espressione compiuta nell’opera Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, pubblicata nel 2008 a cura della sua collaboratrice Cecilia Iannella, grazie al ritrovamento di un quaderno manoscritto — lasciato da Tangheroni in un cassetto della sua scrivania presso il dipartimento di Medievistica —, che già conteneva il libro in forma definitiva, completo di note. A esso ha apposto alcune pagine introduttive lo studioso dell’Università di Cambridge David Abulafia, estimatore del collega pisano (12).
Secondo Tangheroni, per lo storico esistono tre approcci errati al passato, derivati da una lettura storica operata rispettivamente secondo criteri teologici, teleologici e ideologici. Tuttavia l’ottica teologica, a suo parere, ha almeno un pregio: quello di non leggere il passato andando alla ricerca di conferme o di smentite, poiché «[…]sappiamo che la guerra è stata certamente vinta da Cristo, ma che prima della fine molte battaglie potranno essere perdute: questo è il tema, celebre, del “già e non ancora”. Non abbiamo perciò bisogno di verifiche dalla storia» (13). Il passato non va guardato nemmeno con le lenti dell’ideologia, che producono letture storiche mosse non dalla volontà di capire, ma dal proposito di condannare acriticamente. La presentazione dell’epoca della cristianità europea medioevale come epoca dei «secoli bui» è la diretta conseguenza di una simile impostazione, i cui scopi sono ormai evidenti, avendo avuto riscontri anche a livello sociale: «[…] far perdere ai cattolici la consapevolezza di avere un passato “sociale” particolarmente glorioso […] convincere surrettiziamente che l’impegno per restaurare una civiltà cristiana sia pura utopia» (14). Ne è conseguita, nel mondo cattolico, un’azione socio-culturale raramente impavida, finalizzata all’ammissione di vere o immaginarie colpe storiche e alla rinuncia, in campo prettamente politico, a ogni proposta autenticamente identitaria (15).
Eppure, sostiene Tangheroni, la stessa Europa attuale risulta essere frutto del Medioevo, nel corso del quale si forgiò un nuovo mondo, nato fra le rovine dell’impero romano, proprio grazie alla forza coagulante del cristianesimo: l’uomo medioevale, «[…] pur riconoscendo la centralità storica dell’incarnazione di Cristo» (16), si considerava in perfetta continuità con il mondo classico, e non si sentiva, dunque, appartenente a una «età di mezzo», in discontinuità con il passato (17). Quest’opera grandiosa, che portò alla creazione di una nuova civiltà (18), fu a mano a mano erosa, sgretolata a partire dall’Umanesimo, quando la «riscoperta» dell’antichità classica, costituì«[…] un alibi ideologico per abbandonarsi ai lussi e ai piaceri della vita» (19). Nello stesso tempo il cambiamento di mentalità investì anche la dimensione del rapporto dell’uomo con Dio: si affermò una religiosità, intima, individuale, la devotio moderna, contrapposta alla religiosità comunitaria medievale, mentre la preoccupazione per la salvezza individuale assumeva forme ossessive.
La rottura dell’unità della Cristianità europea fu causata dalla Rivoluzione protestante e dalla concezione pessimistica dell’uomo propria di Martin Lutero (1483-1546): se «[…] è impossibile all’uomo di procurarsi qualsiasi merito di fronte a un Dio che salva o condanna del tutto arbitrariamente» (20), una natura umana incapace di agire rettamente «[…] deve essere violentemente coartata e corretta alla luce della rivelazione cristiana» (21). La repubblica teocratica, instaurata a Ginevra da Giovanni Calvino (1509-1564) fu la conseguenza di questa logica aberrante. La storia, sostiene Tangheroni, si fa anche con i «se» e con i «ma» (22): allora non è banale chiedersi se, sulla scorta di tale pessimismo antropologico, sarebbe stata possibile quell’immane ricostruzione di una nuova civiltà avvenuta nell’Alto Medioevo.
La Rivoluzione francese, originata dalle «[…] “società di pensiero” che ne erano i motori» (23), «[…] fatta da un’esigua minoranza [che]pretende di rappresentare tutto il popolo e i suoi veri interessi» (24), poi, eliminò le libertà concrete in favore dell’astratta Liberté, rendendo tutti gl’individui eguali, sottoposti alle ferree regole dello Stato rivoluzionario che voleva inaugurare l’era di un’umanità rigenerata; nella realtà, l’uomo «nuovo» uccise l’uomo «vecchio», come avvenne in Vandea, dove la pelle dei contadini contro-rivoluzionari, adeguatamente conciata, fornì il materiale per i gambali dei Bleus, i soldati repubblicani, perché «la pelle che proviene dagli uomini è di una consistenza e di una bontà superiori a quella dei camosci» (25). Nonostante ciò il mito della Rivoluzione francese resiste a ogni critica, così come, in Italia, il mito del Risorgimento — che «[…] rappresenta per la storia italiana un momento in un certo senso analogo a ciò che la Rivoluzione francese ha rappresentato per la Francia» (26) — perdura in una rappresentazione «oleografica ed ideologizzata» (27).
