Non si può governare il fenomeno migratorio se prima non si rimuovono questi otto luoghi comuni
1. E’ una invasione senza precedenti.
E’ proprio così? Nel 1945 i profughi in Europa raggiunsero in totale circa 40 milioni di persone, con gran parte delle città europee ridotte in macerie. Nell’estate 2015 larga parte dell’Europa e delle sue istituzioni è andata in paranoia per 350.000 migranti lasciati uscire dalla Turchia. La crisi di nervi è ancora in corso, se tanti potenziali profughi sono obbligati al gelo dei Balcani, e se ogni Consiglio europeo dedicato al tema fa rinviare il piano di distribuzione fra gli Stati Ue di coloro che han-no già ottenuto il riconoscimento di rifugiati. Che cosa dovrebbero dire allora Giordania, Iraq, Egitto, Kurdistan iracheno, la cui somma di sfollati ospitati supera quella dell’intera Ue? Che cosa dovrebbe dire il Libano? Con 4,2 milioni di abitanti e 10.000 kmq di estensione (una superficie pari a metà della Puglia e abitanti pari ai residenti in Puglia), questa nazione ha ricevuto in cinque anni 1,1 milioni di profughi, in prevalenza dalla Siria; è come se in Italia in un quinquennio fossero arrivati 15 milioni di profughi. Gli sfollati dalla Siria, su una popolazione che nel 2011 ammontava a circa 18 milioni di abitanti, è prossimo a 11 milioni di persone, e di esse 4 milioni hanno oltrepassato i confini siriani. Siamo solo all’inizio: mettiamoci l’anima in pace e pensiamo a come governare il fenomeno, non a demonizzarlo.
2. Aiutare i paesi di origine.
Il past premier italiano Renzi propose il cosiddetto Migration compact: incremento degli aiuti agli Stati dai quali provengono i migranti in cambio di loro controlli più efficaci alle frontiere. S’immagini che al Consiglio dei capi di governo dell’Ue di sabato prossimo la richiesta italiana venga accolta, e che la Germania, che finora ha manifesta-to le maggiori riserve, concordi perfino sulle modalità di finanziamento; s’immagini che dal giorno successivo se ne avvii la realizzazione in concreto. Passiamo in rassegna i partner africani possibili fruitori degli aiuti per opere socialmente utili, da finanziare con eurobond.
Cominciamo con l’Eritrea, dal cui territorio proviene, insieme con la Guinea e la Nigeria, il più consistente numero di persone che sbarcano in Italia. Dal 1993 essa è sottoposta a un regime totalitario che organizza una repressione interna, causa principale delle fughe in direzione dell’Europa: come funzionerebbe il Migration compact? L’Ue si farà comunicare direttamente l’iban del presidente a vita Isaias Afewerki? O invierà una propria missione — che sarebbe accolta verosimilmente a braccia aperte —per controllare la corretta destinazione degli aiuti?
Proseguiamo con la Nigeria, che ha intere aree sottratte al controllo del governo e occupate da Boko Haram: il Migration Compact verrebbe adoperato per convincere la comunità di un villaggio in prevalenza cristiano ad abbellire le proprie case, o per indurre i capi di Boko Haram a fare i buoni e a non costringere alla fuga chi non accetta la sharia? Tanti esodi dipendono dalle guerre.
Si intende realmente ridurre le partenze? Si lavori per ridurre i conflitti, magari iniziando a non alimentarli a distanza.
3. Potenziare il contrasto in mare. L’intesa di massima di lunedì scorso con Serraj prevede la fornitura di motovedette alla microscopica parte di Libia da lui controllata, mentre le istituzioni europee annunciano il potenziamento della guardia costiera europea. Ma quando una imbarcazione di dieci metri prende il largo con cento persone a bordo, la sola misura che impongono le norme marittime, e prima ancora il buon senso e il senso di umanità, è impedire che finiscano in acqua. Tentare il respingimento in mare equivale a condannare quelle persone alla morte, allungando un elenco di vittime che da tempo supera le svariate migliaia all’anno. Se s’intende evitare che natanti di fortuna tentino l’attraversa mento del Canale di Sicilia o dell’Egeo, è necessario bloccare le partenze: è necessario, cioè, concordare il potenziamento del contrasto a terra, come — in un tempo e con scenari differenti — quindici anni fa l’Italia fece con successo in Albania. Ce la facciamo?
4. Rispettare la Convenzione di Dublino.
Se una Convenzione non funziona più va cambiata. L’applicazione rigida del criterio secondo cui lo Stato UE responsabile dell’esame della richiesta di asilo, indipendentemente dal luogo in cui la stessa sia stata presentata, è quello nel quale è avvenuto il primo ingresso fa sì che i 1.015.078 profughi sbarcati sulle coste comunitarie nel 2015 e i 370.034 del 2016 vengano ripartiti, quanto a istruttoria della domanda di protezione e ad accoglienza, prima e dopo l’esame della stessa, soltanto fra Italia e Grecia. E’ sensato? Il ricollocamento concordato nell’estate 2015 fra i 28 partner dell’Ue è avvenuto in quantità risibili: L’esito è quello di lasciare bloccati nel fango di Idomeni o nei contenitori metallici di Pa trasso o nelle tende di Lesbo o nel ghiaccio dei confini serbi profughi siriani e iracheni che hanno perso familiari e beni sotto le bombe o per l’avanzare dell’ISIS, mentre uno degli attentatori di Parigi è rimasto tranquillo per quattro mesi a Molenbeek. Se i pugni sul tavolo vanno battuti per qualcosa, è proprio per rivedere Dublino.
