I prezzi delle materie prime energetiche, gas in primis, rimangono decisamente elevati e volatili, con ricadute inevitabili sui prezzi alimentari. Sotto stress i bilanci delle famiglie e delle aziende energivore, con rischi crescenti di fallimenti e di forti rialzi della disoccupazione. La sicurezza energetica e alimentare, non l’agenda green, dovrebbe essere la priorità politica, negli Usa e ancor di più in Europa, in specie in Germania e Italia. Dovrebbe
di Maurizio Milano
Dalla primavera-estate 2021 si è accesa l’inflazione, in aggravamento con l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022: una “esternalità” imprevista che ha dato fuoco alle polveri. Parlare, come ha fatto il presidente statunitense Joe Biden, dei rincari dei prezzi in termini di “tassa Putin” è, però, cercare un facile capro espiatorio per un problema ben più ampio, evidente già pre-guerra (qui e qui). Al di là dello spot elettorale, in prospettiva delle elezioni di novembre di metà mandato, il varo della legge “contro l’inflazione” dell’amministrazione statunitense lo scorso 16 agosto (Inflation Reduction Act of 2022) rischia paradossalmente di aggravare le dinamiche inflazionistiche, perché persegue una riduzione del deficit aumentando, però, l’imposizione fiscale e la spesa pubblica per finanziare l’industria green. La guerra – con le annesse sanzioni occidentali contro la Federazione Russa e le inevitabili ritorsioni sulle forniture energetiche russe di gas all’Europa, da cui dipendono in modo significativo Germania e Italia – si è quindi aggiunta a un problema le cui radici profonde sono di natura politica, e tutte anteriori al conflitto.
L’esplosione dell’inflazione, in tutto il mondo e non solo in Europa, è infatti il risultato di gravi errori di politica monetaria, fiscale ed energetica, compiuti negli anni passati. E poi è arrivata la guerra.
1. Politica monetaria.
La prima responsabilità è da attribuire alle politiche monetarie ultra-espansive attuate dalle principali Banche centrali del mondo – solo formalmente indipendenti dai rispettivi governi – e alla conseguente esplosione degli impieghi, stimolati dalla liquidità facile, effettuati dal sistema delle banche commerciali a riserva frazionaria. L’“inflazione”, intesa nel senso comune del termine, è solo l’effetto visibile del processo meno evidente di espansione monetaria che è l’“inflazione” in senso proprio, la causa remota: se vogliamo rimuovere gli effetti – il rialzo dei prezzi – dobbiamo prima rimuoverne le cause – l’espansione monetaria ad libitum del denaro fiat, non legato cioè a nessun asset tangibile. L’espansione della massa monetaria “M2”, che esprime una stima della liquidità globale, negli ultimi vent’anni è stata davvero impressionante: in termini di dollari Usa, si passa dai 15-20 mila miliardi a inizio secolo ai circa 40mila miliardi durante la Grande Crisi Finanziaria del 2007-2009 e agli 80mila miliardi pre-CoViD, fino ad arrivare, con una crescita esponenziale durante l’epidemia CoViD, ai circa 100mila miliardi attuali. Una crescita senza controllo, accentuata ulteriormente durante i lockdown, che ha determinato una vera e propria “finanziarizzazione dell’economia”, con una discrasìa crescente tra le dinamiche finanziarie e le dinamiche reali.