Un’altra lettura ideologica della storia è quella di coloro che accusano Cristoforo Colombo (1451-1506) di essere all’origine del genocidio degl’indios. Il biasimo, sostiene Tangheroni, viene proprio da quel mondo che sterminò le popolazioni indigene o le relegò nelle riserve dell’Arizona o del Nuovo Messico, dopo averle rese schiave dell’alcol; ciò trova conferma nella totale assenza negli Stati Uniti del meticciato, che invece è diffusissimo nell’Iberoamerica, dove uccisero più i batteri portati dagli spagnoli che le loro armi (28). Tuttavia il pregiudizio rimane, e anche in ambito cattolico viene veicolato da un «complotto mediatico, guidato da un pugno di […] intello-attivisti che credono assai poco in Dio ma molto al socialismo, e si presentano come teologi della liberazione» (29): «l’ideologia indianista […] egualitaria e comunista» (30) ha diffuso un giudizio negativo non solo su Colombo, ma anche «sulla evangelizzazione e sulla colonizzazione spagnola del Nuovo Mondo» (31).
1.4 A che cosa serve studiare la storia?
Nel saggio Dell’utilità della storia e del rapporto passato-presente (32) Tangheroni si chiede a che cosa serva studiare la storia e fare ricerca storica. La risposta è nella critica a certa storiografia del secolo XX, sviluppata in due punti.
Un aforisma del pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) — «Lo storico non si installa nel passato con l’intento di intendere meglio il presente. Quello che siamo stati non ci interessa per ricercare ciò che siamo. Quello che siamo interessa per ricercare ciò che siamo stati. Il passato non è la meta apparente dello storico, bensì quella reale» (33) — indica qual è il suo punto di vista nei confronti degli storici che influenzano la maggior parte dei testi scolastici attuali. Con l’autore colombiano Tangheroni sostiene che chi studia il passato deve voler sapere ciò che siamo stati e non ciò che siamo attraverso lo studio di ciò che siamo stati. Pertanto, sottopone a critica serrata la tesi secondo la quale lo studio del passato è finalizzato alla comprensione del presente. In questo modo, a suo parere, si studia solo il passato più vicino al presente. E questa è la situazione che domina in tutte le scuole.
In un libro per le secondarie superiori ― nel caso concreto quello di sua figlia — Tangheroni legge: «Anche il nostro interesse per il passato non è dettato da semplice curiosità. Infatti ci sforziamo di conoscere e di ricordare solo ciò che riteniamo importante per noi […]. Anche la storia non si occupa del passato in generale. Essa si occupa solo di quelle cose che sono degne di essere ricordate» (34). Ma pure testi che dovrebbero avere maggiore peso scientifico seguono la stessa scia: laStoria d’Italia dell’editrice Einaudi, per esempio, reca nelle pagine dellaPresentazione questa affermazione: «Qual è il peso di situazioni passate, capaci ancora di frenare il processo di sviluppo del nostro tempo, e quali tradizioni, invece, hanno offerto e offrono nel presente un incentivo e uno stimolo per trasformare la società in cui viviamo? L’opera che presentiamo ha l’ambizione non piccola di voler contribuire a rispondere a tali interrogativi, di aiutarci a capire chi siamo e quali radici e presupposti abbia la nostra società» (35).
I due esempi esprimono la pericolosa tendenza ad assimilare il compito sociale dello storico a quello del giudice. Per quanto uno storico abbia alle spalle una prestigiosa carriera accademica e sia stato autore di studi di elevato spessore scientifico, quando esprime una valutazione sul presente non sempre conserva la stessa autorevolezza; al riguardo Tangheroni cita il caso dello storico Carlo Ginzburg che si era espresso sull’innocenza di Adriano Sofri, leader del gruppo comunista extra-parlamentare Lotta Continua, condannato per concorso nell’omicidio a Milano del commissario di polizia — nonché «servo di Dio», ovvero cristiano di cui è in corso la causa di beatificazione — Luigi Calabresi (1937-1972) (36). Tangheroni, pertanto, non ha esitazioni nel sostenere l’affermazione dello storico francese Maurice Sartre, secondo cui «[…] una repubblica degli storici sarebbe altrettanto pericolosa di una repubblica dei giudici» (37).
La riflessione di Tangheroni investe anche i concetti di necessità storica, di causalità e di storia universale. Il determinismo storico, inteso «[…] come dottrina della necessità causale» (38), fu anticipato dalle dottrine di Thomas Hobbes (1588-1679), «filosofo radicalmente antimedievale» (39), secondo il quale «[…] tutta la realtà, senza distinzioni tra ordine fisico e ordine psichico, è, nella vita dell’individuo come in quella della società, determinata da una immutabile connessione di movimenti» (40). Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) applicò il concetto alla sua filosofia della storia: la «[…] Storia viene vista come uno svolgimento necessario, in cui si dispiega una forza immanente, provvidenziale e razionale. Ogni momento della storia è pertanto perfetto. Come esprime in modo sintetico Hegel […]: “Ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale”. […] Dio governa il mondo: il contenuto del suo governo, l’esecuzione del suo piano è la storia universale. Naturalmente, ed è forse superfluo ricordarlo, il Dio di Hegel è un Dio immanente, non trascendente» (41). Pure Karl Marx (1818-1883) concepì la storia come un processo necessario, caratterizzato dal superamento della società capitalistica per instaurare una società senza classi, che avrebbe determinato la fine della storia (42). Non è immune dall’idea di progresso necessitato il positivismo, in particolare quello di Auguste Comte (1798-1857), che«[…] perverrà […] alla divinizzazione della storia […]: essa è l’Umanità nel suo sviluppo. O anche il Grande Essere» (43).
