di Valter Maccantelli
Le notizie che ci provengono dall’Algeria ci spingono a guardare più in profondità in una nazione che in questi anni è stata surclassata nell’attenzione massmediatica dalla vicina Libia.
A partire dalla fine di febbraio sono scoppiate in varie parti del paese le manifestazioni di protesta contro l’annunciata candidatura dell’attuale Presidente Abdelaziz Bouteflika alle elezioni del prossimo 18 aprile. In caso di vittoria sarebbe il suo quinto mandato consecutivo, ma non è neppure questa l’anomalia più evidente. L’ottantaduenne presidente in carica, colpito da ictus nel 2013, è da anni costretto sulla sedia a rotelle e molti ritengono che non sia neppure in grado di parlare; anche in questi giorni di crisi risulta ricoverato in una clinica svizzera per accertamenti. Un presidente “fantasma” che, nel caso non improbabile di aggravamento, dovrebbe lasciare il posto al fratello Said Bouteflika, erede designato alla continuazione del potere del Fronte di Liberazione Nazionale al governo pressoché ininterrottamente dal 1969.
Le proteste, nate abbastanza in sordina, si stanno diffondendo a macchia d’olio grazie ad una pressante comunicazione sui social media, alla quale si sono aggiunti in questi giorni appelli e liriche di alcuni intellettuali che sembrano destinati a fornire un substrato “epico” alla rivolta. La repressione è stata violenta e si registra un morto fra i manifestanti. Senza voler parlare di format, il clima ricorda da vicino quello che ha innescato le “primavere arabe” del 2011, dalle quali l’Algeria fu interessata ma non travolta. L’esito di quella stagione è tristemente noto: dei sei paesi coinvolti, tre (Siria, Libia e Yemen) sono tuttora in preda ad una guerra civile, l’Egitto era finito nelle mani dei Fratelli Musulmani dalle quali è uscito solo grazie ad una giunta militare, due (Algeria e Tunisia) vivono sul filo del rasoio in bilico fra dittatura, terrorismo e traffici criminali.
Ben oltre l’occasione dell’ennesima ricandidatura di Bouteflika le ragioni profonde di questa protesta affondano nel cuore della società algerina. Molti oggi paventano esiti drammatici sulla scia delle guerre civili libica e siriana e certamente delle somiglianze cominciano ad intravvedersi. Allo stesso tempo questa similitudine rischia di essere una semplificazione eccessiva che in questi perimetri è sempre foriera di cocenti errori di giudizio.
Il malcontento alla base di questa richiesta di cambiamento è la conseguenza di una crisi economica che ha mandato in tilt il patto sociale fra governo e popolazione. È la storia frequente dei cosiddetti rentier state abituati a blandire le richieste politiche della popolazione con buoni livelli di sovvenzioni e servizi sociali, resi possibili dalla rendita del cospicuo patrimonio energetico del paese. Con il crollo dei prezzi del greggio e del gas queste politiche diventano insostenibili costringendo i governi a quelle politiche di austerità che rompono tale patto. La stessa parabola che sta vivendo in peggio il Venezuela e in meglio l’Arabia Saudita.
In Algeria, nella quale il 45 % della popolazione ha meno di 25 anni, la politica assistenzialista permetteva di attutire le conseguenze di un’altissima disoccupazione giovanile: l’espressione “giovani che reggono i muri”, per indicare gruppi di ragazzi disoccupati che chiacchierano appoggiati alle pareti lungo le strade, è fra le più diffuse nel paese. Negli ultimi anni è arrivato un fiume di denaro dalla Cina ma, con il pragmatismo tipico degli investimenti del Celeste Impero, non ha attutito i problemi sociali. Al contrario ha creato una ristretta classe imprenditoriale – molto ricca e molto corrotta – che tende a perpetuare l’ombrello che il sistema di potere di Bouteflika garantisce, almeno fino a quando non sarà individuato un successore fruibile.
Questa decomposizione sociale, acuita dal quotidiano contatto mediatico con i modelli consumistici europei, genera due fenomeni opposti ed ugualmente distruttivi.
Una parte, certamente minoritaria ma molto attiva, cerca un riscatto nel messaggio rivoluzionario dell’ultra-fondamentalismo islamico. Non va dimenticato che l’Algeria è stata uno dei luoghi di nascita del terrorismo islamico. Gli algerini figurano sempre fra i gruppi nazionali più numerosi nella comunità dei cosiddetti foreign fighters e al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), che ha i suoi santuari sul confine meridionale algerino con il Mali, è oggi, dopo il tracollo dell’ISIS e la frammentazione di Boko Haram, il gruppo terroristico islamico più attivo in Africa.
Dall’altro lato un numero sempre crescente di giovani algerini entra, come operatore o come consumatore, nel grande mondo del narcotraffico. Da parecchi anni l’Africa Orientale e il Maghreb vengono usati dai grandi cartelli latinoamericani come trampolino verso l’Europa per il traffico di cocaina. Che si tratti della cocaina colombiana proveniente dal Mali o della cannabis marocchina del Rif, la droga trova nei porosi confini meridionali algerini e nella relativa stabilità del paese una via più sicura di quella libica verso il Mediterraneo europeo.
Il rapporto 2018 dell’ONU sulle droghe non solo indica che l’Algeria sta accrescendo il suo ruolo di rotta importante verso l’Europa ma sottolinea pure come i paesi del nord-Africa presentino statistiche di consumo locale in vertiginosa crescita.
Come si vede gli elementi del cocktail esplosivo ci sono tutti: corruzione, crisi economica, terrorismo, criminalità organizzata, narcotraffico, disagio giovanile: l’ennesimo pezzo di un mondo in frantumi che l’Italia potrebbe trovarsi ad osservare da un posto in prima fila.
Lunedì, 11 marzo 2019