Giovanni Cantoni, Cristianità n. 222 (1993)
Antonio Capece Minutolo, Principe di Canosa, Discorso sulla decadenza della Nobiltà, a cura di Silvio Vitale, Edizioni Krinon, Caltanissetta 1992, pp. 56, L. 15.000
Idem, L’Isola dei Ladroni o sia La Costituzione Selvaggia. Commedia ridicola divisa in tre atti, e scritta nel Mese di Gennaio e metà di Febbraio dell’anno 1821, con una prefazione di Silvio Vitale, Edizioni Krinon, Caltanissetta 1993, pp. 88, L. 20.000
Fra gli artifici — in realtà non è assolutamente l’unico, benché sia uno dei più importanti — di cui si avvale la retorica rivoluzionaria si situano certamente «leggende nere», nelle quali i dati vengono surrogati dalla reiterazione di menzogne e di calunnie fino a costruire attorno al vero anche fattuale una cortina fumogena sempre più spessa e di sempre maggiore consistenza. Vittime di questa pratica empia — nell’antidecalogo contrasta diametralmente con l’ottavo comandamento, che vieta la falsa testimonianza — sono di volta in volta avvenimenti e istituzioni, regimi e uomini.
Nella storia italiana contemporanea e seguente la Rivoluzione detta francese — denominata periodo risorgimentale o Risorgimento — esempio di rilievo di tale pratica è costituito dal trattamento inflitto dalla cultura ufficiale ad Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, protagonista della lotta contro-rivoluzionaria nella penisola e campione nella denuncia della profondamente ambigua quando non chiaramente falsa Restaurazione seguita al Congresso di Vienna, indicato dagli autori risorgimentali e dai loro epigoni come uomo torbido e sanguinario, in realtà sostenitore di un’azione politica fondata sulla propaganda e sulla polemica anche satirica con l’ideario rivoluzionario.
Il nobile napoletano — nato nella capitale del regno nel 1768 e morto in esilio a Pesaro nel 1838 — accompagna la sua azione politica istituzionale — fu per breve tempo, in due occasioni, ministro di polizia — e quella propagandistica alla riflessione politico-religiosa. Ma, in conformità con la pratica denunciata, il giudizio rivoluzionario su di lui — non solo, ovviamente, quello dei suoi avversari contemporanei — prescinde dalla conoscenza della sua opera inedita, più delle altre espressione di una ininterrotta meditazione sulla vita del suo tempo alla luce di princìpi.
Con altri — cito volentieri, da ultimo, Nicola Del Corno, Gli «scritti sani». Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità (Franco Angeli, Milano 1992, pp. 31-51) —, ma con una «compassione» che favorisce la comprensione dei tempi e degli uomini, da anni si viene interessando del nobile napoletano Silvio Vitale, uomo politico pure partenopeo, editore del periodico L’Alfiere. Pubblicazione napoletana tradizionalista, animatore dell’Editoriale il Giglio nonché apprezzato autore di due titoli di argomento canosiano: il fondamentale Il Principe di Canosa e l’epistola contro Pietro Colletta, che presenta ampiamente e ripropone uno dei maggiori scritti di Antonio Capece Minutolo (Berisio, Napoli 1969) e Il pensiero del Principe di Canosa. Le dissertazioni sulla religione (Ed. L’Alfiere, Napoli 1991).
L’attenzione di Silvio Vitale per Antonio Capece Minutolo è globale, cioè portata non soltanto a ricostruirne accuratamente le gesta e a interpretarne fedelmente il pensiero sulla base del materiale edito, ma intesa anche a editare quanto non ancora pubblicato. In questa prospettiva vedono la luce — curati e presentati dallo stesso Silvio Vitale — il Discorso sulla decadenza della Nobiltà e L’Isola dei Ladroni o sia la Costituzione Selvaggia. Commedia ridicola divisa in tre atti, e scritta nel Mese di Gennaio, e metà di Febbraio dell’Anno 1821.
Il Discorso sulla decadenza della Nobiltà è studio del 1803, pochi anni dopo la prima invasione francese del regno di Napoli, quella alla quale si oppose vittoriosamente la Santa Fede sotto la guida del cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria (cfr. Francesco Pappalardo, 1799: la crociata della Santa Fede, in Quaderni di «Cristianità», anno I, n. 3, inverno 1985, pp. 34-50). L’inedito è brevemente introdotto dal curatore (pp. 5-8) e seguito dal catalogo delle opere del principe di Canosa anteriori al Discorso sulla decadenza della Nobiltà, quindi dall’indicazione dei principali studi — editi e inediti — in cui l’autore sviluppa i medesimi argomenti, finalmente da una bibliografia sommaria (pp. 51-53).
Nel Discorso sulla decadenza della Nobiltà la causa del tramonto di questo fondamentale ceto viene individuata nella crisi del regime monarchico prodotta dalla dissennata politica di accentramento assolutistico, che contribuisce a demolire la società tradizionale organica e cristiana.