Tangheroni mette in luce come, per il positivismo, il modello è la legge di Isaac Newton (1642-1727) sulla gravitazione universale, capace di descrivere i fenomeni fisici. Le scienze della natura possono spiegare ogni fatto e giungere quindi a conoscenze certe attraverso le formule della matematica in cui il linguaggio della natura si esprime. Allo stesso modo, le «scienze dello spirito», fra cui la storia e la sociologia, devono scoprire le leggi che regolano i fatti che solo in apparenza sono sconnessi o disarticolati. Questa ipotesi faceva inorridire Karl Popper (1902-1994), che temeva la prospettiva di un mondo concepito come un’immensa macchina, in cui ogni cosa e perfino le persone fossero degli automi, insignificanti ruote di un ingranaggio, funzionali e interne al mondo stesso (44). Per l’epistemologo austriaco «[…] è il determinismo a mettere in pericolo non soltanto la libertà e la responsabilità dell’uomo, ma la stessa possibilità di incontrare la realtà, cioè di perseguire il fine della conoscenza umana» (45).
Anche Tangheroni rifiuta tale prospettiva e lo fa, primariamente, premettendo alle sue argomentazioni un altro aforisma di Gómez Dávila: «Niente di ciò che avviene è necessario, però tutto diventa necessario una volta avvenuto. Tutto ha una causa, però ogni causa ha una pluralità di effetti» (46). Poi, in questa difesa della libertà dell’uomo, quale cosciente attore e artefice della storia, argomenta chiosando le profonde riflessioni filosofiche di Søren Kierkegaard (1813-1855) (47) sulla questione, esplicitate nelle «sue radicali critiche alla filosofia della storia di Hegel» (48). Affermava infatti il filosofo danese: «Nessun divenire è necessario; non prima di diventare, perché così non potrebbe diventare, non dopo essere diventato, perché allora non sarebbe diventato. […] il divenire è la mutazione della realtà mediante la libertà» (49). E lo storico pisano commenta: «Il passaggio dalla possibilità alla realtà non cambia il suo originario essere, appunto, una possibilità […]. E la libertà caratterizza il passaggio. Non dobbiamo lasciarci ingannare dal fatto che “tutto ciò che è diventato,eo ipso è storico”, è cosa accaduta, irrevocabile; solo l’eternità, nella sua perfezione, non ha storia. […] Allo stesso modo […] non si può voler predire il futuro, perché anche il passaggio al futuro non avviene secondo necessità» (50). Se così fosse, dice Kierkegaard, «la libertà stessa diventerebbe un’illusione […] magia, il divenire un falso allarme» (51). La cosiddetta storia universale di scuola hegeliana, secondo il filosofo danese, «ha creato una grande confusione, dove possibilità, realtà e necessità formano un guazzabuglio inestricabile»(52).
Rimanendo nell’ambito degli storici debitori nei confronti di Hegel, è opportuno chiarire la posizione di Tangheroni circa il concetto di contemporaneità della storia, proprio della scuola crociana, che ha influenzato non pochi storici e le loro pubblicazioni, divulgate negl’istituti scolastici. Il filosofo abruzzese Benedetto Croce (1866-1952) sulla «contemporaneità» di qualsiasi storia aveva scritto: «[…]perché è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato; il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma presente» (53). Il dissenso dello storico pisano nei confronti di Croce «[…] resta radicale e verte sull’orizzonte immanentistico dello storicismo crociano e sul diverso atteggiamento verso il passato che ne deriva. Alla “contemporaneità della storia” intesa come l’esigenza di “legare problemi esistenziali e professione di storico” Tangheroni guarda sospettoso» (54), perché, come afferma Gómez Dávila, «[…] lo storico che tratta le epoche come semplici tappe di un processo trasforma quello che studia in mero prologo del proprio tempo o in preistoria delle proprie aspirazioni» (55) e compie«il peccato massimo dello storico [che] consiste nel vedere un’epoca qualsiasi come anticipazione, preparazione o causa di un’altra» (56). Studiare del passato solo ciò che ha avuto continuazione nello svolgimento storico porta a un doppio travisamento: una deformazione totale del passato e della sua complessità, ridotto a un solo aspetto, rispetto alle molte possibilità d’indagine che esso offre; un’incomprensione di quel passato che, così selezionato, deformato e impoverito, non è utile alla comprensione del presente (57).
