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“Armenia, il popolo dei tre laghi e delle mille chiese: dall’autonomia negata al silenzioso sterminio”

2 Maggio 2021 - Autore: Alleanza Cattolica

Di Antonia Arslan da Il Corriere del 24/04/2021

Armenia: un Paese lontano, nelle nebbie mediorientali, situato in una regione vaga e indefinita. Quando cominciai a occuparmi seriamente del Paese d’origine di nonno Yerwànt e della tragedia del genocidio, mi capitarono curiose confusioni di nomi, di luoghi e di tempi, fino a trovarmi, una volta, invitata a parlare di un… «poeta rumeno», che poi era Daniel Varujan, armeno, assassinato nell’agosto 1915.

Sembra incredibile, ma dei massacri armeni durante la Grande Guerra, delle stragi di cui tanto si era scritto e parlato fino al Trattato di Losanna del 1923, nei settant’anni successivi si era perso il ricordo, e perfino il nome. Non a caso Hitler, programmando la soluzione finale ebraica, dichiarò candidamente: «Chi si ricorda oggi dei massacri degli armeni?». Ma oggi, il nome appropriato da usare è quello di genocidio, applicando il termine che inventò il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin solo nel 1944, ragionando sul tragico destino, prima degli armeni e poi — vent’anni dopo — degli ebrei.

Era invece ben conosciuto, nell’antichità, il popolo degli armeni. Insediatosi almeno dal VII secolo a. C. sul grande altopiano che ha al centro il biblico Monte Ararat e intorno tre grandi laghi di montagna (Van, Sevan e Urmià), aveva costituito un regno importante, che ebbe varie vicende di lotte ed alleanze coi regni vicini e fu poi alleato di Roma; raggiunse la massima estensione sotto Tigrane il Grande, il cui impero (primo secolo a. C.) arrivò fino alla Siria e alla Palestina. Le fortezze delle grandi famiglie di feudatari — di cui ancora qualche solitaria muraglia resiste qua e là per gli altopiani — punteggiavano il vasto territorio; gli arcieri armeni erano noti quasi come i Parti per la loro abilità e precisione. La capitale, Ani «dalle 1001 chiese», ancora esibisce gli orgogliosi resti del suo passato splendore, in una landa desolata vicino all’attuale frontiera turco-armena.

Il regno armeno crolla nell’XI secolo, sotto i colpi congiunti dei bizantini da Occidente e delle tribù mongole da Oriente; e nonostante la precaria esistenza per un paio di secoli del piccolo regno di Cilicia, affacciato sull’Egeo verso l’isola di Cipro, da allora in poi gli armeni, pur riuscendo a conservare una forte identità linguistica, culturale e religiosa, perdono ogni indipendenza: e con la caduta dell’Impero bizantino nel 1453 diventano una delle minoranze riconosciute (millet) di quello ottomano. Le millet avevano una certa autonomia interna, ma erano sempre alla mercé del volere (o del capriccio) dei sultani: e se da un lato la comunità di Costantinopoli (dominata dai cosiddetti amirà, dalla parola araba emiro) per tutto l’Ottocento ebbe larga influenza a corte, dall’altro la decadenza dell’Impero (chiamato il malato d’Europa dalle potenze europee) portò al desiderio di autonomia delle minoranze cristiane (armeni, greci, siriaci) e viceversa all’affermarsi di movimenti nazionalistici come quello dei Giovani Turchi, che presero il potere nel 1908, esautorando di fatto il sultano.

Nel corso dell’Ottocento, molti dei popoli soggetti agli ottomani avevano conquistato l’indipendenza: greci per primi, poi rumeni, bulgari, balcanici… ma la madrepatria degli armeni si trovava nel Caucaso e nell’est dell’Anatolia, all’interno — non all’esterno, purtroppo per loro — del territorio abitato dalla maggioranza turca. Fu contro gli armeni che il rancore profondo per la crisi dell’impero trovò uno sbocco micidiale e funesto, cui contribuirono le teorie nazionaliste importate dall’Europa. Fu allora elaborato un progetto genocidario, messo a punto dagli ideologi del partito negli anni dopo il 1913 in riunioni segrete, i cui capi furono i tre artefici del genocidio: Talaat Pasha, ministro degli Interni e abile organizzatore dei massacri e delle deportazioni, attraverso l’uso frenetico e continuato dei nuovi strumenti di comunicazione con le province, come telegrafo e telefono; Enver Pasha, ministro della Guerra fieramente filogermanico; Djemal Pasha, ministro della Marina e capo dell’armata di Siria.

Lo scoppio della Prima guerra mondiale fu l’occasione aspettata. L’Impero ottomano entrò in guerra nel novembre 1914, a fianco degli Imperi Centrali; e subito dopo cominciò silenziosamente e con crescente efficacia l’attuazione del progetto, che divenne palese con il disarmo dei soldati armeni, inviati a morire in «battaglioni di lavoro», e con la «Grande Retata» dell’élite armena nella capitale, iniziata nella notte fra il 23 e il 24 aprile 1914: migliaia dei più importanti esponenti della comunità (poeti, scrittori, giornalisti, medici, farmacisti, uomini politici, uomini d’affari…) vennero imprigionati e nei mesi successivi eliminati senza strepito.

Il resto, purtroppo, è la storia del genocidio.

Foto da articolo

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