di Marco Respinti
La Louisiana marcia spedita come un treno verso la messa fuori legge dell’aborto. Il 21 maggio anche il Senato di quello Stato ha approvato la legge, già promossa dalla Camera il 23 aprile, che chiede di introdurre nella Costituzione statale un emendamento per bandirlo. Il tutto finirà a referendum popolare il 12 ottobre, ma le maggioranze enormi con cui la proposta è passata nei due rami dell’assemblea legislativa, che rispecchiano un orientamento diffusissimo nell’elettorato, spingono a supporre che la vittoria dei “sì” non dovrebbe mancare. Si è trattato di una decisione storica, in piena e voluta rotta di collisione con la legge che invece permette l’aborto a livello federale.
A mo’ di paracadute, caso mai quel voto fosse andato male, era del resto già pronta una seconda proposta, quella di proibire l’aborto non appena sia possibile ascoltare il battito cardiaco del bambino nel ventre della propria madre. Ebbene, anche questa legge è stata approvata dalla Camera della Louisiana martedì 30 grazie a un’altra maggioranza schiacciante, 79 a 23, dopo che il Senato l’aveva approvata il 6 maggio con 31 voti a favore contro 5. La Louisiana è quindi oggi uno Stato dove la legge sull’aborto è già ai minimi storici, in attesa di ratificarne il bando completo già deciso dai suoi legislatori.
Una settima esatta prima del voto sull’emendamento costituzionale espresso in Louisiana il 21 maggio, un altro Stato, l’Alabama, aveva votato la messa al bando totale dell’aborto, eccetto in caso di pericolo serio per la vita della madre. Il pericolo per la vita della madre dovrà peraltro essere documentatamente serio, ma, una volta che lo fosse, si tratterebbe di una fattispecie totalmente diversa. Un conto è infatti premeditare e attuare la soppressione della vita nascente con l’aborto, un altro curare una madre in pericolo di vita secondo modalità che possano anche comportare la morte della creatura che la donna porta in grembo. Cambia tutto perché cambia l’intenzione, perché cambia il modo dell’azione, perché cambia l’oggetto dell’intervento. Del resto, anche agire medicalmente per salvare la vita di una madre con il fortissimo rischio, persino rasentante la certezza, di mettere a repentaglio la vita della creatura che la donna porta in seno non coincide mai con la volontà positiva di sopprimere la vita nascente. E peraltro nessuno può avere la certezza matematica previa che un intervento a favore di una madre potenzialmente pericoloso per il suo bimbo lo sia poi fattualmente. Del resto, una madre può comunque volontariamente scegliere di non curarsi anche solo sospettando che il farlo comporterebbe lesioni per la sua creatura, come fece santa Gianna Beretta Molla (1922-1962).
Ora, Louisiana e Alabama sono due casi fantastici, ma non sono straordinari. Nel senso che, negli Stati Uniti d’America, decisioni politiche così stanno diventando piuttosto ordinarie. Anche Georgia, Kentucky, Mississippi eOhio hanno infatti votato per proibire l’aborto dopo che sia stato possibile rilevare il battito cardiaco del bambino. Quindi Utah e Arkanas hanno approvato la limitazione dell’aborto a metà del secondo trimestre di gravidanza, laddove invece la legge federale lo consente fino alla 24 e in alcuni casi anche alla 28 settimana.
Certo il Kentucky è stato bloccato da un giudice, ma l’aria sta decisamente cambiando. Basti pensare, fatto clamoroso, che in Louisiana i propositori delle due leggi che hanno vinto a mani basse, quella sull’emendamento costituzionale e quella sul battito cardiaco, sono due esponenti del Partito Democratico, famoso come alfiere della “cultura di morte”, e che Democratico è pure il governatore di quello Stato, John Bel Edwards, che ha già promesso la firma in calce alla legge approvata martedì.
Che l’aria stia proprio cambiando lo dimostra comunque la reazione sopra le righe del jet-set che sostiene foraggia la “cultura di morte” a suoni di milioni. Dopo il voto parlamentare, la Georgia ha varato la limitazione dell’aborto con la firma del provvedimento, il 7 maggio, da parte del governatore, Brian Kemp, Repubblicano. Adesso però Netflix, il colosso mondiale dei film distribuiti on demand, gli ha dichiarato guerra, seguito da Walt Disney, NBCUniversal, WarnerMedia, Sony Pictures, CBS e Showtime. Minacciano tutti di boicottare l’economia dello Stato, chiudendo i propri studi di ripresa in Georgia. Grazie a un sistema particolarmente felice di sgravi fiscali, infatti, la Georgia è oggi la mecca dei cineasti. Lì sono state girate alcune delle produzioni più famose e popolari. Soltanto nel 2018 l’industria cinematografica ha prodotto in Georgia 92mila posti di lavoro e un giro di affari di 2,7 miliardi di dollari.
Uno potrebbe legittimamente domandarsi perché mai Hollywood, che appunto non sta più o non sta solo a Hollywood, debba ingerire così palesemente nella decisione sovrana di un parlamento, votato da milioni di cittadini. Ma sarebbe una domanda ingenua.
Sabato, 1 giugno 2019