Condivisibile, invece, è la tesi dettata dal buon senso comune: la conoscenza del passato è indispensabile alla comprensione del presente; ma studiare il passato solo per comprendere il presente fa venir meno la pietas nei confronti delle vicende umane, che deve caratterizzare l’indagine storica e lo storico. Questi dovrebbe assomigliare al «pius Aeneas» (58). Nell’Eneide, Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.) presenta l’eroe, in fuga da Troia in fiamme, come uomo pio, religioso, virtuoso, caro agli dei, onesto e giusto, capace di farsi carico del vecchio padre, dei Penati e anche dei ricordi: «infandum regina iubes renovare dolorem» (59). Anche nella Commedia si trova il richiamo al «doloroso ricordare» — che diventa pietas — proprio dello storico, quando l’indagine che conduce lo mette a contatto con pagine drammatiche della vicenda umana: sono le parole del conte Ugolino della Gherardesca (1220-1289) rivolte a Dante: «Tu vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che ‘l cor mi preme» (60).
Si può richiamare, certi d’interpretare correttamente il pensiero di Tangheroni, anche quanto ha scritto il pensatore tradizionalista spagnolo Antonio Aparisi y Guijarro (1815-1872) e che può essere applicato al «lavoro» dello storico: «Vengo da molto lontano, ma vado molto avanti. Voglio conservare i principi immortali dei nostri padri, il fuoco sacro della società. Ricevo l’eredità dei nostri padri con beneficio di inventario; il buono è il mio, il male lo scarto; ma anche quando hanno sbagliato voglio imitare i figli buoni di Noè che coprirono pietosamente le nudità del loro padre senza dimenticare gli errori per non cadere in essi» (61).
Quindi, come si chiedeva Marc Bloch all’inizio della sua attività di storico, a che cosa serve la storia? Certo, sostiene Paul Veyne, una prima risposta può essere la seguente: la storia serve a soddisfare la curiosità di chi indaga il passato (62). Tuttavia la pietas di cui parla Tangheroni va ben oltre. Giovanni Cantoni inquadra le riflessioni dello storico pisano come «[…] altrettanti tentativi d’iscrivere momenti della storia di un popolo, “riassunti” di tale storia, nel quadro grande della Provvidenza, […] addestramento all’ars bene moriendi, educazione alla morte, dunque pietra miliare sulla via verso il Regno» (63).
Tangheroni, pur consapevole che la storia non può dare la risposta ultima alle domande essenziali sull’uomo — chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? —, ritiene che essa possa stimolare l’uomo a porsi tali domande, condizione indispensabile per cercare le relative risposte; in ogni caso, la storia ci aiuta a capire che l’uomo non è un Dio, contrariamente a quanto pensano molti storici. Scrive Gómez Dávila: «Sebbene pensi di essere un dio che guarda il mondo dall’alto, lo storico attuale non è altro che un universitario di umile estrazione»(64).
La conoscenza storica, presenta, a volte, la dimensione drammatica, spesso tragica, della storia come passato, quindi aiuta a capire anche la drammaticità e la tragicità del presente, educa alla responsabilità, rendendo evidente che ciò che è accaduto è il frutto delle libere scelte degli uomini. La storia non va confusa con l’«educazione civica» — disciplina introdotta nelle scuole per dettare i princìpi regolativi, anche di ordine morale, dell’esistenza del cittadino —, sostanzialmente finalizzata alla formazione dell’«uomo nuovo» dei regimi totalitari del secolo XX. Essa deve contribuire a formare l’uomo, ma l’uomo libero e responsabile. In questa prospettiva, la vera utilità della storia consiste nell’abituare all’incontro con l’«altro da noi», con civiltà e culture lontane nel tempo, senza privilegiare un determinato periodo storico, come avviene, ad esempio, nelle nostre scuole nei confronti della storia del Novecento (65).
2. La cultura come apostolato
Per chi conobbe Marco Tangheroni in un contesto non accademico non è semplice separarne la figura d’insigne medievista dalle peculiarità della sua persona, da un tratto umano che torna presente quando si cerca di delineare i punti più significativi della sua storiografia. All’apprezzamento delle sue ricostruzioni storiche e delle sue riflessioni sul senso della storia si associano ricordi che ne mettono in evidenza la non comune dimensione umana e di cristiano.
L’autore di questo studio ha conosciuto Marco Tangheroni agl’inizi degli anni 1970, in occasione dei primi incontri della famiglia spirituale di Alleanza Cattolica, in un ritiro presso il santuario della Beata Vergine Addolorata di Rho, nelle vicinanze di Milano, oasi spirituale per i sacerdoti dell’arcidiocesi ambrosiana. Tangheroni si presentava come uomo di grande equilibrio interiore e relazionale, incarnazione fedele dell’adagio scolastico operari sequitur esse; nel tempo, le numerose occasioni d’incontro, e soprattutto di ascolto, date dalle attività associative, avevano rafforzato l’immagine di uno studioso pacato nelle conversazioni, rigoroso nelle enunciazioni, profondo nel pensiero. Dal sorriso bonario, disponibile con gl’interlocutori, mai si sottraeva ai colloqui, alle domande che nel corso dei nostri incontri gli venivano rivolte da chi militava nella comune associazione, specialmente da quelli non ancora formati adeguatamente, riuniti a capannello attorno a lui, nelle pause fra una relazione e l’altra o nei dopocena, spesso fino alle ore piccole. Persona semper eadem, sembrava molto maturo prima dei trent’anni e giovane quando era prossimo ai cinquanta, per la curiosità intellettuale e l’entusiasmo nella partecipazione alle iniziative di Alleanza Cattolica, costituendo per molti dei più giovani un sicuro punto di riferimento culturale e spirituale.
