Da Avvenire del 25/03/2021
Che l’Italia venga censurata perché sarebbe «ancora difficile abortire» pare davvero incredibile. Con 76.328 aborti nel 2018 (una media di 209 al giorno), e la legge 194 che garantisce la prestazione a cura del Servizio sanitario nazionale, l’interruzione volontaria di gravidanza non sembra essere davvero così inaccessibile nel nostro Paese. Eppure c’è chi pensa che l’Italia dovrebbe rendere l’aborto più facile, senza curarsi che a diventare più facile oggi semmai dovrebbe essere il poter avere tutti i figli che si desiderano, senza sentirsi gravare sulle spalle la pressione che spesso porta a decidere di rinunciare alla maternità. Una questione di priorità, evidentemente. Ma la burocrazia non conosce simili sottigliezze, in Italia come in Europa. La reprimenda al nostro Paese per non aver facilitato gli aborti arriva infatti dal Comitato della Carta sociale europea, organo del Consiglio d’Europa che monitora la doverosa applicazione nei 47 Paesi membri dei princìpi che assicurano giustizia e diritti a tutti denunciando nei suoi report periodici discriminazioni e abusi e incalzando i governi a fornire documentazioni a propria discolpa su dossier aperti in seguito a denunce di cittadini e associazioni. Nel nuovo dossier sugli sviluppi dei «reclami collettivi», diffuso ieri, il Comitato esamina i contenziosi avviati contro l’Italia da International Planned Parenthood Federation (Ippn), organizzazione che promuove gli aborti in tutto il mondo, e dalla Cgil sulla mancata rimozione delle difficoltà nell’accesso all’aborto. Entrambe vertenze d’annata: Ippn la aprì il 10 settembre 2013, il sindacato il 12 ottobre 2015. Da allora i governi italiani che si sono succeduti hanno già ampiamente risposto ai rilievi, prendendo così sul serio le denunce da effettuare per la prima volta un monitoraggio dettagliato sui carichi di lavoro dei medici non obiettori. Le cifre emerse dallo studio, poi confluite nelle annuali Relazioni al Parlamento sull’attuazione della 194, hanno mostrato quel che si sapeva: e cioè che in un Paese dove, decimale più decimale meno a seconda degli anni, 3 ginecologi su 10 hanno dichiarato la loro disponibilità a praticare aborti l’obiezione di coscienza – vero bersaglio di questa campagna – non è un problema. Anzi. Salvo qualche isola di inefficienza, da imputare a un’organizzazione regionale da ricalibrare, i medici che praticano aborti in media sono impegnati episodicamente in questa prestazione, e alcuni di loro risultano addirittura assegnati ad altro incarico. Ma al Comitato i dati presentati dall’Italia non bastano, se «ha ritenuto in particolare che vi sia una discriminazione per motivi di status territoriale e/o socio-economico tra le donne che hanno accesso relativamente illimitato a strutture legali per l’aborto e quelle che non ce l’hanno» mentre «vi sarebbe una discriminazione in base al sesso e/o allo stato di salute tra le donne che cercano l’accesso a procedure legali di interruzione e uomini e donne che cercano l’accesso ad altre forme legali di procedure mediche che non sono fornite in modo così limitato». Pare un dialogo tra sordi. Se si vuole penalizzare il diritto all’obiezione di coscienza si abbia il coraggio di dirlo apertamente.