di Marco Invernizzi
L’aborto, ancora di più del divorzio, è una ferita aperta nella vita del nostro Paese come in quasi tutto l’Occidente. Per uscirne bisogna imboccare la stessa strada che deve percorrere chi lo ha commesso a diverso titolo, madre, padre, medico: perdono e conversione.
È una strada dolorosa a livello personale, come spiegano tutte le realtà che si occupano dei traumi del post-aborto, ma lo è anche a livello culturale e politico. Ogni volta che un uomo pubblico (l’ultimo in ordine di tempo è stato Matteo Salvini) accenna a una critica nei confronti di chi abortisce (che non è mai una madre da sola) si sollevano i difensori del “diritto delle donne di scegliere”, quasi come se fosse stato toccato un dogma indiscutibile. Lo stesso mondo cattolico reagisce, come ha fatto Antonella Mariani in un editoriale di Avvenire del 18 febbraio, ricordando il dramma delle donne soprattutto straniere, giovani e sfruttate, lasciate sole con la propria gravidanza dopo essere state costrette a prostituirsi con la quasi certezza di rimanere incinte.
Chi è sempre assente in questi modi di ragionare è però il concepito. Un essere innocente, indifeso, escluso e alla fine ucciso. Anni fa il Movimento per la vita lanciò la campagna «Uno di noi» per attirare l’attenzione anche su questo aspetto del dramma, ma nella polemica il concepito continua a rimanere (quasi) sempre assente.
Di fronte alla domanda sul che fare davanti all’aborto va ricostruita anzitutto una unità d’intenti almeno a partire dal mondo cattolico e in generale pro life. A tutti gli altri protagonisti va ricordato che esaltare soltanto il diritto all’autodeterminazione della donna come fosse un assoluto dogmatico che possa prescindere perfino dalla vita del bambino che portano in grembo è un’affermazione ideologica e contro la giustizia. E per non essere accusato di sostenere il Centro-destra a prescindere vorrei ricordare che, purtroppo, questa posizione è presente anche nelle parole di Salvini riprese per esempio dal Corriere della Sera: «nessuno mette in discussione il diritto alla libera scelta delle donne». Il concepito forse avrebbe qualcosa da eccepire.
Nel mondo cattolico e pro life esistono due atteggiamenti diversi: vi è chi insiste nella denuncia del male provocato dalla introduzione della legge 194 e vi è chi preferisce ricordare come, dopo oltre 40 anni dalla legalizzazione, nel 1978, bisogna soprattutto mostrare il valore e la bellezza della vita, soprattutto perché quasi due generazioni di italiani sono assolutamente estranee alle polemiche scoppiate dopo la legalizzazione, sfociate nel referendum del 1981 e continuate ancora per diversi anni.
A dividersi si fa presto, stare insieme per una battaglia comune di civiltà, che comporta rinunciare a qualcosa delle proprie opinionie una dose di umiltà grande, è una fatica senz’altro maggiore. Ma è l’unica strada non soltanto perché divisi non si ottiene molto, ma soprattutto perché le due prospettive sono entrambe necessarie: non si può sperare di modificare o di abrogare la legge abortista se prima non si riconquista un consenso per la vita che già nel 1981 non esisteva, come ha dimostrato la sconfitta nel referendum.
Perdono e conversione, appunto. Non è soltanto una prospettiva personale, ma è la strada che deve percorrere tutta la generazione che ha creduto nella falsa rivoluzione antropologica che sta a monte dell’ideologia abortista. Ma per raggiungere questo obiettivo ci vuole un paziente lavoro di sensibilizzazione del corpo sociale, che non potrà non sfociare nell’abrogazione di una legge iniqua, ma che non può cominciare da qui.
Martedì, 18 febbraio 2020