Pur non essendo mai stato estraneo alla dimensione religiosa della vita, egli, poco più che ventenne, dopo un periodo di tiepidezza nei confronti delle pratiche religiose, tornò alla pienezza della fede vissuta. In un suo testo, pubblicato l’anno della morte, scrisse: «La mia conversione è lontana nel tempo. Avevo ventitré anni e ora ne ho cinquantasei. Avevo praticamente tutto dalla vita. Sposato da pochi mesi con la mia ragazza di sempre, un posto di assistente universitario appena laureato, un grande futuro apparentemente davanti a me. Invece, in una settimana — la settimana di Natale [1969] — per un’influenza che fece riesplodere una malattia renale che mi aveva tenuto a letto da bambino, passai dalla salute al coma, da un brillante sorridente futuro alla prospettiva di vivere soltanto grazie alla continua purificazione del sangue da parte di una macchina, tre volte alla settimana (grazie alla dialisi, ma allora la parola era quasi sconosciuta e il trattamento praticamente agli inizi). Venivo da una famiglia moderatamente cattolica e praticante, avevo una modesta cultura cattolica verso la quale non provavo avversione, avevo avuto un tranquillo allontanamento dalla pratica religiosa. Ora, dovevo decidermi: alle domande sulla vita e sulla morte che un giovane tende a rinviare dovetti rispondere subito. Credetti, mi convertii. Ho fede, una fede razionale e razionalmente tranquilla. Le cose che dico nel Credo non mi pongono problemi, sono facili da credere» (66).
Egli, quindi, dovette scandire e conciliare i ritmi della propria esistenza, della vita accademica e familiare, con le stringenti necessità di cura della propria salute, nella cristiana sopportazione della sofferenza per la malattia, che lo costrinse a numerosi interventi chirurgici, i quali lo portarono più volte in punto di morte.
Si sposò giovanissimo con Patrizia Paoletti — attiva nella cooperazione internazionale, nonché deputata al Parlamento nella XIV e XV Legislatura (2001 e 2006), e poi candidata a sindaco di Pisa nel 2008 —, insieme alla quale in seguito e in diversi momenti adotterà tre bimbe di etnia tutsi scampate alle stragi della guerra civile ruandese del 1990-1993.
Rientrato a Pisa, dopo la parentesi cagliaritana e barcellonese, riprese la frequentazione degli amici con i quali aveva condiviso l’impegno politico nell’associazionismo di destra durante i primi anni di università. Molti di questi nel frattempo avevano incontrato Giovanni Cantoni e avevano dato vita al gruppo di studio e di attività — che Alleanza denomina «croce» — pisano di Alleanza Cattolica, intitolato a sant’Enrico imperatore (973-1024). La prospettiva culturale della scuola contro-rivoluzionaria lo affascinò e nel 1970 aderì convintamente alla stessa associazione, di cui è sempre stato esponente di primo piano.
Svolse con fervore l’attività di apostolato culturale, che è la missiondell’associazione, tenendo innumerevoli conferenze e scrivendo importanti articoli sull’organo associativo Cristianità su temi sia di storia, sia di attualità politica. Infatti, pur essendo un profondo conoscitore e studioso del Medioevo, coltivò molteplici interessi culturali, che abbracciavano una dimensione temporale più ampia: dall’Umanesimo al Rinascimento, alla Rivoluzione francese. Approfondì in particolare la conoscenza della storiografia nazionalistica di cui l’esponente maggiore è stato Gioacchino Volpe (1876-1971). A questi interessi accompagnò anche l’impegno politico: nel 1994, fu candidato a sindaco di Pisa come indipendente nelle liste di centro-destra e consigliere comunale della stessa città dal novembre 1994 al novembre 1995.
Fra i suoi maestri — in ambito cattolico — in primis Giovanni Cantoni, fondatore e responsabile nazionale di Alleanza Cattolica; il domenicano padre Tito Sante Centi (1915-2011), uno dei maggiori conoscitori della filosofia di san Tommaso d’Aquino, nonché traduttore delle Summae in italiano (67); e infine il filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997), formatore «di intere generazioni di studenti» (68), grande tempra di resistente alla «rivolta antimetafisica» (69). Lo storico pisano fu pure amico personale del filosofo belga Marcel de Corte (1905-1994), autore di importanti saggi, quali Incarnazione dell’uomo. Psicologia di costumi contemporanei (trad. it., Morcelliana, Brescia 1949); Fenomenologiadell’autodistruttore. Saggio sull’uomo occidentale contemporaneo (trad. it., Borla, Torino 1967) e L’intelligenza in pericolo di morte (trad. it., Volpe, Roma 1973). Questi autori gli fecero scoprire la filosofia tomistica e lo avviarono a una più profonda comprensione del concetto di Rivoluzione.