Aperta da un’ampia prefazione del curatore (pp. 5-21), L’Isola dei Ladroni o sia La Costituzione Selvaggia. Commedia ridicola divisa in tre atti, e scritta nel Mese di Gennaio, e metà di Febbraio dell’Anno 1821 è opera teatrale redatta dopo la rivoluzione napoletana del 1820-1821, e costituisce esempio concreto della pratica polemica apprezzata e auspicata dall’uomo politico napoletano. Mi pare significativo ricordare — a conferma della costanza e della continuità della riflessione canosiana sulla prassi contro-rivoluzionaria — che l’uso del teatro per la formazione di una corretta opinione pubblica è tema di una corrispondenza con il conte Monaldo Leopardi, realizzata nel mese di febbraio del 1833 e nella quale il principe napoletano propone al nobile marchigiano — a nome di un’elevata autorità politica, verosimilmente l’arciduca Francesco IV di Modena — di dedicarsi alla stesura di testi teatrali (cfr. Nicola Storti, Tredici lettere inedite di Monaldo Leopardi, in Il Cosanostra. Strenna recanatese (Nuova Serie). Rivista annuale del Centro Studi Recanatesi, anno 1989-1990, n. 100, pp. 25-63 [pp. 30-32]).
Antonio Capece Minutolo ambienta l’azione della sua pièce in un paese del lontano Oriente, dove un gruppo di settari si è impadronito del potere e si è sostituito al monarca pretendendo di rappresentare il popolo che, invece, costretto a subire inusitate regole di vita, aspira soltanto al ritorno alle proprie consuetudini. Finalmente interviene a ristabilire l’ordine l’esercito cinese e le velleità guerresche dei settari si trasformano in vergognosa capitolazione.
Le due operette recensite suggeriscono, se addirittura a ciò non obbligano, di evocare una problematica grave per chi abbia a cuore la propaganda, cioè — come si è potuto vedere — intenda raccogliere la lezione autentica e sostanziale del principe di Canosa: si tratta della problematica relativa alla lingua. Quindi, mi pare che osservazioni in proposito non siano assolutamente fuori luogo dopo la segnalazione dei due testi inediti del nobile napoletano.
Come evidenzia Silvio Vitale, sia il saggio che l’opera teatrale sono scritti in una lingua a diversi riguardi lontana dall’italiano oggi corrente. Senza entrare nel merito della situazione, all’epoca, della lingua usata dal principe di Canosa — nel caso concreto si tratta di un merito di poco rilievo, dal momento che non sono in questione né la capacità comunicativa né quella espressiva dell’autore — credo di poter affermare che la lingua in questione, se non straniera in senso proprio e forte, è certamente estranea all’italiano contemporaneo, quindi si può definire come straniera in senso debole.
Poiché questa condizione costituisce ostacolo decisamente rilevante alla fruizione dei testi in esame e di documenti analoghi, il fatto induce a chiedersi se non sia indispensabile una loro copiosa annotazione, se non addirittura una traduzione, come si è fatto per le ampie citazioni latine contenute nel Discorso sulla decadenza della Nobiltà, e come invece — purtroppo — non si è fatto per le parti in napoletano di L’Isola dei Ladroni o sia La Costituzione selvaggia. Commedia ridicola divisa in tre atti, e scritta nel Mese di Gennaio, e metà di Febbraio dell’Anno 1821. Ho presenti le molte obbiezioni che potrebbero essere sollevate, ma mi pare che nessuna resista all’esigenza principale, quella di permettere l’accostamento il più ampio possibile a un pensiero intelligente e fecondo, liberandolo dalla sua datazione formale. Infatti, se costituisce merito non piccolo sottrarre finalmente all’oblio l’inedito attraverso la sua edizione, essa deve aver presente il logico itinerario di ogni pubblicazione, cioè quello di sfociare… in un mare di lettori, quindi eliminare tutto quanto possa costituire prevedibile ostacolo a questo esito certamente auspicato, allo scopo predisponendo note abbondanti, sia lessicali che informative, sempre senza escludere assolutamente l’ipotesi della «traduzione» dell’italiano preunitario nella koiné postunitaria nella sua variante contemporanea, prescindendo — ripeto — da ogni giudizio di merito.
