Dialogo immaginario ma non inverosimile con il “certosino dell’Altopiano”. Una riflessione a colpi di aforismi sul bello, sull’arte e sull’immaginazione, che non è contrapposta alla realtà, ma la redime.
di Stefano Chiappalone
Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) costituisce una sfida all’intelletto di chi dialoga con questo «oscurantista luminoso» (la calzante definizione è di Marcello Veneziani: Nicolás Gómez Dávila, l’oscurantista luminoso che cesellava le parole, in Il Giornale, 13 maggio 2013), diffuso in Italia soprattutto per merito di Giovanni Cantoni (1938-2020), fondatore di Alleanza Cattolica. Pensatore cattolico colombiano, reazionario (definizione che preferiva a quella di conservatore), poliglotta, autore di densi e brillanti, talora pungenti aforismi su molteplici argomenti, tra cui un certo numero di essi dedicati a temi estetici ed artistici. L’intervista che segue è ovviamente immaginaria, sia perché l’intervistatore aveva solo 12 anni alla morte di NGD, sia perché non è mai stato a Bogotà (città dalla quale il certosino dell’Altopiano non si muoveva mai). Le risposte però sono integralmente e letteralmente tratte dai suoi aforismi.
NGD mi accoglie nella sua immensa biblioteca seduto su un’elegante poltroncina rivestita in pelle e ornata da colonnine, restando più che immobile, direi statuario. Un aristocratico e venerabilissimo vegliardo, vestito elegante nonostante non esca mai di casa, con gli occhi vispi che guizzano dietro la spessa montatura e i baffetti che si inarcano sovente in un sorriso ironico e distaccato. Le gambe accavallate e le braccia che con ampi movimenti vanno delineando la circonferenza di quel suo regno di carte antiche e fumi di sigaro. Una circonferenza il cui centro, beninteso, è se stesso che così descrive accogliendo l’ospite:
– Vivo con lucidità una vita semplice, silenziosa, discreta, tra libri intelligenti, amando poche persone.
Soprattutto «poche persone», aggiungo ironico, ma la replica è pronta:
– Limitando il nostro uditorio limitiamo i nostri passi falsi. La solitudine è l’unico arbitro incorruttibile.
Eppure Lei non ha l’aria di un uomo solo, isolato.
– La fede popola la mia solitudine con il suo sordo mormorio di vita invisibile.
Il mio sguardo resta però calamitato dagli innumerevoli libri alle sue spalle e rivolgo la più banale delle domande: li ha letti tutti?
– Più di una volta: solo da una lettura ininterrotta, ratificata da una seconda lettura, può nascere un giudizio assennato su un libro. Ma c’è anche un’altra ragione…
Lo guardo con aria interrogativa, cercando di indovinare l’aforisma di turno:
– Appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte.
Appartengono alla letteratura – riprendo, osservando la quantità di testi datati – prevalentemente i libri antichi…
– Le lettere antiche ci salveranno dalla scabbia moderna.
Insomma, Lei legge molto, ma scrive poco. O, meglio, con poche parole.
– Scrivere breve prima di annoiare. E poi Lei stesso, che conosce i miei aforismi a memoria, sa bene che…
…Che tra poche parole è difficile nascondersi come tra pochi alberi! E so anche che la prolissità non è un eccesso di parole, ma una carenza di idee!
– Ben due aforismi in un colpo! Non vorrà mica rubarmi il mestiere! [Il maestro sobbalza divertito].
Lungi da me! Anzi, torniamo ai libri perché anch’essi rivestono una dimensione estetica ed è precisamente di questo che vorrei conversare con Lei.
– Malgrado l’intrusione di fronzoli estetici nelle lettere, gli artifici estetici non sono strumenti da laboratorio, ma trappole per dare la caccia agli angeli.
Suggestivo, ma…non sarà immaginazione?
– Senza l’immaginazione la realtà è uno spettacolo noioso che l’intelligenza esamina e classifica. Senza la realtà, l’immaginazione è un meccanismo che reitera percorsi sempre uguali. Compito dell’immaginazione è la redenzione della realtà.
