Nota del dicembre 2018
Riproponiamo un articolo scritto nel 1997 che — evidenziando il grande impegno del suo autore, Alfredo Mantovano, nel contrasto della diffusione dell’uso degli stupefacenti e della mentalità ad essa favorevole — mostra chiaramente quanto il prevalere di una maggioranza politica nel parlamento italiano possa agevolare o arginare la piaga sociale rappresentata dalla droga.
Alfredo Mantovano, Cristianità n. 264 (1997)
L’11 marzo 1997 alla Camera dei Deputati sono state approvate tre mozioni orientate a un inasprimento della lotta contro la droga: ciò ha imposto una brusca battuta d’arresto al movimento antiproibizionista, alle cui tesi hanno aderito numerosi parlamentari e uomini di governo. Tale importante avvenimento è occasione sia per rileggere la storia recente della legislazione italiana in tema di tossicodipendenza, sia per presentare una proposta di legge del Polo per le Libertà, la numero 3347, che intende offrire una risposta adeguata — decisa e insieme sensibile alle istanze del ricupero — a questa gravissima piaga sociale.
Aggiornamenti dal fronte della lotta contro la droga
«Sono tranquillo. C’è una proposta di legge di liberalizzazione sulla canapa indiana sorretta da 122 firme, da Rifondazione ai Ver- di al Pds fino a Taradash, Sgarbi e Maroni della Lega. […] Alla fine ce la faremo, come con aborto e divorzio» (1): così il sottosegretario di Stato al ministero di Grazia e Giustizia, on. Franco Corleone, commentava il voto della Camera dei Deputati dell’11 marzo 1997, sulle mozioni presentate in materia di droga, che avevano espresso un chiaro indirizzo ostile a ogni ipotesi di legalizzazione dello spaccio, o comunque della cessione di sostanze stupefacenti.
L’analogia fra la campagna per la droga libera e le campagne pro divorzio e pro aborto è pertinente, sia dal punto di vista contenutistico, essendo identica l’ideologia relativistica e destrutturante, sia quanto alle modalità operative; il «fronte dello spinello», seguendo un copione già sperimentato per il divorzio e per l’aborto, ha proceduto per gradi: il referendum del 1993, la 1a Conferenza Nazionale sulle Tossicodipendenze, svoltasi a Palermo nel giugno del 1993, e il lancio in quell’occasione della strategia detta della «riduzione del danno», la persecuzione amministrativa e finanziaria delle comunità di ricupero «ostili», lo spazio e la benevolenza verso le comunità di ricupero «amiche», gli ordini del giorno pro legalizzazione approvati da consigli comunali e provinciali, l’enfatizzazione di qualche «caso pietoso», le dichiarazioni di personaggi pubblici… Il tutto per far sì che a Napoli, durante la 2a Conferenza Nazionale sulle Tossicodipendenze, realizzata dal 13 al 15 marzo 1997 alla presenza delle massime autorità dello Stato, si tagliasse il nastro della droga libera, pubblicamente autorizzata. Ma a Napoli è andata diversamente: non solo perché la campagna per la droga libera ha incontrato qualche ostacolo sul piano propagandistico, bensì soprattutto perché qualche giorno prima la Camera dei Deputati si era pronunciata in senso totalmente difforme rispetto agli orientamenti che dovevano essere consacrati nel capoluogo campano.
Per comprendere il significato degli eventi, è necessario fare qualche passo indietro, e chiarire anzitutto quale deve essere la risposta dello Stato di fronte alla droga, quindi ricostruire per cenni quale è stata in concreto tale risposta nell’ultimo quarto di secolo; sulla base di queste premesse, è più agevole valutare quanto è accaduto nella prima metà di marzo alla Camera dei Deputati e alla Conferenza di Napoli, e quale potrà essere nell’immediato futuro la risposta dello Stato.
1. La risposta che lo Stato ha il dovere di dare di fronte alla droga
È ovvio che la premessa indispensabile di ogni intervento normativo in tema di stupefacenti consiste nell’accertare l’incidenza che la loro assunzione ha sull’equilibrio fisico e psichico di un individuo. In data 3 giugno 1995 la SIF, Società Italiana di Farmacologia, ha pubblicato un documento con il quale si prendono in esame gli aspetti di natura farmacologica e medica connessi a una eventuale liberalizzazione delle cosiddette «droghe leggere», facendo specifico riferimento alla proposta di legge dell’on. Corleone e altri, presentata nella XII legislatura, e nuovamente depositata in quella corrente. Nel lungo e articolato parere si può leggere, fra l’altro: «[…] è dimostrato che la Cannabis è una sostanza che induce tossicomania, anche se la sua frequenza è limitata e la sindrome da astinenza è di modesta gravità»; «[…] non è raro che singole assunzioni [di Cannabis] possano indurre ansia, panico, stati paranoidi e reazioni disforiche», cioè alterazioni nettamente patologiche dell’umore sia nel senso di una depressione che di un’eccitazione; «nei consumatori abituali di Cannabis è abbastanza comune l’instaurarsi della così detta sindrome amotivazionale, caratterizzata da apatia, indifferenza affettiva, mancanza di interesse per il futuro, per i rapporti sociali e per il lavoro»; «uno dei più costanti effetti indotti dall’assunzione di Cannabis è la tachicardia, spesso accompagnata da ipotensione posturale. […]
«Rinite e tosse cronica sono sintomi comuni nei fumatori abituali di Cannabis»; «[…] sono state descritte alterazioni comportamentali nei bambini nati da madri che hanno usato Cannabis durante la gravidanza»; «è prevedibile che la diffusione della Cannabis porti alle seguenti conseguenze:
«1) Aumento del numero di incidenti stradali durante l’intossicazione acuta;
«2) Aumento di casi di psicosi in soggetti normali ma soprattutto in pazienti mentali;
«3) Aumento di patologie a carico dell’ apparato cardiocircolatorio e respiratorio nei fumatori cronici;
«4) Aumento dei casi di sindrome amotivazionale nei giovani con conseguenze personali, familiari e sociali;
«5) Aumento del rischio di patologie infettive, tumorali, di alterazione delle funzioni riproduttive e di disturbi nello sviluppo postnatale»; «pertanto, valutando le informazioni farmacologiche, tossicologiche e mediche oggi disponibili, il parere della SIF sulla liberalizzazione dell’uso della Cannabis è negativo» (2).