Per chi vedesse nella proposta un esotismo, trascrivo ampiamente la Premessa e dedica di Piero Melograni a Il Principe di Niccolò Machiavelli, testo originale con la versione in italiano di oggi dello stesso docente nell’ateneo perugino, evidentemente senza indossare assolutamente i giudizi da lui espressi sul pensatore politico fiorentino (Rizzoli, Milano 1991, pp. 5-6).
a. «Alcuni anni or sono, Goffredo Parise mi confidò che abbastanza di frequente l’italiano di Machiavelli gli risultava difficile, complicato e oscuro. Mi disse di essere riuscito a capire e a gustare Il Principe solamente dopo averlo letto in traduzione francese. Soggiunse che gli stranieri conoscevano Machiavelli meglio degli italiani, poiché avevano la fortuna di leggerlo tradotto. Suggerì di tradurre Il Principe in italiano moderno, e sostenne che la cultura politica degli italiani ne avrebbe tratto gran giovamento».
b. «Benché fossi subito attratto dalla proposta, per anni non decisi nulla. Pensai di non poter essere la persona adatta, poiché — come storico totalmente rivolto all’epoca contemporanea — non avevo mai profondamente studiato né il Machiavelli né il Rinascimento. Temetti di non possedere gli strumenti filologici per interpretare i passi più oscuri del Principe. Infine mi immaginai che gli studiosi avrebbero accolto assai male la traduzione moderna di un testo così classico.
«Ma dopo la morte di Goffredo Parise chiesi il parere di alcuni specialisti ed ebbi la sorpresa di constatare che essi non vedevano di malocchio una traduzione del Principe. Intuii nello stesso tempo che gli specialisti avrebbero incontrato qualche difficoltà a compiere l’impresa proprio per non mettere a repentaglio il loro prestigio di studiosi. Era molto più facile che un non esperto […] trovasse il modo di osare».
c. «Il lavoro di traduzione mi ha confermato ancor una volta che Parise aveva ragione, perché il linguaggio di Machiavelli è in più luoghi arcaico, contorto e difficilmente comprensibile. Se ne può avere una riprova esaminando le diverse edizioni del Principe oggi in commercio. I curatori delle varie edizioni inseriscono note a piè di pagina per cercare di chiarire ai lettori contemporanei il senso di tante frasi un po’ oscure, ma purtroppo, in alcune occasioni, perfino essi commettono errori di interpretazione. Anche i traduttori stranieri talvolta s’ingannano nel tradurre».
d. «D’altra parte la scrittura di Machiavelli è in moltissime pagine straordinariamente bella e avvincente. Si tratta di un testo classico che è bene leggere, gustare e magari citare secondo la versione originale. Ho quindi voluto pubblicare le due versioni l’una accanto all’altra, il testo originale nelle pagine di sinistra e la mia versione nelle pagine di destra. Il lettore potrà agevolmente confrontare i due testi e la versione moderna gli consentirà di afferrare più facilmente il senso complessivo di un capitolo o dell’intero libro. Ma sarà poi bene ch’egli si soffermi sul testo originale per coglierne tutta la forza e le straordinarie suggestioni».
Ho articolato le osservazioni di Goffredo Parise riferite da Piero Melograni e quelle dello stesso Piero Melograni perché i problemi e le soluzioni appaiano con la massima evidenza. Dunque, a. la lingua italiana moderna è talora molto lontana da quella di altre stagioni culturali; b. gli specialisti lo sanno ma, timorosi di tradurre — in quanto tradurre sembrerebbe venir considerata attività scarsamente scientifica perché non di ricerca e quindi non produttrice di novità —, rinunciano a trasmettere, così interrompendo o almeno ostacolando la tradizione, cioè la sopravvivenza fruibile del «passato che non deve passare»; c. l’apparato filologico, che dovrebbe surrogare la mancata traduzione, non è sempre adeguato; d. perciò s’impone la traduzione, che è opera di tradizione in quanto accosta e introduce non solo al «lontano nello spazio», allo straniero, ma anche al passato, al «lontano nel tempo», e permette di servirsene.
Mi chiedo: con questo corretto approccio filologico, Giambattista Vico — per evocare un nome maggiore, senza andar fuori tema, anche geograficamente — sarebbe ancora così sconosciuto in patria, più letto all’estero e, oggi, decisamente più leggibile in una lingua straniera? E da una maggiore conoscenza dell’opera vichiana la cultura filosofica degli italiani non avrebbe tratto grande giovamento, a contatto con un’autentica filosofia della storia e, quindi, messa in guardia contro la dialettica che contrappone filosofia e storia, generando storicismo e antistoricismo, e ne impedisce l’armonia, con grande danno anche — se non soprattutto — per la cultura politica?
Ancora: senza la pratica «carsica» e «strisciante» di questo procedimento come immaginare, per esempio, la costante fruizione, nel corso di oltre due secoli, dei testi spirituali di sant’Alfonso Maria de’ Liguori? Allo scopo, basta accostare le edizioni critiche, che da qualche tempo vengono predisposte con crescente frequenza, a quelle offerte ai devoti per cogliere immediatamente il problema e per accettare — almeno in tesi — l’ipotesi di soluzione che mi sono permesso di avanzare schierandomi non solo «dalla parte del lettore», ma anche «dalla parte dell’autore», certo delle intenzioni del curatore e dell’editore, quindi della loro benevola attenzione.
Giovanni Cantoni