5. L’esame delle richieste di asilo richiede tempo.
In Italia le Commissioni territoriali a ciò delegate erano 20 nel 2010, quando le persone sbarcate in tutto l’anno furono 4.500; oggi sono 40, il doppio del 2010, a fronte di un numero di persone sbarcate nel 2016 pari a 40 volte quelle di 6 anni fa. Nel 2010 il tempo medio fra la presentazione della richiesta e la decisione della Commissione era di 1-2 mesi; per il 2016 è stata quantificata in 266 giorni, il che vuol dire che spesso oltrepassa l’anno, di attesa. Si giunge ai 3-4 anni se colui che ha ricevuto un rigetto lo impugna davanti al giudice ordinario. L’abbattimento dei tempi è l’obiettivo che si pone il ministro Minniti, col decreto legge varato qualche settimana fa: ci si augura che arrivino adeguate risorse, perché molto più del potenziamento delle Commissioni costa l’allungamento dei tempi della decisione quanto al mantenimento nelle more dei richiedenti asilo. Negli ultimi 2 anni vi è stata una riorganizzazione degli uffici giudiziari chiamati a pronunciarsi sul ricorso contro il rigetto della domanda. Va bene l’eliminazione di un grado di giudizio, contenuto nell’ultimo decreto del governo, per giungere a una decisione definitiva meno lunga.
6. Tutti i richiedenti asilo sono uguali. Non è così. C’è uno strumento inspiegabilmente assente nel nostro ordinamento: la lista dei “paesi sicuri”, cioè l’elenco degli stati da non ritenere luoghi di persecuzione o tali da esigere protezione umanitaria, si che l’accertata provenienza da uno di essi precluda e renda inammissibile la domanda. Quali persecuzione o emergen-za umanitaria vi sono, per esempio, in Ma-rocco? Eppure la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato presentato da un cittadino di tale Stato viene esaminata con le medesime modalità di quella proposta da una nigeriana cristiana fuggita da un’area dominata da Boko Haram, e fa perdere tempo ed energie. Sempre nella prospettiva dell’abbattimento dei tempi, chi vieta di istituire corsie preferenziali in entrata? Se il richiedente asilo è un medico di Aleppo che si presenta con quel che resta della propria famiglia, con il certificato di battesimo e magari con le foto della propria casa distrutta dalle bombe, vi è necessità di una istruttoria approfondita? E’ irragionevole che ci dotiamo di
questi correttivi?
7. Il richiedente asilo non può lavorare.
E perché mai? Finora egli è stato per intero assistito dallo stato ed è vissuto ordinariamente nell’ozio. L’opposizione a che svolga nelle more un lavoro socialmente utile, contenuta nel decreto Minniti, è irragionevole: un ventenne in lunga attesa senza far nulla in ordine alla definizione della propria è a rischio. Per un padre di famiglia una condizione del genere è indecorosa. Indurre al lavoro, oltre ad allontanare le attrazioni da aree criminali e a conferire dignità, rende pure l’idea di un contributo da parte del migrante alla comunità che lo accoglie.
8. Non esiste la clandestinità.
Ne siamo certi? Nel 2015, a fronte di 111.842 sbarca-ti le istanze di asilo sono state 83.970. Che fine hanno fatto gli altri 70.000? Si tratta a tutti gli effetti di persone senza alcun titolo di regolare soggiorno, privi perfino di quel permesso provvisorio rilasciato nel l’attesa dell’esame della domanda. Sempre nel 2015, i dinieghi sono stati il 59 per cento: vuoi dire che dei migranti entrati in Italia nel solo 2015 oltre 110.000 non avevano alcun titolo per restarvi.
Nel 2016 il dato è cresciuto in proporzione e in as-soluto: le persone giunte via mare in Italia sono state 181.436, il 17.94 per cento in più del 2015. I soggetti che nel 2016 han-no avuto una espulsione effettiva, con riaccompagnamento nel Paese di origine, sono 5.789, appena il 5 per cento degli irregolari arrivati. Negli ultimi quattro anni, l’estensione della clandestinità è cresciuta a un ritmo che può stimarsi in 100.000 unità all’anno: non tutti sono rimasti in Italia, ma i maggiori controlli alle frontiere francese e austriaca predisposti negli ultimi due anni fanno stimare chef oggi la gran parte dei migranti irregolari resti nel nostro territorio. Quest’area finora è stata semplicemente ignorata, provocando un obiettivo incremento di criminalità. Perché una espulsione sia effettiva è necessario: a) identificare in modo sicuro il soggetto e la sua nazionalità; b) accordarsi con lo Stato di origine perché lo riprenda con sé; e) impedire che egli si dilegui finché sono in corso l’identificazione e la trattativa con lo Stato in questione. Dopo cinque anni di abbandono il governo riprende a lavorare in questa direzione, con l’incremento degli hotspot, dei Cie, se pure diversamente denominati, dei contatti con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo: il terreno da recuperare è tanto, la direzione è quella giusta. L’auspicio è che non finisca come per i voucher: ritirati in blocco per non affrontare le proteste di pochi.
Alfredo Mantovano