Se le cosiddette «droghe leggere» producono questi effetti, e a fortiori effetti ancora più gravi producono quelle dette «pesanti», volendo riprendere una distinzione la cui fondatezza è quanto meno dubbia, e se il loro principale risultato è d’impedire a chi ne fa uso di agire in piena consapevolezza e responsabilità, è compito dello Stato impedirne la diffusione: l’autorità pubblica verrebbe meno ai suoi doveri essenziali se non adottasse tutte le misure, incluse quelle sanzionatorie, per evitare la propagazione di danni alla salute. Affermare questo non significa porsi in un’ottica meramente «punitiva», bensì sviluppare coerentemente quel principio di solidarietà che è consacrato negli articoli 2 e 3 della Costituzione italiana, e che ha una direzione biunivoca. Come osserva il professor Mauro Ronco, «se i singoli si mettessero nella condizione, acquisendo modalità di vita tossicomanica, di non adempiere, in via permanente, ai propri doveri di solidarietà sociale, e se lo Stato tollerasse, con tale indifferenza, che ciò accadesse, i doveri previsti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione sarebbero parole vane. Le esigenze della solidarietà postulano non soltanto la fornitura di prestazioni della collettività a favore dei singoli, bensì anche la disponibilità di essi, isolatamente considerati o riuniti nelle varie formazioni sociali, a contribuire alle necessità della società. […] Strappare da se stessi la struttura portante degli atti di libera decisione; consegnarsi, mediante l’uso delle droghe, a strutture di mero divenire; progettarsi in una dimensione di vita totalmente estranea rispetto alle esigenze che derivano dal patto sociale significativo equivale a rifiutarsi in radice a quell’apertura agli altri e a quell’ordinazione di se stessi alla società, che è condizione fondamentale di vita dell’ordinamento giuridico» (3).
Ad avallare una sorta di indifferenza di Stato verso la scelta tossicomanica non vale l’osservazione secondo cui è necessario rispettare la libertà di chi sceglie di consumare droga, perché costui al massimo danneggerebbe sé stesso ma non gli altri. Possono richiamarsi, per analogia, le considerazioni svolte dalla Corte Costituzionale di fronte alle eccezioni sollevate da giudici di merito contro la legge n.3/1986, che impone ai motociclisti di indossare il casco: con sentenza n. 180/1994 la Corte ha ritenuto infondata la tesi dell’ingerenza dello Stato nei diritti del cittadino, che deriverebbe dal fatto che ad andare in giro senza casco non si mette a repentaglio l’incolumità altrui ma soltanto la propria, e quindi imporre l’uso del casco limiterebbe la libertà di circolazione, e più in generale di estrinsecazione della personalità. La Consulta ha risposto che la salute dell’individuo costituisce al tempo stesso, in base all’articolo 32 della Costituzione, interesse della collettività, sì che va apprezzato nella specie l’intervento del legislatore, anche perché gli incidenti stradali hanno un costo per l’intera società. La logica seguita per l’obbligo di indossare il casco vale, a maggior ragione, per l’imposizione dell’obbligo di non fare uso di droga.
Esistono peraltro precisi vincoli di ordine internazionale. La Convenzione unica sugli stupefacenti, adottata a New York il 30 marzo 1961, emendata dal Protocollo di Ginevra del 25 marzo 1972, e la Convenzione sulle sostanze psicotrope, adottata a Vienna il 21 febbraio 1971, obbligano gli Stati sottoscrittori, fra i quali vi è l’Italia, a considerare illecita anche la detenzione di stupefacenti per uso personale non terapeutico. Il richiamo alla responsabilità della persona, e non all’indifferenza di Stato rispetto alla sua scelta di drogarsi, è stato ritenuto dai giudici di Palazzo della Consulta in ripetute occasioni conforme ai precetti costituzionali: nella sentenza n. 333/1991, per esempio, si sottolineava che prevedere come reato — in base alla versione originaria del D.P.R. n. 309/1990 — la detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale in misura superiore alla «dose media giornaliera» risponde all’esigenza di rendere estremamente improbabile che il detentore possa spacciare, o anche solo cedere a terzi, la sostanza detenuta, e di limitare l’accumulo di droga per uso personale al fine di contrastarne il traffico illecito.
2. La risposta che lo Stato ha dato di fronte alla droga
La legislazione italiana in tema di stupefacenti ha conosciuto quattro fasi differenti: la prima corrisponde al periodo di operatività delle disposizioni antecedenti la riforma del 1975; la seconda coincide con il vigore della legge n. 685/1975, e comprende il quindicennio dal 1975 al 1990; la terza parte dal 1990, quando viene approvata la legge detta «Vassalli- Russo Jervolino», dal nome dei ministri della Giustizia e degli Affari Sociali che l’avevano proposta, e si conclude nel 1993, quando parti significative di questa legge vengono abrogate con un referendum; la quarta, che inizia proprio con tale referendum, dura tuttora.
