di Marco Respinti
Andrej Andreevič Vlasov (1900-1947)
1. Lo scenario
Il 22 giugno 1941, rotto il patto Molotov-von Ribbentrop dell’agosto del 1939 che prevedeva la non-aggressione fra Germania nazionalsocialista e Unione Sovietica comunista, il Terzo Reich scatena contro l’ex alleato, ora acerrimo nemico, l’«Operazione Barbarossa».
L’avanzata della Wehrmacht accende non poche speranze fra i cittadini sovietici stretti nella morsa del terrore staliniano, che sperano di poter sfruttare l’occasione per liberarsi del giogo totalitario. Nel primo volume di Arcipelago GuLag. Saggio di inchiesta narrativa, del 1973, lo scrittore russo Aleksandr Isaevic Solzenicyn ricorda che «[…] unità antisovietiche consistenti di ex sudditi sovietici furono create fin dai primi mesi della guerra. I primi a sostenere i tedeschi furono i lituani (quante angherie avevano subìto in un solo anno!); poi fu creata la divisione ucraina volontaria, SS-Galicia; infine reparti di estoni; nell’autunno 1941 apparvero battaglioni di guardie in Bielorussia; in Crimea ci fu un battaglione tataro. […] Più tardi passarono dalla parte dei tedeschi reparti caucasici e truppe cosacche (più di un corpo di cavalleria). Durante il primo inverno si cominciarono a formare plotoni e compagnie di volontari russi, ma il comando tedesco nutriva una forte sfiducia verso le formazioni russe». Questa ribellione anti-comunista viene spesso sbrigativamente e maliziosamente liquidata come fenomeno di semplice «collaborazionismo» ideologico, mentre essa aggiunge una dimensione decisamente interessante per la miglior comprensione della questione del famoso «appello patriottico» con cui Iosif Vissarionovič Džugašvili «Stalin» (1878-1953) — in nome della Santa Russia —, chiamò alle armi i sovietici contro l’aggressore tedesco, compiendo, peraltro, un gesto con cui — momentaneamente e suo malgrado — il despota si vide di fatto costretto ad allentare la morsa dispotica sul paese e a sopportare il ritorno di valori e di concetti radicalmente contrastanti con l’ideologia marxista-leninista.
2. Vlasov, anticomunista dell’Armata Rossa
Fra i cittadini sovietici che si rivoltano in armi contro Mosca, emerge la figura del generale russo Andrej Andreevič Vlasov e dei soldati ai suoi ordini, detti vlasovcy.
Il futuro ufficiale nasce nel 1900 a Lomakino, nel governatorato di NiznijNovgorod, da una famiglia contadina. A diciotto anni si arruola nell’Armata Rossa e, dopo essere stato ammesso nel Partito Comunista dell’Unione Sovietica nel 1930, prosegue la carriera nell’esercito. Nel 1936 è consigliere militare in Cina e nel 1940 viene nominato generale.
Durante la campagna dell’inverno 1941-1942 comanda la 2a Armata che, stanziata nei dintorni di Mosca, difende la capitale minacciata dalla Wehrmacht e scongiura la vittoria militare tedesca. Dopo aver guadagnato la gloria su quel campo di battaglia, partecipa ai combattimenti nella regione del Volkhov, ma, accerchiato per diverse settimane nei pressi di Leningrado dalle truppe tedesche che ne impediscono ogni manovra, viene abbandonato da Stalin a morire di fame. Messo alle strette e persa ogni fiducia nello Stato Maggiore e nella dirigenza politica sovietiche, dopo un lungo calvario decide di arrendersi ai soldati tedeschi il 13 luglio 1942, nel distretto di Siverskij.
Nella speranza di poter creare un organismo politico e militare indipendente capace di condurre una lotta patriottica e anti-comunista che porti al rovesciamento del regime staliniano, decide di riprendere le armi a fianco dei tedeschi e di organizzare il Movimento per la Liberazione dei Popoli della Russia.
3. Il KONR e la ROA
Alla fine del 1942 Vlasov ottiene dal comando tedesco il permesso di costituire un centro di propaganda a Dabendorf, non lontano da Berlino, compiendo poi alcuni viaggi in Germania, a Bruxelles e a Parigi per promuovere l’iniziativa. Il 12 aprile 1943 rende pubblico un programma patriottico e anti-comunista nel quale viene però negata ogni concessione all’Ucraina, alla Lituania e agli altri territori non russi inglobati dall’imperialismo sovietico, che rivendicano l’indipendenza e che si trovano analogamente in armi contro Mosca.