La manipolazione al ribasso dei tassi ha creato negli ultimi lustri delle distorsioni importanti sul settore immobiliare e sui mercati finanziari, gonfiando le Borse e facendo esplodere la massa del debito globale, pubblico e privato (pari a circa 3,5 volte il Prodotto Interno Lordo mondiale). Dalla primavera 2021 le dinamiche inflazionistiche hanno iniziato a trasmettersi ai prezzi alla produzione e al consumo, mentre è iniziata a sgonfiarsi la bolla obbligazionaria e azionaria. Il chair della Federal Reserve statunitense, Jerome Powell, nell’incontro annuale dei banchieri centrali del mondo (Reassessing Constraints on the Economy and Policy), tenutosi lo scorso 26 agosto a Jackson Hole, in Wyoming, ha ribadito la priorità del contrasto all’inflazione, senza fare però mea culpa sugli errori passati. In tale contesto, lo scorso anno, un semestre prima all’inizio del conflitto in Europa, aveva invece definito l’inflazione, seppure già al di sopra del 4% annuo, come un fenomeno “transitorio”, che si sarebbe aggiustato automaticamente. Mai previsione fu più errata, visto che ora il livello ufficiale di inflazione è a ridosso del 9% negli Usa, sui massimi degli ultimi 40 anni, e probabilmente quello effettivo sui beni più necessari è già a due cifre, come accade anche in Europa. Ma non si è trattato di un “errore” di valutazione: le autorità monetarie, infatti, perseguono da anni strategie inflazionistiche, con l’obiettivo di tassi reali (= tassi nominali – inflazione) negativi di pochi punti, in modo da potere mantenere i tassi nominali su livelli molto bassi e rendere poco evidente, quindi più “accettabile” socialmente, il processo di abbattimento dei debiti in termini reali a scapito dei creditori/risparmiatori. Quando i prezzi “finalmente” hanno iniziato a salire, le Banche centrali per molti mesi hanno fatto dichiarazioni rassicuranti, definendola l’inflazione come “transitoria”: il gioco si è rotto quando i prezzi hanno iniziato a salire in modo esplosivo, costringendo le Banche centrali a riconoscere per lo meno l’esistenza del problema, anche se non la causa profonda, di cui sono le prime responsabili.
Ci troviamo all’interno di uno straordinario trasferimento di ricchezza, dai creditori ai debitori, in cui il conto lo pagano i risparmiatori e i titolari di redditi fissi, in specie salari, stipendi e pensioni. Le Banche centrali si trovano in un cul de sac: al di là di alcuni rialzi dei tassi nominali di interesse e delle dichiarazioni ufficiali di presunto rigore, non potranno davvero alzare troppo i tassi e tantomeno ridurre sensibilmente i propri bilanci, pena l’inizio di un crash dei mercati finanziari e conseguente collasso economico. I rendimenti reali rimarranno quindi negativi, per scaricare nel tempo l’inevitabile sgonfiamento delle bolle create con le proprie politiche ultra-espansive. Per diversi anni a venire avremo verosimilmente sia stagnazione/recessione , sia la cosiddetta “stagflazione”, ulteriore conferma empirica della fallacia delle teorie keynesiane e neokeynesiane fino alla Modern Money Theory, in gran voga nei mesi precedenti all’esplosione dei prezzi: ora non ne parla più nessuno, e pour cause. Si spera sia la fine definitiva dell’illusione di “creare” ricchezza ex-nihilo manipolando la quantità di denaro immessa nel sistema. La pretesa di gestire politicamente le dinamiche monetarie, finanziarie ed economiche, ottimizzando chirurgicamente il presunto trade-off tra inflazione e disoccupazione, è un mito già smentito dalle precedenti crisi energetiche degli anni ‘70 del Novecento: nella realtà, un rialzo dell’inflazione non fa scendere la disoccupazione, provoca solomarcati trasferimenti di ricchezza e pesanti effetti distorsivi a livello economico e finanziario.
2. Politica fiscale.
I Governi sono direttamente responsabili dell’espansione della spesa pubblica in deficit, in forte accelerazione post-CoViD, con “ristori” stanziati per rimediare – in modo comunque parziale e tardivo, ancorché costosissimo per i contribuenti – ai gravi danni al settore produttivo e distributivo da loro stessi provocati con la strategia ideologica dello zero-CoViD, perseguita con lockdown rigidi e indiscriminati. Le politiche fiscali dei governi hanno contribuito a incrementare artificialmente la domanda (già stimolata dall’iper-liquidità), dopo avere strozzato l’offerta con i lockdown, ottenendoquel fenomeno denominato supply chain disruption, cioè la frammentazione delle filiere produttive e distributive. Come ben spiegava l’economista statunitense Milton Friedman (1912-2006), «l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario», esito inevitabile del «too much money chasing after too few goods», cioè «troppo denaro alla caccia di troppi pochi beni». La ripresa dell’attività economica a partire dalla primavera del 2021, con disponibilità di denaro accresciuta e disponibilità di beni ridotta dai precedenti lockdown, non poteva che far impennare i prezzi.
La responsabilità dell’inflazione ricade quindi principalmente sulle politiche monetarie e fiscali degli Stati, moderni “falsari” che manipolano il valore del denaro e lo redistribuiscono secondo logiche politico-clientelari, andando così a distorcere le scelte di consumo, risparmio e investimento, alterando i cicli economici e finanziari, provocando fasi artificiali di boom seguite da fasi di bust, di recessione. Le conseguenze sono ora sotto gli occhi di tutti, ed è comprensibile che le Banche centrali e i governi cerchino di scaricare le proprie responsabilità su eventi esogeni, come il conflitto in Europa.