È superfluo ricordare la legislazione antecedente il 1975, che ha avuto carattere fortemente repressivo, punendo, oltre allo spaccio di droga, anche il consumo e la detenzione finalizzata al consumo. Giova invece accennare alla legge n. 685, approvata nel 1975, che è restata in vigore fino al 1990: la legge considerava l’assuntore di stupefacenti, che non fosse al tempo stesso spacciatore e che non detenesse grossi quantitativi di droga, esclusivamente come un ammalato, in quanto tale da curare e da riabilitare; era sufficiente che la sua condotta non oltrepassasse la soglia di detenzione o di spaccio di «modica quantità» per non essere censurabile nemmeno in via amministrativa: si trattava di una soglia che nei fatti non sempre era irrilevante, dal momento che la giurisprudenza della Corte di Cassazione qualificava «modica» anche la «quantità» che consentiva un approvvigionamento fino a tre-quattro giorni per un tossicodipendente assuefatto. Assumere stupefacenti, in base a quell’impianto normativo, rappresentava una scelta libera dell’individuo, al pari di tante altre, rispetto alla quale lo Stato non prendeva posizione, in favore o contro, mostrandosi sostanzialmente agnostico, e quindi indifferente. Due decreti del ministro della Sanità di attuazione di quella legge, risalenti al 1980, ne avallavano l’impostazione di fondo, perché consentivano e regolavano la distribuzione da parte delle strutture pubbliche del metadone e, a particolari condizioni, della morfina; e con questo rivelavano l’opzione verso una terapia di «mantenimento» delle tossicodipendenze, piuttosto che di contrasto, di cura e di eliminazione (4). La disciplina del 1975 è fallita per una serie di ragioni concomitanti: per la carenza e l’inefficienza delle strutture pubbliche chiamate a garantire il ricupero del tossicodipendente, per la scarsa entità del sostegno alle comunità di ricupero, per la richiamata dilatazione del concetto di «modica quantità», ma soprattutto per l’assenza di una chiara presa di posizione dello Stato nei confronti dell’uso di droga, prima ancora che della detenzione e del consumo.
Dopo un tormentato iter parlamentare, nel 1990 viene approvata la legge n. 162, le cui disposizioni sono poi riordinate con quelle già in vigore dal D.P.R. n. 309 del 1990: si è trattato di una legge che, pur perfettibile, nella sua versione originaria ha ribaltato la logica precedente, e si è mossa sui binari di un giudizio di sfavore nei confronti non soltanto del traffico e dello spaccio, ma anche dell’assunzione di stupefacenti, che viene sanzionata sul piano amministrativo; pure la detenzione di droga conosce questo tipo di sanzione, se non supera i limiti della «dose media giornaliera», fissati con un decreto ministeriale: oltre quei limiti interviene, con gradualità, la sanzione penale. Il consumatore di droga non è più ritenuto un semplice ammalato, ma un soggetto che, pur avendo bisogno di cure, compie una scelta che la società non apprezza; lo Stato, sfavorevole a tale scelta, tuttavia tende la mano a colui che sbaglia, perché comprende che dietro quell’errore vi è una serie di tragedie personali, di incomprensioni, di problemi apparentemente insuperabili, e permette all’assuntore di droga di andare esente dalla sanzione amministrativa e/o penale, a condizione di lasciare la droga e di seguire un percorso di ricupero.
È falso sostenere che la legge del 1990 ha riempito le carceri di drogati: la maggior parte dei tossicodipendenti finiti in carcere dopo quella legge vi sono andati perché avevano realizzato rapine, furti o estorsioni, motivati dalla necessità di procurarsi la droga, o perché spacciavano o detenevano quantitativi significativi di stupefacenti, ma non certo perché le sbarre erano la sola prospettiva per chi si drogava. In proposito, è significativo che, nel pieno vigore del D.P.R. n. 309, da una verifica effettuata alla data del 15 novembre 1992, il numero di reclusi per violazione del comma 5 dell’articolo 73, e cioè per il possesso di stupefacenti superiori alla «dose media giornaliera», ma per un fatto ritenuto «di lieve entità», era 1.061, su una popolazione penitenziaria di circa 50.000 unità; quel giorno nessun detenuto era in carcere per violazione delle prescrizioni impartite dal pretore a seguito della persistente assunzione di stupefacenti, anche dopo le ripetute ammonizioni del prefetto (5).
La legislazione del 1990 prevede inoltre vie privilegiate di allontanamento dal circuito carcerario se il tossicodipendente decide di sottoporsi a un percorso di ricupero. L’articolo 89 del D.P.R. n. 309/1990 preclude la custodia cautelare a carico del tossicodipendente che abbia in corso o che intenda sottoporsi a un programma terapeutico presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti ovvero nell’ambito di una struttura autorizzata; alla medesima condizione, l’articolo 90 dello stesso D.P .R. consente la sospensione per cinque anni dell’esecuzione della pena nei confronti di un soggetto condannato alla reclusione non superiore ai quattro anni, ovvero che debba espiare un residuo della pena della medesima durata. Inoltre, il testo unico potenzia il ruolo delle comunità di ricupero e prevede interventi in materia di prevenzione, esaltando in proposito il ruolo degli enti locali, in particolare della Regione e del Comune, nonché quello delle strutture scolastiche.
La nuova legislazione ha provocato degli effetti positivi: particolarmente significativo è il dato sui decessi per assunzione di droga, che, dopo essere salito gradualmente dai 292 morti del 1986 ai 1.383 del 1991, è calato negli anni seguenti, quando hanno trovato piena attuazione le nuove disposizioni, a 1.217 nel 1992, 888 nel 1993 e 867 nel 1994; la curva dei decessi è ripresa nel 1995, quando sono diventate sensibili le conseguenze del referendum: 1.195 morti (6)! Né devono trascurarsi, a seguito della legge del 1990, l’incremento degli ingressi nelle comunità, il reale ricupero di tanti tossicodipendenti, il sequestro di quantitativi sempre più consistenti di stupefacenti grazie a norme più elastiche sui poteri delle forze dell’ordine.
