« Disse ai suoi discepoli: “È inevitabile che vengano scandali, ma guai a colui a causa del quale vengono. È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi! Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai”. Gli apostoli dissero al Signore: “Accresci in noi la fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe » (Lc 17,1-6)
Che cosa vuol dire credere? Credere è un po’ come obbedire, san Paolo infatti nella lettera ai Romani parla della fede come di una obbedienza: « l’obbedienza della fede » (1,5), dove bisogna fare attenzione al fatto che quel « della fede » è un genitivo “epesegetico”, cioè tale da spiegare il significato del sostantivo. Significa: l’obbedienza che è la fede. Quando credo infatti – a ben vedere – obbedisco. Accetto quanto di mi viene detto non perché capisco che è vero, ma perché mi fido di colui che mi parla. Questa fiducia può essere di varia natura. Può essere di carattere scientifico, come fa uno storico leggendo e accettando, dopo avere esercitato una appropriata critica, un documento. Il documento deve essere vero, non ci sono motivi per metterlo in discussione, per cui lo accetta e, basandosi su documenti di questo tipo costruisce il suo racconto storico. Si fida del documento non per una particolare stima in colui che lo ha redatto, ma perché tutto gli fa pensare che l’autore non abbia voluto o potuto mentire o inventare. L’obbedienza della fede non è di questo tipo: se lo fosse sarebbe come la fede dei demóni che, anch’essi « credono e tremano » (Gc 2,19). Assomiglierebbe solo alla fede, non sarebbe un grazia di Dio ma solo un calcolo umano e certamente non sarebbe il presupposto della salvezza. La fede vera, la fede che salva è di un altro tipo. È anch’essa una « obbedienza », che etimologicamente significa sia in greco che in latino (e quindi anche in italiano) un “ascoltare da sotto”. Implica cioè una sottomissione, il riconoscimento di una superiorità e un ascoltare con riverenza. D’altronde anche la parola “ascoltare”, può significare anche “obbedire”, come quando una mamma dice al suo bambino: “ascolta”! Di che tipo è allora l’obbedienza della fede? È appunto simile all’obbedienza di un bambino nei confronti dei genitori. Quando un bimbo obbedisce al papà non lo fa perché “calcola” che il papà la sa più lunga di lui e quindi deve avere ragione, ma perché è istintivamente portato a rispettarlo, ad ammirarlo, a considerarlo un modello. Sappiamo come questo oggi sia spesso compromesso dalla crisi della famiglia e da errori e deformazioni educative, così che questo fatto costituisca uno dei problemi più terribili del nostro tempo. Il bambino è spesso deluso e scandalizzato, proprio nella fase in cui avrebbe un bisogno assoluto e totale di questa fiducia che – sola – gli permette di crescere in modo equilibrato. Quando la scrittura ci parla della necessità di diventare bambini, si riferisce proprio alla necessità di recuperare questo aspetto dell’essere bambini: il senso di fiducia, di rispetto, di ammirazione nei confronti delle figure paterna e materna. « […] se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli ». Si tratta di una metafora, anzi, a ben guardare, di una vera e propria analogia, in cui dunque c’è una similitudine, che però convive con una differenza. Gesù non ci chiede di diventare bambini nel senso di cadere nell’ “infantilismo”: « non comportatevi da bambini nei giudizi. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi » (1Cor 14,20). Il bambino è certamente “immaturo”, non sa, ma però è tutto pervaso da un irresistibile desiderio di sapere. « […] quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto » (1Cor 13, 10-12; cfr. anche 1Pt 2, 2). Una caratteristica del bambino spesso fastidiosa per l’adulto è proprio questo suo impertinente desiderio di sapere che si traduce in continue domande, che sono per lo più domande “difficili” e quindi imbarazzanti. Il bambino smette di fare domande solo quando ha perso fiducia nell’adulto, a causa del suo cattivo esempio. Il bambino è piccolo, ma desidera crescere. Un bambino che vuole rimanere tale ha dei problemi: in lui l’infantilismo è diventato “patologico”. Chi rimane in questo stato si sottopone a tanti gravi pericoli, rischia cioè di diventare come: « […] fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore » (Ef 4,14). C’è però una semplicità, una ingenuità, una umiltà che devono rimanere anche nell’adulto, nel vecchio e nell’intellettuale e solo se rimangono costituiscono il presupposto di una fede vera. « Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli » (Lc 10, 21; Mt 11, 25).
Don Piero Cantoni