Di Valter Maccantelli
Pur non giungendo totalmente inattesa, la crisi diplomatica che ha coinvolto una coalizione solo apparentemente eterogenea di Paesi islamici contro il Qatar è balzata all’onore delle cronache per la sua intensità unica nella storia del Medioriente contemporaneo.
Le motivazioni ufficiali della rottura e le cause scatenanti specifiche appaiono poco convincenti e certamente insufficienti a spiegare una presa di posizione così radicale nei rapporti tra nazioni islamiche. A ogni ora si aggiungono nuovi aderenti all’ostracismo diplomatico dichiarato contro Doha; perfino la fazione libica legata al generale Khalīfa Belqāsim Haftar ‒ e quindi all’Egitto – ha dichiarato in queste ore di voler denunciare il Qatar alla Corte Internazionale per sostegno al terrorismo.
Al di là delle spiegazioni formali, occorre esaminare l’intero quadro geopolitico del Golfo Persico e del Medioriente per comprendere almeno alcune delle ragioni profonde di questa impennata di tensione che presenta lati ancora francamente inspiegabili.
L’area del Golfo Persico, intesa come quella porzione di Medioriente che non guarda al Mediterraneo ma all’Oceano Indiano, è da molto tempo terreno geopolitico conteso. Tre nazioni, Arabia Saudita, Iran e Turchia, aspirano al ruolo di potenze regionali e danno luogo a una fitta serie di scontri sia tradizionali sia “asimmetrici” che coinvolgono tutti gli attori principali della politica mondiale.
L’Arabia Saudita e la numerosissima casata degli al-Saud, forte del prestigio di custode dei luoghi santi islamici, si considera la potenza storica della regione. È in lotta per conquistare la leadership del mondo sunnita grazie alla propria capacità economica e alla rigorosa ortodossia wahhabita, giocate entrambe in chiave anti-sciita e quindi anti-iraniana. Questo suo ruolo sta diventando però sempre più debole a causa dei molti problemi che affiggono il regno. Il sostegno ai ribelli contrari al regime di Bashar al-Assad in Siria ha coinvolto il Paese nella débâcle delle forze antigovernative, ha ingoiato un mare di risorse e non sta portando alcun vantaggio geopolitico. Non va meglio nello Yemen. Questa guerra, iniziata nel novembre 2015 contro le fazioni Houthi sostenute dall’Iran, avrebbe dovuto ribadire con la forza la volontà saudita di schiacciare qualunque tentativo di conquista territoriale sciita nella “sua” penisola. Doveva essere una guerra lampo invece vive una situazione di stallo dalla quale le forze saudite non riescono a uscire.
L’Iran, appena uscito dall’isolamento delle sanzioni, in preda a una importante crisi economica per la perdita di valore dei propri asset petroliferi, con una popolazione di più di 80 milioni di abitanti (contro i 20 milioni di sauditi), unica nazione al mondo pressoché integralmente sciita, cerca di riallenare i muscoli atrofizzati dal lungo isolamento. La repubblica islamica di Teheran si sente infatti investita di un ruolo quasi messianico nella difesa della componente sciita del mondo musulmano. Da qui il suo elevato attivismo contro l’ISIS in Siria (a oggi è l’unico Stato ad avere perso sul campo un generale, Hossein Hamedani [1950-2015], nel 2015) e il nervosismo che accompagna qualunque mossa saudita verso nord-est. In questo impegno si colloca l’ampia attività di sostegno del regime degli ayatollah a tutte le iniziative militari e para-militari che infastidiscano l’Arabia Saudita, in primo luogo ai ribelli Houthi dello Yemen.
La conflittualità atavica tra sunniti e sciiti, e quella tra le diverse letture del sunnismo, sembrava destinata a trovare nella guerra per procura in Yemen una valvola di sfogo utile a diminuire la pressione per evitare uno scontro diretto: le vicende di questi giorni potrebbero alterare questo incerto equilibrio.
Lo scenario
Su questo scenario si muove il Qatar, il cui territorio occupa una piccola penisola che si protende dalla costa orientale saudita verso quella iraniana, da cui dista meno di 200 chilometri, poco oltre gli Stretti di Hormuz. È una nazione piccola – grande come l’Abruzzo e con la popolazione della Calabria –, ma baciato dalla rendita gas-petrolifera come pochi altri: condivide infatti con l’Iran lo sfruttamento del più grande giacimento di gas naturale del mondo. Questo, oltre a renderlo uno dei Paesi con la maggiore concentrazione di ricchezza, permette ai suoi fondi sovrani d’intervenire con investimenti in tutto il pianeta. Il principale beneficiario di questo flusso sembra essere la Francia, ma più di qualche spicciolo è finito anche in Italia nel settore alberghiero di lusso o nell’acquisto della maison di moda Valentino con possibili interessi verso Unicredit.