3. Dal «referendum» del 1993 alla «riduzione del danno»
Il referendum del 18 aprile 1993 ha squilibrato l’impianto legislativo del 1990 perché ha eliminato, fra le altre, la norma che meglio esprimeva la posizione di principio alla base della riforma, e cioè il comma 1 dell’articolo 72, contenente l’esplicito divieto di fare uso di stupefacenti; in coerenza con questa impostazione, è stato cancellato il limite della «dose media giornaliera», sì che dopo il referendum è illecito soltanto lo spaccio sicuramente accertato in quanto tale. Oggi anche la detenzione di quantitativi non irrilevanti di stupefacenti non accompagnata da gesti univoci di cessione a terzi è penalmente irrilevante: in questi termini si è orientata la giurisprudenza della Corte di Cassazione e dei giudici di merito, che ritengono non punibile la detenzione di decine di grammi di eroina — è ben noto che per ottenere l’effetto drogastico ne sono sufficienti 5 milligrammi — e perfino la detenzione accompagnata dal «consumo di gruppo».
Due mesi dopo la consultazione referendaria, a Palermo, nel corso della 1a Conferenza Nazionale sulle Tossicodipendenze, l’allora ministro degli Affari Sociali, avvocato Fernanda Contri, ha lanciato lo slogan della «riduzione del danno», accogliendo le proposte formulate dal CORA, il Coordinamento Radicale Antiproibizionista. Tale slogan è diventato il punto ideologico di riferimento di un decreto legge reiterato per circa venti volte, le cui disposizioni sono state riprese da un disegno di legge di sanatoria del Governo, in parte già approvato dal Parlamento; per i sostenitori della tesi della «riduzione del danno» il tossicodipendente, nonostante il fallimento della politica realizzata fra il 1975 e il 1990, torna a essere niente di più che un ammalato, con l’aggravante che, piuttosto di curarlo, si propende a farlo permanere nello stato di tossicomania, e non gli si forniscono gli strumenti perché non danneggi ulteriormente sé stesso o altri. Dunque, i fondi per fronteggiare la tossicodipendenza sono impiegati in misura consistente per sostenere quelle strutture, fra le quali rientrano le cosiddette «unità di strada», che distribuiscono gratuitamente metadone, siringhe monouso e profilattici, banalizzando la tragedia-droga, perché l’attenzione viene concentrata sulla garanzia dell’igienicità dell’assunzione di stupefacenti piuttosto che sull’investimento delle risorse umane e materiali nell’allontanamento dalla droga; sono inoltre colpite le comunità di ricupero, sia perché ne viene ostacolata la sopravvivenza con il correlativo taglio di contributi pubblici, sia perché il tossicodipendente è in concreto attratto più dalla prosecuzione della dipendenza che dai sacrifici connessi all’ingresso in una struttura nella quale si svolgono anche attività lavorative.
Già nel corso dei lavori parlamentari tesi alla conversione in legge del decreto sulla «riduzione del danno», taluno ha cercato di aprire spiragli verso una legalizzazione strisciante dello spaccio: nel mese di giugno del 1996, mentre si svolgeva il dibattito alla Camera, l’on. Anna Maria Procacci, dei Verdi, ha presentato un emendamento teso a non limitare al solo metadone la tipologia delle sostanze psicotrope che i servizi pubblici sulle tossicodipendenze sono abilitati a somministrare quale terapia di mantenimento; era un chiaro tentativo di introdurre in modo subdolo la distribuzione controllata di altre sostanze drogastiche, fallito perché al momento del voto, nella seduta del 25 giugno 1996, il Polo per le Libertà ha fatto mancare il numero legale. Per completezza d’informazione va detto che, nella circostanza, nessun esponente del Partito Popolare Italiano ha fatto sentire la propria voce in dissenso.
4. Verso Napoli: la proposta di legge «Corleone» e la «campagna» per la legalizzazione dello spaccio
Non essendo riuscita la legalizzazione occulta, il «fronte dello spinello» ha optato per quella palese, dando la massima pubblicizzazione alla proposta di legge dell’on. Corleone, accompagnata dalla presentazione e dall’approvazione, da parte di numerosi consigli comunali e provinciali, di ordini del giorno tesi a sollecitare il Parlamento al rapido varo della proposta stessa, oltre che da reiterate prese di posizione di personaggi pubblici più o meno autorevoli, quasi che la riproposizione ininterrotta delle tesi antiproibizioniste potesse, alla fine, far cedere per stanchezza chi la pensa diversamente. Può essere utile prendere in considerazione il solo argomento che talora esercita qualche suggestione anche sui più ostili alle posizioni libertarie: quello secondo cui la legalizzazione del commercio e della cessione dei derivati della cannabis impedirebbe lo sfruttamento criminale del traffico degli stupefacenti più «leggeri», allontanerebbe i consumatori dall’area degli spacciatori, e consentirebbe alle forze dell’ordine di concentrare gli sforzi nella repressione del traffico delle droghe «pesanti». È facile considerare che nessun mercato di stupefacenti può mai essere del tutto libero, a meno di non voler concedere che un bambino di otto anni possa acquistare spinelli ovunque capita, per più volte nel corso della stessa giornata; ma perfino l’on. Corleone non arriva a tanto, dal momento che nella sua proposta prevede due ordini di limiti: una pubblica autorizzazione, il cui rilascio e la cui revoca dipendono dal rispetto di determinati presupposti, per la produzione e per il commercio della cannabis indica e dei suoi derivati, e il divieto di vendita ai minori di sedici anni.