Mi astengo dal fargli notare l’inusuale lunghezza di questo aforisma e proseguo: Lei intende dire che l’immaginazione ci consente di cogliere il lato, per così dire, sacramentale della realtà?
– Il mondo è sacramentale o è insipido.
Quasi mi commuovo, ricordando che questo è uno dei primi aforismi che ho memorizzato, mentre il maestro esplicita meglio il suo pensiero a beneficio dei lettori:
– L’immaginazione, se fosse creatrice, sarebbe pura fantasia. Immaginare è percepire ciò che sfugge alla percezione ordinaria.
Vista così, c’è effettivamente di che stupirsi.
– Rifiutare di stupirsi è il contrassegno della bestia.
Ma ci saranno anche delle realtà in cui è impossibile cogliere questo lato che abbiamo definito sacramentale, questo richiamo all’infinito?
– L’essere trasuda da tutti i pori del mondo.
Dunque – aggiungo avvicinandomi al tema centrale – Lei pensa che si possa fare vera arte con qualsiasi soggetto?
– Non c’è tema precluso all’artista, né tema che sia possibile sempre e comunque.
Né tema possibile che possa perfettamente riuscire…
– Vede, l’arte non annoia mai, perché è un’opera senza preliminari garanzie di riuscita.
Eppure, vorremmo che certi dipinti…
– …ci invitassero dentro il quadro per partecipare al loro modo di essere. So bene che questo – prosegue sogghignando – è uno dei suoi aforismi preferiti!
Ma allora cos’è che fa la differenza? Perché lo stesso artista a volte riesce e a volte fallisce?
– Perdoni la premessa: tra l’opera di un artista e la sua poetica c’è una distanza tale che l’opera non illumina necessariamente la poetica, né quest’ultima offusca necessariamente l’opera. Pertanto – e qui vengo al punto – l’artista coglie nel segno per ragioni che ignora.
Se non c’entra la poetica, allora neanche i precetti estetici sono una comoda garanzia di successo, né, come ritengono i nostri contemporanei una scomoda gabbia che lo impedirebbe…
– I precetti estetici, lungi dall’apportare soluzioni tecniche, aggiungono un ingrediente in più al problema, che solo il talento dell’artista risolve.
Per questo tanti capolavori del passato, pur essendo concepiti in epoche e mentalità – e quindi visioni estetiche – molto diverse dalla nostra continuano ad affascinarci?
– La bellezza delle opere non è relativa. Relativa è solo la loro estetica.
Oltretutto, Lei mi insegna che l’estetica non può dare ricette…
– Esatto: non ci sono metodi per fare miracoli.
E come si riconosce la vera opera d’arte?
– Dove c’è opera d’arte non c’è diavolo.
Il ragionamento si può ribaltare: in certa arte astratta è difficile vedere qualunque cosa, figuriamoci il diavolo.
– L’arte astratta non è illegittima, è limitata.
Nel senso che finisce per non comunicare? O per comunicare solo all’artista…
– L’arte attuale è inintelligibile senza l’estetica dottrinaria che la puntella.
Ma c’è anche un’arte moderna che parla in modo eloquente. Peccato che, rinchiuso il cielo – cristiano o mitologico dei secoli precedenti – parli troppo spesso di cose tristi: dall’urlo angoscioso di Edward Munch (1863-1944) ai bambini impiccati delle installazioni di Maurizio Cattelan.
– L’arte moderna non è capriccio, come pensa l’ignorante: è tragedia.
Purtuttavia, qualcuno Le obietterà che bisogna aprirsi alle avanguardie.
– Di solito chi si proclama artista d’avanguardia appartiene all’avanguardia di ieri.
E le avanguardie dell’altro ieri?
– L’architettura dell’Ottocento ha confuso l’organismo con il vestito, quella del Novecento lo confonde con lo scheletro.
Praticamente un’autopsia…
– Le arti moderne stanno morendo di autofagia.
Alcuni sono però convinti di operare una liberazione dell’arte. Alcuni artisti si atteggiano a liberatori dagli schemi borghesi – o presunti tali.
