di Valter Maccantelli
Domenica 6 ottobre la Casa Bianca ha emesso il breve comunicato qui ripubblicato. Nei fatti la nota, decretando il ritiro delle truppe statunitensi dalle zone di confine turco-siriano, dà il via libera alla “richiesta” del presidente Recep Tayyip Erdogan di occupare militarmente una fascia di territorio siriano profonda circa 30 km a est del fiume Eufrate. Questo nullaosta cambia improvvisamente il panorama del conflitto siriano e introduce variabili sconosciute negli equilibri di tutta la regione.
Donald J. Trump lo fa per numerose ragioni non tutte comprensibili, ma tutte molto problematiche per gli attori della scena.
In primo luogo gli Stati Uniti si sfilano dal ginepraio siriano. Se non fosse stato per la necessità di non lasciare l’esclusiva della lotta contro l’ISIS a Russia e a Iran, le truppe statunitensi non sarebbero neppure mai giunte lì. Ottenuto lo scopo principale, cioè la sconfitta militare del sedicente califfato, a Washington non vedono alcuna utilità nel rimanere invischiati in beghe lunghe e costose. Un errore già commesso molte volte che lascia libere le frattaglie ultra-fondamentaliste di scorrazzare nelle zone rurali e riorganizzarsi per colpire di nuovo.
Certo, resta il problema degli alleati curdi siriani, considerati da Ankara nemici giurati da sterminare, ai quali Stati Uniti ed Europa hanno chiesto di lanciarsi a corpo morto contro le roccaforti dell’ISIS, promettendo in cambio protezione dalle mire turche. Non più tardi di agosto i curdi hanno accettato, su consiglio statunitense e cinguettio europeo, di demolire le proprie fortificazioni nella zona di sicurezza per tranquillizzare le forze armate di Ankara, dalle quali, in settimana, saranno attaccati con il beneplacito euro-atlantico. Ma si sa: la riconoscenza non è di questo mondo.
La mossa è comunque astuta sul piano della diplomazia generale: disimpegnandosi dal conflitto, gli Stati Uniti lasciano i competitor a vedersela direttamente da soli. La Russia a presidiare il territorio dei lealisti di Damasco (e le proprie basi sul Mediterraneo) dall’incombente esercito di Erdogan con il quale, per contro, Mosca sta cercando di stringere alleanze di vario tipo: dagli accordi sui corridoi energetici, alla fornitura di armamenti in chiave anti-NATO (è recente la questione degli S400). Ma anche l’Iran, Paese sciita che si trova ora a diretto contatto con la Turchia sunnita e con la quale cercava di trovare un labile filo d’intesa in un interesse comune a irritare gli Stati Uniti.
I soldati statunitensi in zona sono sempre stati poche centinaia, ma il rischio di coinvolgerli accidentalmente in scontri diretti ha tenuto in questi mesi separati gli eserciti schierati a raggiera intorno agli obiettivi di Daesh. Iran, Russia e Turchia avranno qualcosa di cui parlare alla prossima riunione del Gruppo di Astana, convocato per escludere gli Stati Uniti dalla risoluzione del conflitto siriano, ma che, paradossalmente, si regge proprio sulla presenza di Washington nel teatro.
A leggerlo attentamente il comunicato più che una concessione sembra un boccone avvelenato. Quasi tutti si fermano al primo capoverso ma esiste anche il secondo. L’amministrazione Trump – è detto in esplicito – non intende spendere tempo e denaro dei contribuenti per gestire il problema dei foreign fighter ex-ISIS che i Paesi d’origine rifiutano di riprendersi (significativa la citazione nominativa di Francia e Germania) sottolineando che la Turchia avrà la responsabilità esclusiva del controllo di tutti quelli catturati negli ultimi due anni.
Non è una questione da poco, poiché nell’imminenza della caduta delle principali roccaforti dell’ISIS venivano creati, su pressione internazionale, i famosi “corridoi umanitari” attraverso i quali sono usciti migliaia di combattenti del califfato, i più irriducibili con le proprie famiglie, molti dei quali finiti, di sconfitta in sconfitta, asserragliati in comunità-polveriera a est dell’Eufrate, che da domenica scorsa sono un problema esclusivamente turco.
Perché un politico astuto come Erdogan questa polpetta non solo la ingoia, ma addirittura la pretende? Perché ha un progetto, una necessità e un problema.