Se questa proposta diventasse legge il traffico clandestino, cioè lo sfruttamento criminale del mercato delle droghe «leggere», non scomparirà, ma sposterà la sua sfera operativa oltre questi limiti, e anzi punterà ad abbassare la soglia dell’età di avvicinamento allo «spinello», che peraltro coinvolge con frequenza maggiore anche gli adolescenti che frequentano le scuole medie inferiori. Nel frattempo, lo Stato avrà acconsentito alla diffusione massiccia di sostanze gravemente dannose per la salute, e avrà ampliato ulteriormente i confini di un mercato che, negli ultimi due anni, ha registrato notevoli immissioni di hashish e di marijuana, soprattutto dall’Albania; in proposito, è impressionante constatare l’incremento dei sequestri di droga avvenuto in Puglia, la regione più esposta all’importazione clandestina dei derivati della cannabis dall’Albania: mentre nel primo semestre del 1995 le forze dell’ordine hanno sequestrato complessivamente 43.788 chilogrammi di sostanze stupefacenti, nel primo semestre del 1996 ne hanno sequestrato ben 402.674 chilogrammi, con un incremento dell’819,60%, ed è certo che questi dati aumenteranno ancora di più nel secondo semestre del 1996; dei 402.674 chilogrammi complessivi del primo semestre del 1996, 384.368 si riferiscono alla cannabis e ai suoi derivati (7)!
La Conferenza di Napoli doveva segnare, per il Governo e per la maggioranza dell’Ulivo, un ulteriore passo nella direzione della liberalizzazione degli stupefacenti. È un dato di fatto incontestabile, denso di significato politico, che un buon numero di esponenti di rilievo dell’esecutivo in carica ha sottoscritto nella XII legislatura la proposta di legge dell’on. Corleone: i ministri on. Livia Turco, sen. Franco Bassanini e on. Anna Maria Finocchiaro Fidelbo; i sottosegretari sen. Giuseppe Ayala, on. Antonio Bargone, on. Willer Bordon, sen. Alberto La Volpe, on. Gianni Mattioli, on. Isaia Sales, on. Giuseppe Soriero e on. Adriana Vigneri. Ai quali vanno aggiunti il presidente della Camera on. Luciano Violante, la presidente della Commissione Affari Sociali della Camera on. Marida Bolognesi, competente in materia, oltre a presidenti e vicepresidenti di altre importanti commissioni parlamentari. Altrettanto incontestabili sono le dichiarazioni rese in tempi diversi dal segretario del Partito Democratico della Sinistra, on. Massimo D’Alema, favorevoli alla legalizzazione, unitamente alle mozioni congressuali approvate al termine del congresso dello stesso partito, pur seguite dal teatrino delle dissociazioni, dopo aver constatato l’entità dei dissensi provocati. Con minor clamore, alla vigilia della Conferenza di Napoli, il ministro on. Turco, nel corso delle audizioni alla Commissione Affari Sociali della Camera, aveva posto fra gli obiettivi della Conferenza la riflessione sulla non punibilità delle attività da lei definite «prodromiche» all’uso personale di droga, e cioè dello spaccio: in particolare, il ministro aveva parlato del «[…] problema legato all’attuale formulazione dell’articolo 73 del testo unico, per il quale si prospettano soluzioni di modifica nel senso di rendere non punibili anche le attività prodromiche all’uso individuale, attività cioè di piccolo spaccio che vanno differenziate dallo spaccio vero e proprio» (8). È da notare il carattere progressivo del percorso: dall’assoluta liceità dell’uso di droga alla liceità della detenzione, sancita senza limiti dal referendum del 1993, e da questa alla non punibilità dello spaccio, purché sia «piccolo» — i termini sono sempre generici e indefiniti, in modo da poter essere allargati a dismisura —, prospettata dal ministro, in attesa che maturino i tempi per eliminare la distinzione fra spaccio «grande», pubblicamente organizzato, e spaccio «pic- colo».
5. Il dibattito alla Camera dei Deputati e il voto sulle mozioni
Peccato — per gli antiproibizionisti, ovviamente — che, a differenza di quanto accaduto per le «gloriose» campagne pro divorzio e pro aborto, nel 1997 non vi sia più un vertice democristiano capace, come nel passato, di organizzare le sconfitte nelle battaglie di principio per le quali aveva raccolto i voti, barattando i princìpi medesimi con la stabilità dei governi cui partecipava. Peccato — sempre per gli antiproibizionisti — che al posto di quel vertice inglorioso fosse presente un Polo unanimemente convinto, all’ infuori di tre o quattro ex radicali, che l’impegno per far uscire dalla tossicodipendenza è prioritario e centrale. Peccato che, alla vigilia della Conferenza di Napoli, su iniziativa dei capigruppo alla Camera dei partiti che compongono il Polo, si sia svolto un dibattito sul contenuto di quattro mozioni, tutte aventi a oggetto i problemi legati alla diffusione degli stupefacenti: la prima mozione, primo firmatario l’on. Rocco Buttiglione, sottoscritta da oltre cento deputati, recava l’impegno per il governo, fra l’altro, «[…] a promuovere un’ azione forte, diretta a rimuovere le cause sociali della crisi del mondo giovanile contro la riaffermazione del diritto a fare uso degli stupefacenti», «[…] a verificare i risultati della strategia della riduzione del danno» e a fornire un sostegno più adeguato alle comunità di ricupero e alle famiglie (9); la seconda mozione, dei deputati della Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, primo firmatario l’on. Domenico Comino, si muoveva nella stessa direzione, con un’attenzione più concentrata sui problemi di ordine pubblico; la terza mozione, presentata dai deputati del PPI, primo firmatario l’on. Giuseppe Fioroni, pur nell’ambiguità di alcuni passaggi, prendeva le distanze dalle ipotesi di non punibilità dello spaccio di droga, poiché impegnava il Governo a mantenere «[…] la depenalizzazione dell’uso personale di sostanze stupefacenti, evitando però pericolose estensioni della depenalizzazione alle attività prodromiche basate su arbitrari giudizi di gravità o di casualità» (10); infine, l’ultima mozione veniva proposta da deputati del PDS, dei Verdi e del Partito della Rifondazione Comunista, primo firmatario l’on. Vasco Giannotti: non giungeva a chiedere esplicitamente l’impegno del Governo alla legalizzazione della cessione di droga — come esponenti degli stessi partiti avevano fatto in tanti consigli comunali e provinciali —, sulla base della consapevolezza che il percorso era andato troppo avanti e stava determinando pericolose reazioni. Si limitava, con linguaggio vago, a impegnare il Governo «[…] a rivedere quanto previsto dal testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti alla luce di tutte le esperienze compiute al di là di ogni ideologizzazione» e «[…] ad armonizzare quanto previsto dall’articolo 73 del citato testo unico agli effetti del referendum del 1993, anche sulla base dei contributi della giurisprudenza» (11): un modo obliquo, con il richiamo a «tutte le esperienze compiute», per far rientrare in un momento successivo gli «esperimenti» di distribuzione controllata degli stupefacenti realizzati in Olanda o in Svizzera, e con il riferimento alla giurisprudenza per rendere lecito anche lo spaccio.