Dal punto di vista religioso, la popolazione è formalmente composta da soli musulmani, prevalentemente sunniti wahhabiti, anche se il panorama etnico-religioso è fortemente alterato dall’altissima percentuale di lavoratori stranieri presenti nel Paese all’interno della quale si registra una discreta presenza di cristiani (10% circa). Sul piano politico, il Paese è retto dalla dinastia ereditaria degli al-Thani, che, attraverso varie forme giuridiche, domina sulla regione dalla metà del secolo XIX. Ultimo rappresentante odierno della famiglia è Tamin bin Hamad al-Thani, succeduto al padre che ha abdicato in suo favore nel 2013. Le tensioni all’interno della famiglia per ragioni di successione non sono una novità: i due predecessori dell’attuale monarca erano saliti al potere deponendo con la forza un proprio parente. Non stupisce quindi che tra le voci che si rincorrono in queste ore vi sia anche quella di un colpo di Stato, visto anche il richiamo in patria, ufficialmente per partecipare alla mediazione, di un cugino ‒ Saud bin Nasser al-Thani – da Londra. Quello che appare chiaro è che la manovra d’isolamento mira direttamente alla giugulare del giovane sovrano.
Al Qatar gli accusatori rivolgono due principali contestazioni: praticare una politica di avvicinamento ambigua all’Iran e sostenere organizzazioni terroristiche.
La prima obiezione si fonda sulla tradizionale indipendenza che la monarchia qatariota ha tentato di praticare in politica estera rispetto all’Arabia Saudita, a differenza delle altre monarchie del Golfo molto infeudate a Riad. Tamin bin Hamad al-Thani ha cercato d’incrementare questa indipendenza, ma lo ha fatto con molto pragmatismo, provando a non scontentare troppo l’ingombrante vicino. Il gesto più eclatante compiuto di recente è stato un messaggio di congratulazione al presidente iraniano Hassan Rouhani per la sua rielezione.
Quello che probabilmente ha fatto infuriare Riad è stato il combinato disposto di due aspetti non graditi: il primo è che il Qatar abbia voluto assumere una postura internazionale autonoma; il secondo è che per farlo abbia scelto un approccio diretto all’Iran.
Molti analisti hanno sottolineato questo ruolo di Teheran come pomo della discordia, ma pochi si sono interessati delle questioni interne saudite come possibile accelerante per l’incendio in corso. Nel regno saudita da parecchio tempo sono in corso le “primarie” sotterranee per la successione al trono: re Salman bin Abd al-Aziz al-Saud ha 81 anni e una salute fragile. I due candidati più accreditati sono il principe ereditario Muhammad bin Nayef e il viceprincipe della corona Muhammad bin Salman, figlio dell’attuale monarca.
Il primo, Muhammad bin Nayef, è esponente di una visione più conservatrice e vede l’egemonia saudita come un obiettivo da raggiungere con una politica felpata; è a capo della sicurezza interna con la quale ha combattuto al-Qaida ed è molto apprezzato dai servizi di sicurezza occidentali; era ed è ferocemente contrario all’intervento militare diretto in Yemen.
Il secondo, Muhammad bin Salman, sostiene una politica molto più attiva e aggressiva per arrivare allo stesso scopo; punta tutte le chance di successo su un programma economico e sociale molto dinamico, orientato ai giovani; è stato uno dei fautori della guerra in Yemen, dove una sconfitta – o anche solo un non vittoria – farebbe diminuire di molto le sue probabilità di ascesa al trono.
Una delle possibilità è che l’attacco diplomatico-mediatico al Qatar rappresenti un mezzo della fazione legata a bin Salman per ottenere un triplice risultato: manifestare una postura aggressiva nella penisola arabica, contrastare un pericoloso concorrente economico, aumentare le possibilità di vittoria in Yemen, dove i ribelli Houthi sono sostenuti dall’Iran e, almeno secondo il presidente filo-saudita Abd Rabbih Manṣūr Hādī, dal Qatar.
I vicini
L’Egitto è l’unico Paese aderente all’iniziativa anti-qatariota che tecnicamente non appartiene ai Paesi rivieraschi del Golfo, se si escludono le solite Maldive. Anche qui si è molto insistito sulla motivazione più evidente: il sostegno, spesso esplicito, di ambienti qatarioti ai Fratelli Musulmani, nemici giurati del governo egiziano di ʿAbd al-Fattāḥ Saʿīd Ḥusayn Khalīl al-Sisi. È certamente vero, ma il fatto è noto da tempo e non si vede in cosa sia peggiorato. Anche in questo caso è ipotizzabile una concausa meno evidente, ma non necessariamente meno vera.