Il progetto è dilatare il frammento dell’impero turco sopravvissuto alla Prima guerra mondiale: quello di riunire tutti i popoli turcofoni fra l’Anatolia e la Mongolia è oggi chiaramente un miraggio, ma nella realtà può andare bene anche annettersi, prima di fatto e in futuro di diritto, la Siria settentrionale e il Kurdistan iracheno. Un primo passo.
La necessità è quella di sterilizzare i santuari curdi esterni al territorio nazionale turco: Erdogan non riuscirà mai a domare le proprie province del sud-est anatolico, a maggioranza curda, fino a quando queste potranno scambiarsi aiuti e supporto con le analoghe province degli Stati confinanti. L’occupazione militare del nord della Siria ‒ o, meglio, il suo completamento visto che già ne occupa i cantoni a ovest dell’Eufrate ‒ gli risolverebbe l’impasse.
Il problema sono i quasi quattro milioni di profughi siriani presenti in Turchia. Non sono arrivati per caso, sono stati ammessi e addirittura incoraggiati a passare la frontiera. Ma questo accadeva quando l’economia turca cresceva a doppia cifra e quando Erdogan li vedeva come un’opportunità di ricatto verso l’Europa per ottenere lucrose compensazioni economiche a fronte della garanzia di trattenerli sul suo territorio. Oggi non è più così: l’economia langue, la lira turca è in caduta libera e il lavoro scarseggia. Molti analisti attribuiscono la recente e cocente doppia sconfitta del suo partito, il AKP, nelle elezioni amministrative di Istanbul al malcontento causato dal mezzo milione di profughi siriani accampati sulle rive del Bosforo. L’acquisizione di una fascia di territorio siriano, ma sotto il controllo turco permetterebbe al “sultano” di Ankara di farsi paladino del rimpatrio (di fatto una nuova deportazione) di questa massa di disperati senza perderne il controllo, visto oltretutto con un sospiro di sollievo dai paesi europei.
Resta da chiedersi come mai improvvisamente la Casa Bianca ha deciso di risolvergli tutte queste questioni in un colpo solo.
Molti commentatori europei utilizzano, contro Trump, la categoria del tradimento e avrebbero (hanno) ragione se non fosse per il fatto che le cancellerie europee ne sono corresponsabili anche più degli Stati Uniti, i quali in questi anni almeno un po’ di supporto aereo e di forze speciali lo hanno messo in campo. L’Europa non si è accorta della crescita dello Stato Islamico, quando si è trovata a constatarla non ha reagito in alcun modo, ha condannato l’intervento russo-iraniano come lesivo dei diritti dei tagliagole, ha aderito pavidamente alla strategia statunitense di delegare i curdi (i quali oggi possono legittimamente rimpiangere di avere al tempo snobbato l’offerta russa) alla battaglia e lo ha fatto, Italia compresa, inviando qualche moschetto di seconda mano e discutendo perfino se era lecito mandare anche i proiettili. Non è certo l’Europa ad avere l’autorità morale per parlare di tradimento e, forse in un impeto di pudore, i suoi vertici politici farebbero bene a mantenere, sugli avvenimenti di questi giorni, il loro oramai abituale e assordante silenzio.
La politica estera di Trump si è rivelata efficace su alcuni fronti, specialmente quelli che coinvolgono i grandi assetti geopolitici e geoeconomici: si pensi al successo che sta avendo nel contenimento delle ambizioni di superpotenza della Cina. Il Medioriente è però il suo tallone di Achille. Lo è stato, in realtà, per tutti i presidenti statunitensi: Barack Obama, nel viaggio di commiato in Arabia Saudita, trovò a riceverlo, al fondo della scaletta, dell’Air Force One solo personaggi di terz’ordine e venne a stento ricevuto a corte.
Le ragioni possono essere molte: la profonda estraneità culturale alla complessità multidimensionale del mondo islamico, l’incomprensione del peso delle dinamiche claniche, famigliari, a tratti perfino personali nella politica mediorientale, l’intreccio inestricabile di complicità e interessi che lega il deep state d’oltreoceano ‒ che continua a detestare cordialmente il presidente ‒ con i centri del potere arabo-sunnita, alcuni pessimi suggeritori che agiscono più da lobbisti per varie nazioni mediorientali (Israele e Arabia Saudita in primis) che da consiglieri.
Sta di fatto che questa decisione, se per davvero verrà attuata, rischia di compromettere seriamente la stabilizzazione del conflitto siriano minando al contempo i fragili equilibri che si stavano delineando nella regione nonché di compromettere seriamente, con l’abbandono delle milizie curde alla vendetta della Turchia, la fiducia di potenziali alleati presenti e futuri
Mercoledì, 9 ottobre 2019