Il voto è arrivato nella serata dell’11 marzo, al termine di un dibattito iniziato il giorno precedente. La mozione del Polo è stata approvata con 256 voti favorevoli, 200 contrari e 52 astenuti: hanno votato a favore i deputati del Polo e della Lega, mentre i popolari si sono astenuti e la sinistra si è espressa contro; la mozione della Lega è stata approvata con 244 voti favorevoli, 206 contrari e 58 astenuti, rispettando i medesimi orientamenti; la mozione del PPI è stata approvata con 193 voti favorevoli, 56 contrari e 254 astenuti: hanno votato a favore i popolari e i deputati del PDS, si sono astenuti il Polo e la Lega, e hanno votato contro buona parte dei deputati del PRC e dei Verdi; la mozione presentata dalle sinistre è stata respinta con 257 contrari, 241 voti favorevoli e 15 astenuti: se era scontato il voto contrario del Polo e della Lega e quello a favore delle sinistre, ha «brillato» il voto favorevole di 47 deputati del PPI e di 6 deputati di Rinnovamento Italiano, che pure si erano espressi a favore della mozione proposta dallo stesso PPI. Evidentemente non ha destato preoccupazione esprimersi, nel giro di pochi attimi, prima contro e subito dopo a favore della depenalizzazione dello spaccio di droga!
6. La Conferenza Nazionale di Napoli: le intenzioni dei promotori e la realtà
L’approvazione in Parlamento delle mozioni ostili a ogni ipotesi liberalizzatrice e la bocciatura di quella della sinistra hanno disorientato il «fronte dello spinello», che è arrivato alla Conferenza di Napoli con il tema già preparato, rispetto al quale però la traccia era improvvisamente cambiata. La composizione dei sette gruppi di lavoro della Conferenza, cui sono stati ridotti gli originari quindici, è stata dosata per far entrare chi poteva opporsi alle linee-guida della sinistra in gruppi più tecnici e meno impegnativi — si pensi a quello sui rapporti fra Stato e Regioni — , lasciando agli antiproibizionisti il dominio incontrastato, e comunque la guida, di quelli più qualificanti: si pensi al gruppo IV, dedicato al rapporto fra droga e carcere. La parola d’ordine è diventata allora quella di «dire senza far capire»; ma non tutti sono riusciti a realizzarla in concreto: alcuni gruppi di lavoro non se la sono sentita di cestinare ciò per cui avevano lavorato per mesi e hanno proposto espressamente, per esempio, l’abolizione delle sanzioni penali per lo spaccio di droga. È stato necessario l’intervento dei ministri, nell’ultima parte della Conferenza, nel pomeriggio del 15 marzo 1997, per tentare di riequilibrare l’apparenza del quadro; soltanto l’apparenza, perché nella sostanza le conclusioni sono state veramente preoccupanti: il ministro della Sanità, on. Rosy Bindi, ha annunciato la predisposizione di parametri ai quali tutte le comunità dovranno adeguarsi, prescindendo dalla circostanza di utilizzare i fondi pubblici, e la costituzione di un’authority che certifichi la conformità a tali parametri, precisando che all’esame dovrà essere sottoposto chi guida da decenni comunità terapeutiche che costituiscono modello per il mondo intero. Il che vuol dire munirsi di un’arma di ricatto costante per le comunità che non si adeguino agli standard di ricupero decisi dal ministero.
Il ministro di Grazia e Giustizia professor Giovanni Maria Flick, il cui intervento è stato presentato come uno stop alla legalizzazione, in realtà, con il consueto linguaggio accessibile a stento agli addetti ai lavori, ha illustrato come si perviene al medesimo risultato della legalizzazione usando termini e strumenti giuridici diversi. Ha infatti proposto una riformulazione dell’articolo 73 della legge del 1990, facendo rientrare nelle condotte valutate «di lieve entità» lo spaccio e la coltivazione, e immaginando in questi casi, al posto della pena detentiva, sanzioni alternative o di tipo amministrativo, come i lavori socialmente utili; il risultato potrà essere che lo spacciatore professionale o il trafficante parcellizzerà la cessione, aumenterà il numero di soggetti intermediari, e costoro rischieranno al massimo di dirigere il traffico davanti alle scuole, avendo qualche occasione in più per spacciare!