Negli ultimi anni, l’attivismo politico-militare del Qatar si è spinto molto lontano, arrivando a sostenere finanziariamente e militarmente alcune fazioni ultrafondamentaliste libiche che impediscono al generale Haftar, sul quale al-Sisi conta per giocare un ruolo nella crisi libica, di controllare interamente la Cirenaica e assurgere a un ruolo nazionale. Vista da Il Cairo, l’iniziativa di “bannare” il Qatar dalla scena politica potrebbe sembrare una buona occasione anche per eliminarne le influenze in Libia.
Guardando ai due pesi massimi in gioco, Arabia Saudita ed Egitto, verrebbe da pensare che Emirati Arabi Uniti (EAU) e Bahrein svolgano nella partita il ruolo di satelliti comprimari. Potrebbe non essere così.
Gli EAU sembrano aver trovato nel principe ereditario Muhammad bin Zaied un futuro leader autorevole e rispettato in tutta la regione. Qualcuno gli attribuisce un ruolo di astro nascente con influenza perfino sulla politica saudita: anche lui potrebbe non aver gradito la concorrenza del giovane monarca qatariota.
Il Bahrein è governato da una monarchia sunnita-wahhabita, ma la sua popolazione è per due terzi sciita, una situazione anomala che lo rende socialmente instabile. Ha visto negli ultimi anni l’esplosione di periodiche rivolte sempre soffocate con il pugno di ferro. Nel mese di maggio alcuni arresti operati dalle forze di sicurezza nei confronti di esponenti sciiti di spicco ha causato uno di questi ricorrenti picchi di tensione. Un nemico esterno, il Qatar, e un alleato potente, l’Arabia Saudita, in questo momento fanno davvero comodo al re Hamad bin Isa al-Khalifa.
Anche più problematica sembra essere la seconda accusa: quella di finanziare il terrorismo nella regione. Problematica non tanto perché falsa (al netto di un ovvio e non impossibile dovere di dimostrarla), ma perché nell’attuale calderone mediorientale accusare qualcuno di finanziare il terrorismo è come mettersi a fare multe per eccesso di velocità alla 500 miglia d’Indianapolis. È davvero difficile distinguere i “buoni” dai “cattivi” e certamente tale cernita non è possibile nell’ambito della compagine anti-qatariota di questi giorni.
Restano molti interrogativi aperti ai quali non sembra possibile al momento fornire una risposta attendibile. È un’iniziativa locale o risponde al gioco di qualche potenza esterna? Sembrerebbe locale, ma è difficile credere che il presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump, in visita nella regione pochi giorni or sono, non sia stato informato dai fidi (?) alleati sauditi. Eppure questa mossa non sembra corrispondere agli interessi statunitensi nel Golfo.
È un cedimento saudita alle provocazioni iraniane? Possibile, ma sembra difficile credere che gli esperti sauditi abbiano alzato all’Iran, che si è già dichiarato disposto a rifornire il Qatar con proprie navi, una palla così facile da schiacciare.
Kuwait e Turchia si sono già offerti di mediare, e la questione potrebbe, secondo stilemi tipicamente arabi, decadere nel nulla o crescere verso uno scontro aperto: non lo sappiamo.
I recentissimi attentati a Teheran, rivendicati da ISIS/Daesh con una rapidità insolita, potrebbero aggiungere particolari importanti al nostro quadro. Se questi fatti dovessero portare a un aumento dell’impegno iraniano sul confine tra Siria e Iraq nella lotta contro l’ISIS, la mossa verrebbe vista da Riad come un ulteriore passo sciita verso la penisola arabica. La reazione saudita non si farebbe attendere e il Qatar potrebbe rappresentare la posta in gioco di una nuova sfida a un livello sempre più alto e pericoloso.
Ci fosse un europeo…
Alcune cose però questa storia le deve ricordare:
- la principale causa della instabilità del Medioriente è lo scontro in atto all’interno del mondo islamico fra sciiti e sunniti o fra loro sottogruppi. Tale scontro finisce con il proiettare i propri effetti sul mondo intero, Europa compresa;
- questa “malattia” che affligge l’islam politico può essere curata solo da “medici” musulmani; gli altri direttamente possono fare assai poco;
- indirettamente qualcosa si può fare, ma occorre scegliere gl’interlocutori adeguati, cioè realmente rappresentativi di questo mondo, indipendentemente dalla loro correttezza politica;
- è ipotizzabile che l’Amministrazione Trump abbia nella politica internazionale, specialmente in contesti così complessi come il Medioriente, il proprio tallone di Achille. Servirebbero i consigli di qualche vecchio e saggio politico europeo, se solo ne fosse rimasto uno…
9 giugno 2017