3. Politiche energetiche.
Un ulteriore tassello è poi costituito dalla folle transizione ecologica in atto, che sarebbe più corretto denominare transizione ideologica: un vero e proprio suicidio per il sistema industriale, in specie in Europa. Da diversi anni si è diffusa nel mondo occidentale l’ideologia del catastrofismo ecologista, che ha spinto le agende politiche ai vari livelli – Onu, amministrazione Usa, Commissione europea – a varare politiche industriali irrealistiche negli obiettivi, nei tempi e nei modi. Ben prima dello scoppio della guerra, Bill Gates aveva parlato dell’extra costo connesso alla transizione verso le energie rinnovabili, definendolo col termine di «green premium», «premio verde», ipotizzando 5mila miliardi di dollari Usa di costi aggiuntivi su un’economia globale che vale circa 80mila miliardi di dollari (dati annui): un costo necessario, secondo Gates, per evitare catastrofi di dimensioni bibliche. Mentre in Europa si chiudevano le centrali nucleari e quelle a carbone, interrompendo le ricerche di giacimenti di gas e petrolio, e si accelerava per sostituire gli idrocarburi con investimenti faraonici, pagati dai contribuenti, nelle energie rinnovabili (solare, eolico, idroelettrico) – dipendenti dalle condizioni meteorologiche – il mix energetico diveniva sempre più sbilanciato e dipendente dalle importazioni di idrocarburi, in particolare il gas naturale, a basso costo ma proveniente da Paesi politicamente a rischio come la Federazione Russa, l’Algeria e l’Azerbaijan. L’Europa e, in particolare, le grandi economie manifatturiere tedesca e italiana, hanno visto così diminuire progressivamente la propria sicurezza energetica, illudendosi che la transizione green avrebbe consentito di beneficiare in tempi rapidi di energia abbondante, pulita e a basso prezzo: così non poteva essere e così non è stato.
4. Un conflitto ad alta intensità in Europa.
Incomprensibile come tali politiche irrealistiche non siano state riviste neppure dopo l’invasione della Crimea da parte della Russia nel 2014, anno vero dell’inizio della guerra in Europa. Incomprensibile anche l’attuazione di sanzioni sempre più stringenti alla Federazione Russa dal mese di marzo 2022 senza previamente predisporre, a livello di Alleanza atlantica, un preventivo piano di gestione delle inevitabili ritorsioni russe sull’export di gas. Come ha osservato Paolo Scaroni, ex-Ceo di Eni ed Enel, era ovvio che la Russia avrebbe usato il gas come un’arma, e il tentativo dei Paesi del G7 di imporre un cap (tetto massimo) ai prezzi del gas russo si è infatti scontrata col nuovo stop al gasdotto Nord Stream 1 col pretesto, avanzato da Gazprom, di problemi tecnici e di riparazioni rese difficili proprio in conseguenza delle sanzioni occidentali. Non è verosimile che si possa ottenere un consenso “globale” per attuare le politiche di cap sui prezzi, che rimangono quindi inefficaci. Nei mesi passati le carenze di gas russo hanno spinto ad aumentare le importazioni di gas naturale liquefatto dagli Usa, con costi marcatamente più elevati del gas russo, portando al risultato paradossale, evidenziato da Scaroni e dalla Marcegaglia, che nel braccio di ferro con Putin gli Usa ci guadagnano: sia per le accresciute esportazioni di gas in Europa a prezzi molto vantaggiosi (per loro), sia per le pesanti ricadute in termini di competitività per le industrie europee. Tra i Paesi Nato che beneficiano della situazione di prezzi alle stelle c’è anche la Norvegia, che sta aumentando sensibilmente le proprie esportazioni petrolifere in Europa. Su questo punto, Scaroni afferma che sarebbe sensato ridefinire i prezzi in modo che i “costi” della politica Nato di contenimento dell’espansionismo russo non ricadano solamente sulle spalle di pochi Paesi, ma sull’intera alleanza. La Norvegia, però, non ha finora dimostrato “sensibilità” sul tema: l’ennesima conferma che nelle crisi ognuno pensa solo a sé stesso. La crescente globalizzazione economica degli ultimi 30 anni, a partire dall’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991, aveva favorito quella lunga stagione di “grande moderazione” dei prezzi alla produzione e al consumo da cui siamo usciti forse definitivamente. La riduzione dell’interconnessione economica mondiale, causata da gravi destabilizzazioni geopolitiche, che rischiano di evolvere verso un multipolarismo caotico, contribuirà anch’essa a spingere all’insù il tasso di inflazione.