7. La proposta di legge del Polo per le Libertà sulla disciplina degli stupefacenti
Nella prospettiva di dare seguito all’impegno parlamentare contro la diffusione degli stupefacenti, fra il dibattito sulle quattro mozioni e la Conferenza di Napoli, un gruppo consistente di deputati del Polo ha presentato una proposta di legge, che reca il numero 3347, della quale sono primo firmatario, e che consta di dieci articoli. I primi tre ricuperano talune delle norme abrogate dal referendum del 1993, al fine di riaffermare il giudizio sfavorevole dello Stato nei confronti anche della mera assunzione di stupefacenti; riacquista significato il procedimento innanzi al prefetto, prodromico all’eventuale applicazione di sanzioni amministrative, mentre non viene ripreso il successivo procedimento innanzi al pretore, del quale la pur limitata esperienza applicativa ha mostrato la farraginosità e la sostanziale concreta ininfluenza. Più precisamente, l’articolo 1 reintroduce il divieto dell’uso personale di sostanze stupefacenti. Tale articolo accentua la fase della «dissuasione»: il prefetto, o un suo delegato, oltre a invitare il tossicodipendente a non far uso di droga, gli consegna una breve memoria, illustrativa in modo semplice ed efficace degli effetti negativi, sul piano fisico e psichico, derivanti dall’assunzione di qualsiasi tipo di stupefacente; ovviamente, non si presume che tale consegna abbia effetti risolutivi: si limita ad apportare un elemento di riflessione in più, ulteriore rispetto a un puro richiamo verbale. Nell’ottica di contrasto indiretto allo spaccio, l’articolo 3 riprende il concetto di «dose media giornaliera» quale linea di confine fra la detenzione di droga al di sotto di quella soglia, che rappresenta un mero illecito amministrativo, e la detenzione di droga oltre quella soglia, che diventa un illecito penale.
Gli articoli dal 4 al 7 traducono in norme i suggerimenti derivanti dalle esperienze di quanti operano, nelle strutture pubbliche ma soprattutto in quelle residenziali, per il ricupero dei tossicodipendenti, concentrando l’attenzione sul rapporto fra carcere e persona che ha fatto o fa uso di droga. L’idea-guida è di evitare il più possibile il carcere se vi è la seria disponibilità a intraprendere e/o a continuare un percorso di ricupero, giungendo ad allontanare, anche in via definitiva, la prospettiva della reclusione per chi abbia consumato reati connessi al proprio stato di tossicodipendenza e stia uscendo, o sia già uscito, da tale condizione. In particolare, l’articolo 4 affronta il profilo della custodia cautelare in carcere e prevede che, qualora l’interessato abbia già fruito della revoca della custodia cautelare per sottoporsi a un programma di ricupero, abbia in seguito interrotto questo programma o comunque non l’abbia correttamente seguito, e quindi sia stata nuovamente disposta la custodia cautelare nei suoi confronti, possa presentare un’ulteriore istanza di revoca, collegata alla ripresa del programma di ricupero.
Le disposizioni contenute nell’articolo 5 mirano a superare i problemi sorti con maggiore frequenza in sede di esecuzione della pena. Così il comma 1 punta a evitare quanto è concretamente accaduto ogni qual volta la condanna a pena detentiva è diventata definitiva nei confronti di un soggetto che aveva ottenuto la revoca della custodia cautelare, perché si era sottoposto a un programma di ricupero: l’interessato, benché già completamente ricuperato, al punto, talora, da essere diventato a sua volta educatore all’ interno di una comunità, viene sottoposto a carcerazione, e può lasciare l’istituto di pena soltanto dopo che il tribunale di sorveglianza, in tempi tutt’altro che rapidi, ha esaminato la sua istanza di sospensione dell’esecuzione della pena; se possibile, peggiore è la situazione di chi ha un percorso di ricupero in atto, ed è costretto a interromperlo. La nuova disposizione prevede che se la condanna diventa irrevocabile, nei limiti dei quattro anni di reclusione, anche come residuo di maggior pena, non può essere emesso l’ordine di carcerazione quando siano già stati adottati i provvedimenti di cui ai commi 1 e 2 dell’ articolo 89 del D.P .R., e che il tribunale di sorveglianza sospenda l’esecuzione. In tal modo si evita un improvvido, e spesso anche lungo, passaggio dal carcere dell’interessato che ha felicemente superato il percorso di ricupero, o che comunque lo ha positivamente intrapreso, lasciando impregiudicata la valutazione del tribunale di sorveglianza e garantendo la continuità del ricupero.
Il comma 2 dell’articolo 5 affronta un altro problema, che spesso si verifica di fatto: quello di pene per condanne che diventano definitive una volta che il ricupero sia ultimato. Se l’intero impianto normativo punta alla considerazione dell’assunzione degli stupefacenti come causa remota e prossima della consumazione dei reati, non ha senso consentire che il soggetto che in passato ha fatto uso di droga, che ha commesso delitti a seguito di tale uso e al fine di procurarsi la sostanza stupefacente, e che però ha percorso per intero la strada del ricupero, completandola, sia ricondotto in carcere, sottoposto peraltro alle sollecitazioni negative provocate da tale nuova permanenza, anche quanto all’assunzione di droga. Perciò il comma 2 dell’articolo 5 prevede la possibilità della sospensione della pena definitiva sopraggiunta, disposta dal tribunale di sorveglianza con gli stessi limiti e con i medesimi effetti estintivi di cui al comma 1 dell’articolo 90 del D.P . R. n. 309/1990, sempre che il ricupero sia concretamente accertato.
