Di Marco Invernizzi da Tempi di novembre 2019
Antonio Scurati ha scritto un articolo sul suicidio demografico sul Corriere della Sera del 15 ottobre che merita attenzione. È un’analisi impietosa del fallimento della sua generazione, quella che aveva vent’anni quando veniva abbattuto il Muro di Berlino e che è la principale imputata per il tracollo demografico in corso. Le cause sono diverse e lo scrittore ne elenca le principali: infertilità maschile, diminuzione del numero di donne in età fertile, mancato sostegno politico ed economico alla famiglia. Tuttavia Scurati invita i coetanei a non crearsi alibi e a riconoscere che la colpa della sua generazione ha ragioni culturali, addirittura parlando della necessità di una «rinascita spirituale» che inverta la rotta. Certo, Scurati è lo stesso intellettuale che ha scritto a favore dell’eutanasia con parole disperate e un poco livorose verso i pro-life, ma la sua riflessione sul crollo demografico rimane un testo importante, anche perché esprime in un certo senso le contraddizioni della prospettiva ideologica, l’individualismo liberale, che Scurati dice di professare.
La speranza che manca
L’articolo merita davvero di essere letto e riletto, anche perché è stato pubblicato sul principale quotidiano italiano, il cui direttore, Luciano Fontana, il giorno precedente aveva anticipato conclusioni analoghe rispondendo a un lettore. Ma ancora più importante è l’indicazione della vera causa del suicidio demografico in atto, quella di natura culturale. Molti parlano oramai del problema demografico, perché i numeri sono drammaticamente sotto gli occhi di chi vuole vederli, ma pochi arrivano al nocciolo della questione. Farlo significherebbe mettere in questione il proprio modo di vivere e soprattutto il modo di pensare la propria vita. Persino il Forum delle associazioni familiari, nel suo encomiabile sforzo per rilanciare la natalità, non riesce a mettere al centro del tema la questione culturale, concentrando la propria azione sulla necessità di aiutare economicamente la famiglia. Ma se non si comincia a riflettere su chi sia l’uomo e su quale ne sia il fine, difficilmente usciremo dalla situazione in cui ci troviamo. Quello che vorrei dire a Scurati, se ne avessi la possibilità, è di aprire una riflessione sulla speranza, quell’atteggiamento del cuore che mancava nell’articolo sull’eutanasia, e che è la principale causa del suicidio demografico, come in qualche modo lui stesso sottolinea. Infatti, se non hai la speranza in Qualcuno che ti attende oltre la vita terrena, se non comprendi che quest’ultima è un dono che hai ricevuto perché venga comunicato «fino alla morte naturale» come diciamo noi inguaribili pro-life, allora la mancanza di speranza ti porta a non trasmettere la vita, a non volere comunicare la bellezza e l’amore che non hai. Giustamente Scurati dice che il crollo demografico è il segno di un fallimento culturale. Certo, la cultura non s’impone né si diffonde con iniziative legislative. Tuttavia, se i media, l’editoria, la scuola e l’università, se gli intellettuali mettessero a fuoco il tema forse si potrebbe invertire la rotta. Scurati lo ha fatto, e gliene siamo grati. Parlando di rinascita spirituale ha addirittura indicato, non so se consapevolmente, la strada della conversione come quella determinante per una rinascita del nostro paese, che nella classifica per nascite in Europa è all’ultimo posto.
Favorire un nuovo clima
Anche le conversioni spirituali non si possono organizzare a tavolino. Ma si possono favorire, creando un clima che metta la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna al centro della vita pubblica e delle attenzioni legislative, dando a essa almeno lo stesso rilievo che viene tributato alla cosiddetta questione omosessuale.
La generazione di cui scrive Scurati ha sbagliato perché ha avuto cattivi maestri, come ricorda lo scrittore stesso, citando un suo collega statunitense, David Leavitt: «Era sempre sabato sera e stavamo sempre andando a una festa».
In questo modo quei cinquantenni non sono andati da nessuna parte e nemmeno hanno fatto figli. Né chi è venuto dopo ha fatto o sta facendo meglio.
Ma ancora peggio sarebbe disperare. Perché piangersi addosso senza cambiare direzione alla propria vita non giova né a sé né al mondo circostante.
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