A fronte di un quadro di questo tipo, stupisce quindi la pervicacia della Presidente della commissione europea, Ursula von der Leyen, che vorrebbe accelerare ancora sulla transizione energetica verso le rinnovabili, senza rendersi conto che i tempi per rendersi indipendenti dal gas russo si misurano in anni, che noi non abbiamo: al momento in Europa non c’è la certezza di avere scorte a sufficienza neppure per affrontare serenamente il prossimo inverno, soprattutto se si rivelasse più rigido del previsto. La pretesa, poi, di definire delle restrizioni ai consumi di corrente (e magari di gas), imponendole d’autorità ai Paesi membri, si configura come una scelta da super-Stato, che prima crea i problemi, o comunque li aggrava, e poi interviene regolando, tassando e sanzionando. Stiamo attraversando la peggiore crisi energetica degli ultimi 50 anni e le politiche industriali adottate dai governi, in particolar modo in Europa, stanno rendendo l’energia più scarsa, meno affidabile e più costosa, per di più alla vigilia della stagione fredda. Lo stesso sta accadendo per la filiera alimentare, con le restrizioni ai fertilizzanti e agli allevamenti in Olanda – uno dei principali Paesi esportatori di beni alimentari al mondo – con l’obiettivo di ridurre le emissioni di azoto e ammoniaca.
In cima all’agenda politica europea dovrebbe esserci, in questo momento, la sicurezza energetica e alimentare, senza farsi accecare dall’ideologia: se si vuole evitare il collasso industriale di economie manifatturiere, come quella tedesca e italiana, e le gravi conseguenze sociali che ne deriverebbero, occorre dotarsi di un mix energetico adeguato, sia in termini di tipologie di fonti, sia come ventaglio di Paesi di approvvigionamento, e a prezzi compatibili con la competitività del mondo industriale e delle disponibilità delle famiglie. Imprese e famiglie già duramente colpite dalle politiche di lockdown. Pensare di affidarsi in misura crescente a flussi da Paesi come l’Iran o il Venezuela significherebbe gettare i semi di dipendenze assai imprudenti, esponendosi così a nuovi ricatti futuri. Infine, è un bene risparmiare, ma pensare di gestire la situazione puntando solo sull’austerity, spegnendo i condizionatori in estate e abbassando i termosifoni in inverno, è sicuramente velleitario: tagliare i consumi e gli sprechi potrà aiutare il bilancio familiare e far scendere le emissioni di Co2, ma è del tutto inadeguato per le esigenze del sistema industriale europeo. Per non parlare dei ventilati lockdown, questa volta non più sanitari ma energetici, che andrebbero a prorogare ancora quello “stato di eccezione” continuo post-CoViD che ci porterà a una decrescita assai poco felice, con la “fine dell’era dell’abbondanza” vaticinata dal presidente francese, Emmanuel Macron. Per un’eterogenesi dei fini, le politiche ideologiche green potrebbero poi avere, paradossalmente, degli effetti negativi anche sull’ambiente. Ad esempio, il divieto europeo alla produzione di autovetture endotermiche a partire dal 2035, per sostituirle con automezzi elettrici – le tempistiche e i costi sono irragionevoli e porteranno inevitabilmente a rinvii – scoraggia gli investimenti dell’industria per rendere più efficienti e puliti i motori attuali: il meglio è nemico del bene, anche in ecologia. I governi mantengono, però, ben dritta la barra del green, costi quel che costi (al contribuente e al consumatore), creando così scarsità e puntando sui sussidi pubblici per tenere in piedi il sistema: si pensa a nuovi “ristori”, che contribuirebbero ad alimentare il debito e l’allargamento del perimetro di intervento degli Stati dalla crisi sanitaria alla crisi energetica, come paventato. Date le premesse, ci sono quindi le condizioni per un proseguimento delle forti dinamiche inflazionistiche per anni a venire, con un’ulteriore contrazione della classe media e un’avanzata degli Stati. La sostenibilità green è insostenibile e urge invertire tendenza: «non c’è più tempo», direbbe l’attivista svedese Greta Thunberg.
Venerdì, 16 settembre 2022