La capacità di esprimersi in modo appropriato sembra crollare nonostante il pressoché totale livello di alfabetizzazione. Impariamo nuove parole e ne perdiamo molte di più. È solo una questione da letterati?
di Stefano Chiappalone
Talora si confonde il ben (e bel) parlare col mero “non dire le parolacce”, forse riducendo l’eloquenza a educazione civica. Il che sarebbe perlomeno semplicistico, considerando l’uso letterario del turpiloquio per opera di Dante Alighieri (1265-1321) – vedasi, per tutti, Inferno, XVIII, 116) – e senza scomodare l’«apostolato delle parolacce» che san Josemaría Escrivá de Balaguer (1902-1975), per così dire, ha “sdoganato” in Cammino (n. 850). Il punto è un altro ed è colto col consueto acume dallo scrittore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994): «Una grammatica insufficiente è la premessa di una filosofia confusa».
L’aforisma gomezdaviliano cade a proposito constatando la diffusa incapacità di esprimersi correttamente, nonostante la quasi totalità della popolazione abbia imparato a “leggere, scrivere e far di conto”, come si diceva un tempo. È facile prendersela con la signora repentinamente salita alla ribalta (e altrettanto repentinamente obliata), per aver detto che «Non ce n’è coviddi» (sic!). O con quel politico, unus ex pluribus peraltro, che dopo l’esplosione a Beirut della scorsa estate aveva mandato «un abbraccio ai nostri amici libici». Osserviamo il modo in cui ci esprimiamo noi stessi, che dopo decenni di scuola dell’obbligo, dopo aver passato in media 13 anni sui banchi (qualcuno in più per chi è andato all’università) finiamo poi per articolare un linguaggio non tanto diverso dai suddetti. Agli orgogliosi che vantano la superiorità culturale della nostra generazione consiglio un salto in soffitta a recuperare le vecchie cartoline di nonni e prozii. Lasciando per il momento da parte la calligrafia meravigliosamente “cesellata” con cui i nostri antenati scrivevano lettere dal fronte o messaggi d’amore, rallegriamo lo sguardo anche con le poche ma eleganti parole che si scambiavano. Quei piccoli, domestici “capolavori” emanano una dignità quasi letteraria in confronto al nostro messaggiare a brandelli, a frasi sconnesse dove manca sempre un verbo o un complemento (si vedano i commenti sui social per averne un cospicuo “bestiario”), alla palese estinzione del congiuntivo e all’impercettibile scomparsa delle forme di cortesia – per esempio, perché dare automaticamente del “tu” sui social a un settantenne cui, de visu, mi rivolgerei senza dubbio utilizzando il “lei”? Il venir meno della lingua italiana (quella «del bel paese là dove ‘l sì suona», citando ancora il Sommo Poeta: Inferno, XXXIII, 80) non va neanche a beneficio dei dialetti, rimpiazzati semmai dalla loro parodia post-moderna: dalla letteratura al cinepanettone.
Eppure, si direbbe che quantitativamente siamo avanti: per comunicare utilizziamo tecnologie così avanzate che neanche noi avremmo sognato vent’anni fa; ogni anno entrano nell’uso comune parole mai usate soltanto pochi anni o mesi prima. Per esempio, negli anni ‘90 nessuno sapeva cosa fosse lo «smartworking», mentre nel 2020 anche la nonna ha imparato a dire «lockdown». Ci siamo riempiti di anglicismi e – soprattutto – “televisismi”, dimenticando, però, tutto il resto. C’è il serio rischio che iniziando la lettura de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni (1785-1873) ci si arresti già nel primo capitolo «al confluente, per dir così, delle due viottole»; o di abbandonare al suo destino la leopardiana «donzelletta»: faccia pure «siccome suole»!
Se l’obiettivo è soltanto imparare a leggere, scrivere e far di conto, non servono 13 anni sui banchi, ne basterebbero un paio. Se invece vogliamo immergerci nella cultura di cui restiamo figli, non basta una vita. L’impoverimento linguistico non è solo questione da letterati. È il venir meno della “culla” culturale in cui siamo venuti al mondo ed è l’ennesimo capitolo di quel tribalismo di ritorno di cui deploriamo le conseguenze, stando però bene attenti a non alzare mai “l’asticella”, non si sa mai che qualcuno si spaventi…
La storia tramanda alcune azioni dimostrative – la più celebre delle quali fu opera del poeta Gabriele D’Annunzio (1863-1938) – consistenti nel lanciare volantini da un aereo in volo. Più modestamente io sogno un lancio di vocabolari. L’impatto è garantito.
Sabato, 24 ottobre 2020