Per la speciale considerazione che deve meritare l’esistenza della molla costituita dalla droga sulla realizzazione di reati, l’articolo 6 dispone espressamente che, fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato, vi sia la consumazione dei reati in relazione allo stato di tossicodipendenza, così precisando il contenuto dell’articolo 671 del codice di procedura penale; in tal modo, anche in sede di esecuzione, la sanzione, quale che sia la sua entità, deriverà non dalla somma aritmetica delle pene conseguenti a condotte illecite apparentemente slegate, ma da un puntuale adeguamento della pena alla realtà soggettiva del reo. Per concludere la voce relativa ai rapporti fra carcere e uso di droga, l’articolo 7 pone a carico del direttore dell’istituto di pena, nel quale accede, a titolo cautelare o definitivo, il soggetto che abbia commesso reati in relazione allo stato di tossicodipendenza, l’obbligo di informare in modo preciso l’interessato che ha facoltà di proporre le istanze relative alla revoca della custodia cautelare, alla sospensione dell’esecuzione della pena e all’affidamento in prova. Il fine è, ancora una volta, orientare al ricupero.
Gli ultimi tre articoli attengono alle strutture di ricupero. L’articolo 8, nel quadro dei programmi scolastici di prevenzione della tossicodipendenza, prevede che, fra le iniziative tese a una corretta informazione degli studenti, debbano includersi visite guidate a strutture autorizzate per il ricupero dei tossicodipendenti, nonché audizioni degli operatori e degli educatori di tali strutture: il contatto diretto con gli operatori delle comunità non può non avere effetti positivi per gli adolescenti e per i giovani. L’articolo 9 viene incontro a una esigenza di notevole incidenza concreta per quelle comunità di ricupero che hanno realizzato, o ampliato, gli immobili destinati alla loro attività in zone agricole, e per questo sottoposte a limitatissimi indici volumetrici: per superare i problemi connessi con le violazioni urbanistiche eventualmente consumate, si consente che, per gl’interventi edilizi ultimati alla data del 31 dicembre 1995 all’interno di strutture autorizzate al ricupero dei tossicodipendenti, si applichino le disposizioni sul condono edilizio. Si prevede altresì, per i medesimi interventi, conformi alle prescrizioni urbanistiche o da sanare, l’estensione delle disposizioni in tema di gratuità delle concessioni edilizie.
Infine, l’articolo 10 pone le premesse per un più adeguato controllo dell’efficacia operativa dei servizi pubblici sulle tossicodipendenze, e dei rapporti fra questi e le comunità. Prevede infatti che ogni anno il ministro della Sanità presenti al Parlamento una relazione sull’attività svolta dal servizio pubblico per le tossicodipendenze, con particolare riferimento ai programmi terapeutici definiti ed effettivamente seguiti dai tossicodipendenti e all’efficacia dei programmi medesimi.
8. La vittoria alla Camera: un punto di partenza per vincere la droga
L ’ ottica della proposta è
di richiamare alla responsabilità,privilegiando il ricupero fisico e psichico del giovane tossicodipen- dente rispetto alla permanenza nel suo stato, pubblicamente garanti- ta; è quella, cioè, di una difficile solidarietà delle istituzioni rispetto all’indifferenza dello Stato, che non può e non deve continuare a essere novello Pilato di fronte a una tragedia epocale; è quella del sostegno alle famiglie dei tossi- codipendenti e a chi finora è stato più vicino alle famiglie, a comin- ciare dalle comunità di ricupero, rispetto all’ appesantimento della loro condizione per le difficoltà aggiuntive determinate dagli in- centivi oggi esistenti al manteni- mento della tossicodipendenza; è in definitiva quella che risponde al desiderio di riscatto di un popo- lo, che ha trovato riscontri signi- ficativi nelle aule del Parlamento, e che non può privarsi delle ener- gie di tanti giovani gravemente esposti al rischio dell’ autodistru- zione. Quanto accaduto a Roma, a Napoli e nell’ intera nazione nelle ultime settimane, e in particolare nel mese di marzo del 1997, deve far entrare nell’ ordine di idee che, per quanti intendano combattere realmente la droga, il voto della Camera sulle quattro mozioni non è un definitivo punto di arrivo, ma un entusiasmante punto di par- tenza.
Alfredo Mantovano
Note:
(1) Corriere della Sera, 12-3-1997.
(2) Cfr. Il punto di vista della Società Italiana di Farmacologia (SIF) sulla propo- sta di liberalizzazione delle «Droghe legge- re» (Proposta di legge d’iniziativa del Depu- tato Corleone, presentata il 20 luglio 1994), in SIF Notizie. Periodico della Società Italia- na di Farmacologia, anno X, n. 1, settembre 1995, pp. 25-27, documento integralmente trascritto in Cristianità, anno XXIII, n. 247- 248, novembre-dicembre 1995, pp. 16-20.
(3) MAURO RONCO, Contro la libertà auto- distruttiva, in Secolo d’ Italia, 6-9-1996.
(4) Cfr. una valutazione complessiva e analitica della legge n. 685/75, in IDEM, Il controllo penale degli stupefacenti, Jovene, Napoli 1990.
(5) Cfr. CLAUDIO MARTELLI, Politica legisla- tiva e attuazioni concrete in materia di tossi- codipendenza, in Documenti giustizia, nn. 1- 2, gennaio-febbraio 1993, col. 3.
(6) Cfr. Ministero dell’Interno. Direzione Generale per l’amministrazione generale e per gli affari del personale. «Osservatorio permanente sul fenomeno droga», ottobre 1996.
(7) Cfr. ibidem.
(8) Camera dei deputati. XIII Legislatura. Bollettino delle giunte e delle commissioni parlamentari, mercoledì 26 febbraio 1997, p. 55.
(9) Camera dei deputati. XIII Legislatura. 165a seduta pubblica, martedì 11 marzo 1997. Ordine del giorno, p. XVI.
(10) Ibid., p. XX. (11) Ibid., p. XXII.