Una elezione la si può pure perdere ai punti contro un virus, ma ai virus non si può certo concedere la storia.
di Marco Respinti
Attenzione, quando scrivete, a non dare per definitiva la vittoria elettorale di Joe Biden. Il monito mi giunge da persona di cui, per una serie di motivi, non sono tenuto a rivelare l’identità, ma che (fidatevi) è “informata dei fatti”, e molto. E la cosa va presa sul serio, perché ha un rilievo legale. Per due motivi. Il primo è che è in corso, come tutti sanno, una vertenza giuridica articolata e seria. Il secondo è che ha perfettamente ragione Biden.
Non sono infatti né Donald J. Trump né Biden ‒ come Biden ha detto il 3 novembre ‒ a stabilire chi vinca le elezioni. Lo fa il voto. Il voto però (in una repubblica federale non giacobina dove non vige la democrazia diretta quali sono gli Stati Uniti d’America) degli Stati che compongono l’Unione, ovvero, da Costituzione, il Collegio elettorale composto da quei “delegati” che il popolo ha scelto con il proprio voto appunto Stato per Stato. E questo il 3 novembre Biden ha scordato di dirlo, come il fatto che il Collegio elettorale il proprio voto lo esprimerà, dice sempre la Costituzione, il lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre, ovvero, quest’anno, il 14. Non è dunque che Trump “non abbia concesso la vittoria” a Biden, è che la Costituzione gli impedisce di farlo. Al netto di proiezioni pure ben fatte, è un fatto tra i molti scordati: un fatto sostanziale, davanti ai ricorsi di quest’anno.
Ora, vi è la probabilità che il 14 dicembre il Collegio elettorale assegni la vittoria al male. Cioè al CoViD-19. Se quel giorno, infatti, i «Grandi elettori» non consegnassero a Trump il secondo mandato presidenziale, a vincere sarà stato il nuovo coronavirus. Siccome la storia è il teatro delle volontà, si fa pure con i “se” e con i “ma”. Se dunque il CoViD-19 non ci avesse messo la coda, e l’humus per chi sogna il «Grande Reset», Trump avrebbe vinto facile contro l’estremismo incolore di Biden e i colori estremisti di Kamala Harris. Per mesi Trump è stato dipinto come un Barbablù negazionista qualsiasi cosa dicesse sul serio su quel male, e pure al netto di qualche passo falso che può pure avere commesso. Perché il punto vero è che Trump ha fatto di tutto per non uccidere un Paese chiedendosi a che serve salvare gli americani da un virus per ucciderli per fame. E così, il virus che in Italia tiene in piedi un governo impopolare, negli Stati Uniti potrebbe finire per sconfiggere un presidente popolare.
Al netto del virus, infatti, l’economia americana veleggiava con il vento in poppa, garantendo benessere diffuso e riducendo al minimo storico la disoccupazione. È stato lì che la macchina da guerra propagandistica dei suoi nemici ha cominciato a martellare parossisticamente gli elettori con la caricatura del Trump untore. Qui forse uno dei due Trump che abitano il corpo di “The Donald” (quello imperdonabilmente sbruffone, che proprio a volte non ce la fa a tacere) ne ha sottovalutati sfida e mesmerismo su metà (al netto di brogli possibili) degli elettori che si sono espressi. Non però sugli altri 70 milioni che hanno votato ai seggi, certificando la propria identità, i quali si sono accorti della realtà anche nel fumo acre e spesso dei lacrimogeni lanciati senza soluzione di continuità dalla Sinistra (media, social, forze politiche, big money). E nelle ultime settimane l’economia, cioè il benessere per tutti, ha pure preso a risalire. Ciò detto, se il 14 dicembre le elezioni le vincesse il virus, comincerà il dopo-Trump, un “dopo” fatto almeno di tre elementi.
Primo, il Congresso federale, cioè l’organo legislativo. Alla Camera i Repubblicani hanno assottigliato la distanza sui Democratici con personale di ottima fattura e al Senato è assai probabile che conservino la maggioranza. Di certo però c’è già che fra i Repubblicani rieletti ci siano anche Lindsay Graham e Mitch McConnell, rispettivamente il chairman del Senate Committee on the Judiciary (informalmente detto «Senate Judiciary Committee») e il capogruppo della maggioranza, due assi fenomenali. In specifico, McConnell è il “mastino” che si nutre di pane e regolamenti senza mai mollare, uno degli “unsung hero” delle vittorie recenti dei Repubblicani al Congresso.
Qui c’è poi un paradosso virtuoso. Se i Repubblicani conserveranno la maggioranza nella “Camera alta” del prossimo Congresso sarà dovuto anche alla rielezione, nel Maine, di Susan Collins, una delle due “mele marce” (l’altra è Lisa Murkowski, in rappresentanza dell’Alaska) che ancora persistono in quel partito al Senato, essendo nemica dei princìpi non negoziabili. Ci si può lamentare che il partito non abbia trovato di meglio in loco, ma di fatto la sua presenza in aula, in caso di maggioranza, contribuirà a dare ai Repubblicani quel vantaggio che permette per default di avere pure la maggioranza in Commissioni chiave come quella sulla Giustizia, dove, non facendone parte, la Collins non può fare danni. Per di più spesso la senatrice del Maine fa la voce grossa, ma alla fine si allinea al voto dei colleghi migliori. Ebbene, un Senato Repubblicano metterebbe il più possibile i bastoni fra le ruote al governo Biden-Harris su ministri, giudici federali e blocco delle leggi.
Il secondo elemento sono le elezioni «di medio termine» con cui, l’8 novembre 2022, gli Stati Uniti rinnoveranno ancora una volta tutta la Camera federale e un altro terzo del Senato. I Repubblicani sanno di dover puntare a quel traguardo da subito sul filo di un altro paradosso: a volte è meglio perdere la Casa Bianca e contare su un buon Congresso per scrivere buone leggi fermando le cattive. Potrebbe quindi succedere che Biden e la Harris finiscano per governare di fatto solo due anni, e questi due con “mastino McConnell” alle costole. E un successo nel 2022 preparerebbe meglio il 2024 delle prossime presidenziali.
Il terzo e ultimo elemento si innesta qui. Trump, l’ex rottamatore pentito dei Repubblicani, ha finito, consciamente o meno, per aiutare il conservatorismo dei valori e dei princìpi in politica. Sarà adesso capace di tenere a bada il Trump ingombrante dei due che abitano “The Donald” senza tornare lo sfascista che era? Sarà capace di passare da businessman prestato alla politica a uomo della politica che conta che non è il politichese? Saprà rendere storia il bene che ha fatto o lascerà questo testimone ad altri, magari sbattendo la porta, facendo volare gli stracci e scagliando i piatti?
Si candiderà ancora nel 2024, come ha sussurrato? Saprà eventualmente farlo con quei compagni di strada cui si è voluto appoggiare guadagnandone poi il plauso o romperà tutto giocando da libero per un terzo partito indipendente? E a quel punto quei conservatori che esistono oltre il Partito Repubblicano seguiranno lui o i Repubblicani? E nascerà un nuovo partito conservatore fatto di trumpiani ed ex Repubblicani convinti più dal conservatorismo che dal partitismo?
Insomma, visto che gli uomini sono tanto grandiosi nel costruire cose sublimi, quanto rapidi a smontare tutto, Trump finirà per essere il colosso dai piedi di argilla che i Democratici si augurano o il revenant che li metterà ancora all’angolo? Una elezione, infatti, la si può pure perdere ai punti contro un virus, ma ai virus non si può certo concedere la storia.
Lunedì, 9 novembre 2020