– L’artista contemporaneo si ribella alla borghesia per venderle più care le proprie opere.
Cambiando apparentemente discorso, con il sigaro che funge da bacchetta magica mi esorta – restando ovviamente seduto – ad affacciarmi alla finestra per contemplare la sua Bogotà e prosegue:
– L’architettura coloniale di questo continente fa parte del paesaggio. L’architettura posteriore lo insudicia soltanto.
E non solo in questo continente! Diciamo che l’intero Occidente ha voltato le spalle al bello.
– L’umanità attuale ha sostituito al mito di un’arcaica età dell’oro quello di una futura età della plastica.
Contemplo la poltroncina ornata su cui siede quell’uomo dall’aria ancestrale quanto la libreria che lo circonda e commento l’ordinarietà dei nostri ambienti e arredamenti dotati di ogni comfort ma terribilmente freddi.
– La bruttezza di un oggetto è la condizione preliminare del suo moltiplicarsi su scala industriale.
Dicono però che le costruzioni attuali siano forse meno belle, ma più funzionali.
– La modernità chiama funzionale ogni attività arbitrariamente ridotta a una sola delle sue possibili funzioni.
Certo, la funzionalità così intesa è un pretesto. In passato erano incantevoli anche gli edifici «funzionali», pensiamo a cascine e botteghe, lavabi e refettori. Mentre oggi persino le chiese recenti subiscono il mito funzionalista.
– L’architettura moderna è capace di innalzare capannoni industriali, ma non riesce a costruire né un palazzo né un tempio. Questo secolo lascerà soltanto le tracce dei suoi andirivieni al servizio delle nostre più sordide brame.
Non ci sarà anche, alla base di certe cattedrali-hangar, una sorta di allergia al rito da parte del committente ecclesiastico che finisce per banalizzare liturgie e chiese?
– Chi disprezza i riti non si rende conto che sta chiedendo a ciascun individuo di reinventare l’intera avventura umana.
Il rito è ciò che rende un giorno diverso dagli altri giorni, come diceva Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944). O un edificio diverso dagli altri edifici. Ma c’è anche un diffuso pregiudizio per cui la tradizione non sarebbe più qualcosa da trasmettere bensì come un peso da scrollarsi di dosso:
– La tradizione pesa sullo spirito come l’aria sulle ali di un aereo.
Finalmente un po’ di respiro dopo il grigiore dell’architettura moderna. Ma allora dovremmo imitare le opere del passato?
– Niente è più facile dell’imitare l’estetica classica, ma niente è più difficile dell’osservarne i precetti.
Ma poco fa non aveva detto che i precetti estetici non sono risolutivi e che l’estetica non fa miracoli?
– Le estetiche indicano all’artista in quale ambito dell’universo si trova la bellezza che cerca, ma non gli garantiscono che riuscirà a catturarla.
Mi pare sempre più chiaro che la questione non risieda nell’imitazione esteriore, ma nella disposizione interiore.
– Le dirò di più: non emuliamo l’opera che ci emoziona, ma cerchiamo piuttosto di essere degni dell’emozione.
Lei è davvero un soggetto singolare. È pessimista, disincantato e – non si offenda – lievemente cinico… e mi parla di emozioni!
[Il maestro, per nulla offeso, anzi divertito, mi risponde per le rime]:
– Le ricordo che in apertura di quel Suo libercolo dedicato a questi temi, proprio Lei ha inserito uno dei miei aforismi più poetici: è sufficiente che la bellezza sfiori appena il nostro tedio perché il cuore ci si laceri come seta tra le mani della vita.
Touché! Come sempre spetta a lui l’ultima parola, anzi l’ultimo aforisma. Ma non smentisce la sua fama quando, congedandomi, mi sussurra sottovoce, un po’ beffardo:
– Le svelo un segreto: la vera opera d’arte è quella di cui possiamo decretare senza errore, prima ancora di vederla, che la sua esistenza è impossibile.
Sabato, 18 luglio 2020