L’ex generale comunista, peraltro, non gode affatto della fiducia di Adolf Hitler (1889-1945), che ne disprezza il patriottismo e certe tendenze ispirate al nazionalismo russo e gran-russo. Se Vlasov può contare su una certa simpatia del ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop (1893-1946), è invece detestato da Heinrich Himmler (1900-1945), Reichsführer delle SS — Schutzstaffeln, «staffette di difesa» —, che nutre forti pregiudizi razziali nei confronti degli slavi, accarezzando progetti di completa colonizzazione e sottomissione al Terzo Reich dei territori dell’Est. La costituzione dell’armata anti-comunista dei vlasovcy viene dunque ritardata fino alla vigilia della conclusione della guerra mondiale, vanificandone ogni eventuale efficacia patriottica. Inconsapevolmente, Vlasov finisce anche per divenire uno strumento della lotta di potere fra von Ribbentrop, da un lato, e Himmler e il Reichskommissar dell’Est Alfred Rosenberg (1893-1946), dall’altro. Il Reichsführer delle SS, intanto, cerca di riunire le minoranze russe per meglio adattarle alle proprie necessità ideologico-militari, tanto che all’inizio del 1945 i suoi quadri militari possono contare su cinque divisioni composte di lettoni, estoni e russi bianchi, oltre a numerose brigate formate da caucasici e turkestani musulmani, e alle tre divisioni di cosacchi e di ex emigrati poste sotto il comando del generale tedesco Helmut von Pannwitz (1898-1947), poi riconosciuto come ataman dai propri uomini. Per volere dell’alto comando tedesco, Vlasov non avrà mai alcuna autorità effettiva sulla totalità di questi uomini, spesso a torto identificati nel complesso come «Esercito Vlasov».
L’avanzata tedesca sul suolo sovietico volge intanto in ritirata. Così, il 16 settembre 1944, Himmler e Vlasov s’incontrano a Rastenburg, nella Prussia Orientale (oggi Kętrzyn, in Polonia), quartier generale di Hitler sul fronte est, per concordare le creazioni di un esercito antistaliniano e di un comitato, il KONR, Comitato per la Liberazione dei Popoli della Russia, con il compito, riconquistata la patria, di creare un governo provvisorio. In questa e in altre occasioni, il generale russo resiste con successo alle forti pressioni del Reichsführer delle SS che auspica l’inserimento di princìpi positivamente anti-semiti nei programmi del KONR.
Mentre l’Armata Rossa raggiunge la Vistola e il Danubio, i vlasovcy — narra Solzenicyn — «[…] cucivano sulla manica sinistra della divisa tedesca lo scudetto con il bordo bianco-azzurro-rosso, la croce di sant’Andrea e le lettere ROA». È la sigla della Russkaja Osvoboditel’naja Armija, l’Esercito di Liberazione Russo, la cui costituzione viene permessa dai vertici del Terzo Reich solo di fronte all’assottigliarsi del numero dei propri soldati che, dalla metà del 1944, pesa in maniera decisiva sugli obiettivi militari tedeschi.
Il progetto è quello di affidare a Vlasov un’armata russa di 25 divisioni per un totale di 650mila uomini, ma il generale potrà in effetti contare solamente su tre divisioni, delle quali solo una — 18mila uomini agli ordini del generale Sergej K. Bunjacenko — viene di fatto impegnata in combattimento.
Con una cerimonia solenne, il 14 novembre viene ufficialmente fondato a Praga il progettato KONR, accompagnato dalla pubblicazione di un manifesto che si propone, dopo la vittoria, di garantire ai russi molte delle libertà negate dal regime sovietico: il ritorno dei territori agricoli al possesso privato, la liquidazione del lavoro forzato e la libertà di religione e di parola.
Quattro giorni più tardi, truppe statunitensi entrano in territorio tedesco. A questo punto, come nota lo storico inglese barone lord Nicholas William Bethell (1938-2007)in The Last Secret. Forcible Repatriation to Russia 1944-1947, del 1974, «Vlasov, dopo tutti gli schiaffi ricevuti, era meno preoccupato di aiutare i nazisti che non di dar vita a una forza che sarebbe divenuta un’entità politica. Progettava, comunque la guerra finisse, di negoziare con la parte vincente e di offrire il proprio aiuto nella marcia contro Stalin. Era convinto che se, come sembrava probabile, gli Alleati avessero vinto, lo scontro fra l’Armata Rossa e la Gran Bretagna e gli Stati Uniti sarebbe stata solo questione di tempo. In quel caso, Vlasov e i suoi uomini si sarebbero volentieri uniti all’Occidente per scagliarsi contro l’Unione Sovietica».