Tangheroni ebbe un fruttuoso rapporto di collaborazione anche con la Fondazione Volpe, l’organismo culturale fondato a Roma dall’ingegner Giovanni Volpe (1906-1984), figlio dello storico Gioacchino, nel tentativo di creare un ambiente culturale alternativo al dominante relativismo libertario e rivoluzionario del Sessantotto. In questo senso, come ha sottolineato Roberto Pertici, Tangheroni appartenne «all’altro Sessantotto» (70), cioè ai quei gruppi di giovani che contrastarono, riproponendo i valori che avevano edificato la civiltà dell’Occidente, le derive rivoluzionarie di una cultura che non riconosceva né gerarchie, né autorità, né «padri». Così, per i tipi delle Edizioni Volpe, promosse e curò l’edizione italiana di due opere che ebbero un’importanza straordinaria nella formazione sua e di molti soci di Alleanza Cattolica: nel 1972 Ritorno al reale. Nuove Diagnosi (71), secondo volume di riflessioni di «fisiologia sociale» del filosofo francese Gustave Thibon (1903-2001) e, nel 1978, Luce del medioevo della medievista francese Régine Pernoud. Ritorno al reale presentava questa dedica di Thibon: «Ai giovani amici pisani che hanno voluto l’edizione italiana di questo libro, all’editore Giovanni Volpe che lo ha pubblicato, con viva amicizia e gratitudine». I «giovani amici pisani» costituivano il primo nucleo locale di amici di Alleanza Cattolica, riunito attorno alla figura di Tangheroni.
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Papa Benedetto XVI (2005-2013), in occasione del discorso rivolto ai membri del Pontificio Comitato di Scienze Storiche il 7 marzo 2008, ha dichiarato: «Il passato appare, così, solo come uno sfondo buio, sul quale il presente e il futuro risplendono con ammiccanti promesse. A ciò è legata ancora l’utopia di un paradiso sulla terra, a dispetto del fatto che tale utopia si sia dimostrata fallace.
«Tipico di questa mentalità è il disinteresse per la storia, che si traduce nell’emarginazione delle scienze storiche. […] Ciò produce una società che, dimentica del proprio passato e quindi sprovvista di criteri acquisiti attraverso l’esperienza, non è più in grado di progettare un’armonica convivenza e un comune impegno nella realizzazione di obiettivi futuri. Tale società si presenta particolarmente vulnerabile alla manipolazione ideologica» (72). Circa la conservazione e la trasmissione della memoria storica, altrettanto significativo è il pensiero di Papa Francesco, espresso durante l’omelia della Messa nella cappella della Domus Sanctae Marthae, in Vaticano, del 19 novembre 2013: «Gli anziani sono quelli che ci portano la storia, che ci portano la dottrina, che ci portano la fede e ce la danno in eredità. Sono quelli che, come il buon vino invecchiato, hanno questa forza dentro per darci un’eredità nobile […]. Preghiamo per i nostri nonni, le nostre nonne, che tante volte hanno avuto un ruolo eroico nella trasmissione della fede in tempo di persecuzione. Quando papà e mamma non c’erano a casa e anche avevano idee strane, che la politica di quel tempo insegnava, sono state le nonne quelle che hanno trasmesso la fede. […] chiediamo la grazia di custodire, ascoltare e venerare i nostri antenati, i nostri nonni» (73).
Se l’affermazione di Benedetto XVI esprime, oltre che un’acuta considerazione sul valore delle scienze storiche nell’attuale contesto sociale, una filosofia della storia come quella professata da Tangheroni, la riflessione del Pontefice regnante conferma autorevolmente un’osservazione dello storico pisano, fatta nel corso di una delle sue innumerevoli conferenze: «[…] la nonna chi è? È quella che conserva, nonostante tutti gli sforzi di creare l’uomo nuovo, faretabula rasa del passato, le statue distrutte della Rivoluzione Francese, la cancellazione delle tradizioni; ma le nonne sopravvivono, ricordano, tramandano. Avete visto nel 1989, quando fu ammainata la bandiera rossa con la falce e il martello dal Cremlino, spuntarono delle icone, nascoste, conservate, non l’avranno dipinte tutte quel giorno, non sembrava…, le avevano conservate le nonne» (74).
Paolo Martinucci
Note:
(1) Roberto Pertici, Marco Tangheroni, Nicolás Gómez Dávila e il mondo della storia. Il passato come meta, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 20-1-2010.
(2) Cfr. Marco Tangheroni, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, a cura di Cecilia Iannella, con una Presentazionedi David Abulafia, Sugarco, Milano 2008, p. 120.
(3) Cfr. ibid., p. 120.
(4) Cfr. ibid., p. 121
(5) Cfr. ibid., p. 122.
(6) Cfr. ibid., p. 121.
(7) Idem, Cristianità, modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico tra «mestiere» e impegno civile, con un saggio introduttivo La storia come «riassunto» di Giovanni Cantoni (pp. 9-16) e una Nota praevia (pp. 17-18) di Andrea Bartelloni, a cura di Oscar Sanguinetti con la collaborazione di Stefano Chiappalone, Sugarco, Milano 2009, p. 56.
