Non basta scandalizzarsi per un gesto vandalico. Dietro il turista che ha danneggiato una statua c’è una sciatteria sempre più diffusa che si manifesta anche nel modo (e nella moda) con cui ci accostiamo all’arte e al culto.
di Stefano Chiappalone
Alcune estati fa nella basilica romana di Santa Maria Maggiore scorgevo una coppia di turisti discutibilmente intenti a fotografarsi in posa in un confessionale – a pochi beffardi centimetri dal confessore e da un uomo che si stava confessando – per poi schizzar via con la sghignazzante euforia di chi ha compiuto chissà quale impresa. Appartenevano entrambi alla specie homo insipiens, la più diffusa tra gli ominidi che popolano il mondo occidentale tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio. Pur possedendo un elevato livello scolastico e tecnologico, l’homo insipiens sfoggia un’ignoranza deliberata e televisivamente alimentata, priva di qualsiasi riferimento ideale o ideologico che non sia un indistinto “luogocomunismo”, educato esclusivamente al disprezzo sistematico della propria storia e della propria – orrore! – tradizione, nonché di qualsiasi vago rispetto delle forme, finendo poi per buttar via anche la sostanza o quel che ne resta.
Questa apparente digressione è scaturita da un fatto recente e ormai noto, ai danni del modello in gesso della statua di Maria Paola Buonaparte, più nota come Paolina Borghese (1780-1825) dal cognome del consorte, custodito – il modello, non il consorte – nella Gipsoteca Canoviana di Possagno (Treviso), luogo natale dello scultore Antonio Canova (1757-1822). Desideroso di un selfie con Paolina, un turista austriaco ha pensato bene di sedersi accanto alla gessosa nobildonna, finendo per schiacciarne e romperne le dita del piede. Una volta identificato, l’uomo ha chiesto scusa, assumendosi la responsabilità del gesto e dichiarandosi pronto a risarcire il danno.
Il caso è chiuso? No, perché la vera domanda non riguarda solo lui ma tutti noi. Riguarda il modo (e la moda) con cui ci accostiamo al bello, riducendolo spesso all’ennesima attrazione consumistica più che a un mistero che esige stupore e riverenza. La vera domanda non è: “Chi e perché ha rotto la statua?”, ma: “Perché andiamo al museo o in chiesa come se andassimo al luna park o in spiaggia?”. E, lungi dal fare del lombrosismo applicato al vestiario, non possiamo fare a meno di aggiungere: “Perché andiamo al museo o in chiesa vestiti come se andassimo al luna park o in spiaggia?”.
Il visitatore che anche occasionalmente entra in Senato deve indossare la cravatta. È uno di quei “biechi formalismi” tanto invisi al mondo attuale, che però conferisce insieme eleganza e responsabilità a chi la indossa, ricordandogli che l’onore di accedere a un luogo importante implica l’onere di farlo con rispetto – non certo sedendosi o sbracandosi dove si vuole. Ciò che vale per le istituzioni politiche dovrebbe valere, a fortiori, quando si entra nella sfera dell’arte e del culto. Infatti la vera dissacrazione ha preceduto la frantumazione. Neanche il turista austriaco si sarebbe presentato in t-shirt e calzoncini in Senato o – nel suo caso – al Bundesrat, e non si capisce allora perché ci prendiamo la libertà di farlo tra capolavori, altari e monumenti. Logico, altrimenti, scambiare per una sedia a sdraio l’aristocratica chaise longue di Paolina. La troppa confidenza fa perdere la riverenza, dice il proverbio…
Quella climatica è solo una scusa, giacché la calura estiva si limita solo ad accentuare la sciatteria tipica dell’homo insipiens occidentale. E dobbiamo pur dire che siamo noi uomini a dare il peggio: se la stagione estiva mette in mostra qualcosa di indecoroso, generalmente non si tratta del discreto delinearsi di seni e altre muliebri sinuosità, bensì dell’ostentato esibirsi di lipidi grondanti e ossa spelacchiate la cui bubbonica trasandatezza non s’arresta neanche al cospetto del bello e del sacro.
Chiudere o limitare i musei? Niente affatto, al contrario, c’è speranza per il disarticolato homo inisipiens di inizio millennio se per una volta le forme scolpite dal Canova lo attraggono più delle note urlate dal “tormentone” dell’estate. Chiediamoci piuttosto, noi che (giustamente) ci scandalizziamo per quelle dita frantumate, se a nostra volta sappiamo riconoscere l’aura di mistero intrinseca in ogni vera espressione artistica. Se ci accostiamo alle molteplici espressioni della bellezza, sacra o profana che sia, con la dovuta riverenza, pervasi quel sano timore intriso di ammirazione che i greci definivano φρικτός [friktós], quasi a leggervi quel «terribilis est locus iste» (Gen 28,17) che un tempo ammoniva, dalle facciate delle chiese, che si stava per varcare la soglia di un altro mondo. Perché, come nella fiaba di Hans Christian Andersen (1805-1875), «il re è nudo». Anzi: è in brache.
Sabato, 15 agosto 2020