Nel maggio del 1945, gli uomini di Bunjacenko corrono in soccorso degli abitanti di Praga e liberano la città dai tedeschi che minacciano di distruggerla completamente, un fatto che i partigiani comunisti boemi e la storiografia ufficiale non hanno mai riconosciuto volentieri. «Il 9 maggio — osserva lo storico statunitense Warren Hasty Carroll (1932-2011) in 70 Years of the Communist Revolution, del 1989 —, i carri armati sovietici entrarono a Praga. L’Armata Rossa occupava ora la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Germania Orientale e l’Austria orientale, insieme ai quattro paesi che già si era assicurata o che erano ben avviati sulla strada della conquista comunista: Polonia, Romania, Bulgaria e Jugoslavia».
4. Il tragico epilogo
Gli ultimi momenti della ROA sono drammatici. Gli ufficiali inviano messaggi alle controparti statunitensi, ma non riescono a stringere alcun accordo certo. I vlasovcy decidono allora di arrendersi alle truppe nord-americane che inizialmente li accolgono con benevolenza: i graduati statunitensi impegnanti sul territorio tedesco sono infatti ancora all’oscuro degli Accordi di Jalta fra Stalin, sir Winston Leonard Spenser Churchill (1874-1965) e Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) in cui è stato segretamente deciso il rimpatrio di tutti i sovietici «ribelli» o prigionieri dei tedeschi, anche con la forza. Una volta sciolto il riserbo, gli ufficiali nordamericani eseguono gli ordini.
La storia del rimpatrio forzato delle unità della ROA s’intreccia così con i fatti luttuosi che coinvolgono migliaia di altri anti-comunisti orientali, caucasici, cosacchi, emigrati e pure slavi meridionali rispettivamente consegnati a Stalin e al leader jugoslavo Josip Broz detto «Tito» (1892-1980), soprattutto per volontà dell’alta dirigenza politico-militare britannica che finisce per coinvolgere anche gli Stati Uniti d’America in un clamoroso crimine di guerra, negletto e scomodo, raccontato nei minimi dettagli dallo storico anglo-russo conte Nikolai Dmitrevič Tolstoy Miloslavskj.
Fatto prigioniero in Cecoslovacchia dall’avanguardia delle truppe statunitensi della 3a Armata al comando del generale George Smith Patton (1885-1945), il generale Vlasov, il 12 maggio, vicino a Schlüsselburg, a ovest di Hannover, cade in mano sovietica mentre è sotto scorta nord-americana in una circostanza che Tolstoy definisce «completamente e tragicamente innocente». Il 2 agosto 1946, la Pravda annuncia che l’ufficiale e altri nove suoi colleghi sono stati condannati a morte e impiccati.
Osserva Carroll: «Avendo visto la verità, Vlasov aveva assunto la propria posizione. Il comunismo, gridò nella Dichiarazione di Smolensk, “è il nemico del popolo russo”. Ambì al suo completo ripudio, al rovesciamento del suo dominio, alla libertà per la Russia e alla pace con la Germania.
«Ma, come Vlasov avrebbe dovuto ed evidentemente non sapeva, non vi sarebbe potuta essere maggiore pace con Hitler che con Stalin. Hitler avrebbe conquistato e governato, o sarebbe morto. La tragedia di Vlasov fu la tragedia dell’intera guerra russo-tedesca, un corpo a corpo fra mostri. Non vi fu alcuna alternativa. Non vi fu alcuna terza scelta — solo i due titani dell’oscurità».
Marco Respinti
19 ottobre 2018
Per approfondire: vedi Adriano Bolzoni (1919-2005), I dannati di Vlassov. Il dramma dei russi antisovietici nella seconda guerra mondiale, Mursia, Milano 1991; Pier Arrigo Carnier, L’armata cosacca in Italia. 1944-1945, 2a ed. ampliata, Mursia, Milano 1990 (cap. V: Uniti nella lotta, rivali nel potere. P. N. Krassnoff e A. A. Wlassow, pp. 93-105); e Idem, Lo sterminio mancato. La dominazione nazista nel Veneto orientale 1943-1945, 2a ed., Mursia, Milano 1988; vedi pure i miei Maggio-giugno 1945: il rimpatrio forzato dei cosacchi e altri crimini di guerra «eccellenti», in Cristianità, anno XXIII, n. 245, settembre 1995, pp. 13-20, e Anche gli Alleati deportavano, in La nuova Europa, anno V, n. 6 (270), novembre-dicembre 1996, pp. 86-104.