(8) Cfr. Guy Thuillier e Jean Tulard, Le métier d’historien, Puf. Presses Universitaires de France, Parigi 1999.
(9) M. Tangheroni, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, cit., p. 122.
(10) Cfr. ibid., pp. 123-124.
(11) Cfr. S. Chiappalone, Testimonianze. Bibliografia di Marco Tangheroni, Società Storica Pisana-Pacini Editore, Pisa 2005; cfr. altresì C. Iannella, Bibliografia di Marco Tangheroni, in In memoriam di Marco Tangheroni, dossier di RiMe. Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea [del Consiglio Nazionale delle Ricerche], anno III, n. 4, Torino giugno 2010, pp. 537-584 (pp. 555-584), all’indirizzo Internet <http:// rime.to.cnr.it/2012/ RIVISTA/ N4/ 2010/ RIVISTA_2010/ RiMe_04_2010.pdf> (gl’indirizzi Internet del presente articolo sono stati consultati il 28-10-2014), nonché Marco Tangheroni (1946-2004). In memoriam, in Cristianità, anno XXXII, n. 321, gennaio-febbraio 2004, pp. 7-8.
(12) Un suo ricordo di Tangheroni è contenuto nel discorso pronunciato al XII Congresso della Mediterranean Studies Association (Cagliari, 27-5-2009); cfr. D. Abulafia, Marco Tangheroni, in In memoriam di Marco Tangheroni, dossier di RiMe. Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea cit., pp. 537-542.
(13) M. Tangheroni, Cristianità, modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico tra «mestiere» e impegno civile, cit., p. 33.
(14) Ibidem.
(15) Cfr. la recensione di S. Chiappalone sul sito Storia&Identità-Annali Italiani online, alla pagina Internet: <http://www.identitanazionale.it/rece_7070.php>.
(16) M. Tangheroni, Cristianità, modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico tra «mestiere» e impegno civile, cit., p. 56.
(17) Cfr. ibid., pp. 53-61.
(18) Cfr. ibidem. Tangheroni, relativamente alle caratteristiche della civiltà medioevale, cita Giorgio Falco (1888-1966) e la voce Medioevoda questi curata per l’Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti(Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. XXII, Milano 1939, pp. 740-752), che evidenzia come lo sviluppo della civiltà cristiana medioevale sia stato ispirato dalla Rivelazione e dai princìpi morali, basati sulla comune coscienza naturale universale, dei cristiani e dei romani. È interessante constatare come altri storici, in epoca successiva, pur appartenendo a una scuola storiografica diversa, siano sostanzialmente giunti alle stesse conclusioni: cfr. Léopold Genicot (1914-1995), Profilo della civiltà medioevale, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1968; Étienne Gilson (1884-1978), La filosofia nel Medioevo, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1973; e R. Pernoud, «Il Medioevo: l’unica epoca di sottosviluppo che ci abbia lasciato delle cattedrali», intervista a cura di Massimo Introvigne, in Cristianità, anno XIII, n. 117, gennaio 1985, pp. 8-11. Per costoro l’apogeo della civiltà medioevale trova la sua manifestazione nelle tre summae: la Summa theologiae di san Tommaso d’Aquino O.P. (1225 ca.-1274), la Divina Commedia di Dante Alighieri (1265-1321) e le cattedrali dell’arte gotica.
(19) M. Tangheroni, Cristianità, modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico tra «mestiere» e impegno civile, cit., p. 70.
(20) Ibid., p. 71.
(21) Ibid., p. 73.
(22) Cfr. Idem, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, cit., p. 118.
(23) Idem, Cristianità, modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico tra «mestiere» e impegno civile, cit., p. 78. Sul tema del ruolo delle sette filosofiche settecentesche nell’orientamento dell’opinione pubblica, lo studioso pisano cita in questa pagina le opere dello storico francese Augustin Cochin (1876-1916), Meccanica della Rivoluzione(1925, trad. it., a cura di Mario Marcolla [1929-2003], Rusconi, Milano 1971), e Lo spirito del giacobinismo. Le società di pensiero e la democrazia. Una interpretazione sociologica della Rivoluzione francese(trad. it., con una prefazione di Sergio Romano, Bompiani, Milano 2001).
(24) M. Tangheroni, Cristianità, modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico tra «mestiere» e impegno civile, cit., p. 90.
(25) Ibid., p. 92. Tangheroni fa riferimento ai testi di Gracchus [François-Noël] Babeuf (1760-1797), La guerra di Vandea e il sistema di spopolamento (1794, trad. it., a cura di Reynald Secher e Jean-Joël Brégeon, Effedieffe, Milano 1991) e di R. Secher, Il genocidio vandeano(con una prefazione di Jean Meyer e una presentazione di Pierre Chaunu [1923-2009], trad. it., Effedieffe, Milano 1989). Secher, come sostiene Tangheroni, si è limitato a pubblicare documenti della Convenzione, del Comitato di Salute Pubblica o di esponenti rivoluzionari; da queste fonti risulta che i morti in Vandea furono fra i duecentomila e i trecentomila (cfr. ibid., pp. 92-93).
(26) M. Tangheroni, Cristianità, modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico tra «mestiere» e impegno civile, cit., p. 95. Su questo periodo storico e su quello concernente l’epoca dell’insorgenza antigiacobina, con i relativi limiti delle interpretazioni nazionalista e marxista, cfr. anche ibid., pp. 95-106.
(27) Ibid., p. 96.
(28) Cfr. ibid., pp. 109-131.
(29) Ibid., p. 112.
(30) Ibid., p. 111.
(31) Ibid., p. 109.
(32) Idem, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, cit., p. 113-133.
(33) Ibid., p. 113. L’aforisma è tratto da Nicolás Gómez Dávila,Escolios a un Texto Implícito, II, in Escolios a un Texto Implícito. Selección, con un Prólogo di Mario Laserna Pinzón e un Epílogo di Franco Volpi (1952-2009), Villegas Editores, Bogotà 2001, pp. 149-269 (p. 154).
(34) M. Tangheroni, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, cit., p. 114.
(35) Ibid., p. 115.
(36) Ibid., p. 116.
(37) Ibidem.
(38) Ibid., p. 63
(39) Ibid., p. 64.
(40) Ibidem.
(41) Ibid. p. 67.
(42) Cfr. ibidem.
(43) Ibid., p. 68.
(44) Cfr. ibid., pp. 68-69.
(45) Ibid., p. 71.
(46) Ibid., p. 73. L’aforisma è tratto da N. Gómez Dávila, Escolios a un Texto Implícito, I, cit., pp. 25-145 (p. 111).
(47) Il riferimento è a Søren Kierkegaard, Briciole di filosofia, ovvero una filosofia in briciole e Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia», in Opere, trad. it., a cura di Cornelio Fabro C.S.S. (1911-1995), Sansoni, Firenze 1972 (pp. 199-258 e 259-611).
(48) M. Tangheroni, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, cit., p. 73.
(49) Ibid., p. 75.
(50) Ibidem.
(51) Ibidem.
(52) Ibid., p. 77.
(53) Ibid., p. 116.
(54) R. Pertici, art. cit.
(55) M. Tangheroni, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, cit., pp. 118-119, che fa riferimento a N. Gómez Dávila,In margine a un testo implicito, trad. it. parz., a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001, p. 136.
(56) Ibid., p. 119.
(57) Cfr. ibid., p. 118.
(58) Virgilio, Eneide, libro IV, v. 393.
(59) Ibid., libro II, v. 3: «tu mi comandi, o regina, di rinnovare un indicibile dolore», dice Enea rivolgendosi alla regina fenicia Didone che lo invitava a raccontare quanto gli era accaduto dopo aver lasciato Troia.
(60) Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto XXXIII, vv. 4-5.
(61) Antonio Aparisi y Guijarro, Discurso sobra el proyecto de ley determinando los medios de estender á la mejora y fomento del material extraordinario de todos los servicios del Estado, in Obras, Imp. de la Rigeneracion, 5 voll., Madrid 1873, vol. II (Discursos politicos y academicos), pp. 39-60 (p. 56).
(62) M. Tangheroni, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, cit., p. 119.
(63) G. Cantoni, La storia come «riassunto», saggio introduttivo a M. Tangheroni, Cristianità, modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico tra mestiere e impegno civile, cit. pp. 9-16 (p. 16).
(64) N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., pp. 146-147.
(65) Cfr. M. Tangheroni, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, cit., pp. 113-133.
(66) Idem, Parole mie che per lo mondo siete, Pacini, Pisa 2004, p. 31.
(67) Cfr. Tommaso d’Aquino, La Somma teologica, testo latino dell’edizione leonina, 35 voll., ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984-1988; e Idem, La Somma contro i gentili, ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2001.
(68) Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005), lettera d’auguri inviata a Pieper il 4-5-1994 per il suo novantesimo compleanno, cit. in Berthold Wald, Josef Pieper — un dottore della Chiesa del mondo moderno. Verità e realtà. Josef Pieper e l’attualità di S. Tommaso d’Aquino, <“http://dignitatispersonae.myblog.it/media/01/00/1403275374.pdf”>.
(69) Card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in una lettera personale del novembre 1997, in occasione della morte del filosofo, cit. ibidem.
(70) R. Pertici, art. cit.
(71) Cfr. Gustave Thibon, Ritorno al reale. Nuove diagnosi, 1943, trad. it, Volpe, Roma 1972, ora in Idem, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, con una Prefazione di Gabriel Marcel (1889-1973), a cura e con Considerazioni introduttive di Marco Respinti, trad. it., Effedieffe, Milano 1998, pp. 147-321.
(72) Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. IV, 1, 2008. (Gennaio-Giugno), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, pp. 374-376 (p. 375).
(73) Francesco, Dio ci insegni a rispettare i nonni, nella loro memoria c’è il futuro di un popolo, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 20-11-2013.
(74) M. Tangheroni, Le radici storiche dell’Occidente, trascrizione di una conferenza tenuta al Cinema Teatro Don Bosco di Marina di Pisa il 15-4-2002, consultabile alla pagina Internet: <http:// www.siciliacristiana.eu/ Rassegnastampa_pisa/ rad_07.htm>.