Da Il Nuovo Anestesista Rianimatore di Settembre 2018. Foto da ilsole24ore.it
Sul nostro periodico numero 3 Maggio-Giugno 2018 è stato pubblicato uno “Speciale” (nell’ambito delle pagine dedicate al Meeting SAQURE durante il quale si è svolto un importante confronto sul tema ndr) sulla Legge 219/2017 che, nel complesso, viene dipinta come un’ottima legge sull’autodeterminazione e un importante passo avanti per regolamentare il fine vita. Vengono fatti alcuni cenni a zone “d’ombra”, ma nel complesso viene elogiato un testo che dovrebbe rappresentare il compimento di un percorso di crescita culturale. Penso valga la pena fare qualche riflessione su tali solo accennate “ombre”, anche considerato il fatto che molti colleghi medici, anche di rilievo nazionale, hanno a loro volta espresso criticità su un testo di legge che, di fatto, legittima e garantisce anche l’autodeterminazione per la morte. Proverò ad entrare nel vivo della Legge per sviluppare le zone d’ombra.
• L’ Articolo 1 riguarda il “Consenso informato”. Il CI è già previsto dal CD (2014) agli articoli 35 e 36 ed esiste in Italia da anni. È stato molto strumentale che nello stesso disegno di legge si sia parlato di CI e di DAT, considerato che il CI non ha nulla a che fare con le DAT. E quando si tratta di una legge che determina il fine vita, non è cosa banale da sottolineare. Difatti il consenso, per essere valido, deve avere tre caratteristiche: essere informato, chiaro ed attuale. L’elemento dell’attualità è fondante per un CI valido, significa che io posso scegliere nel momento in cui io ho il problema. Un conto è immaginare e un altro è vivere sulla propria pelle: il coinvolgimento emotivo per autorizzare o rifiutare un trattamento o una procedura diagnostica è diverso nel momento in cui godiamo di buona salute e immaginiamo che ci capiti “qualcosa” da quando quel “qualcosa” ci capita veramente. Il coinvolgimento attuale della persona è fondante per un CI valido. Nella pratica clinica quotidiana non abbiamo mai fatto firmare un CI in anticipo nell’ottica che tra qualche anno al paziente possa capitare qualcosa. In questo primo Articolo della Legge si vuole trasmettere il messaggio che le DAT sono un CI dato in anticipo, un CI in cui la posta in gioco è niente di meno che la vita. Vista la gravità della materia, preferisco utilizzare una terminologia precisa e dire che le DAT non sono un vero e proprio CI, ma piuttosto possiamo definirle una dichiarazione “ora per allora”.
• L’Articolo 2 riguarda l’accanimento terapeutico. Non bisogna fare terapie futili, ma proporzionate ed appropriate. Non bisogna praticare l’accanimento terapeutico, in quanto esso non risponde ai criteri di proporzionalità della cura. Nessuna obiezione a tal riguardo. Tutto ciò è peraltro già scritto nel CD. D’altra parte non mi sembra che la nostra attività preferita sia fare accanimento terapeutico. E se ci viene il dubbio che stiamo sconfinando nell’accanimento, la prassi è di parlarne, di confrontarci ed eventualmente di interromperlo. Qualora venisse imboccato, involontariamente, il sentiero dell’accanimento è possibile tornare indietro. Quante volte ci è capitato di scrivere: “Ritengo che non vi sia spazio per ulteriori possibilità terapeutiche” o frasi simili e concordiamo con i familiari, se non è possibile col paziente, di intraprendere una terapia palliativa? Mi preme sottolineare che allo stato attuale delle cose alla base di tutto c’è sempre una valutazione medica che determina che il paziente non può più beneficiare delle terapie che possiamo mettere in atto: non è il paziente che ci impone di sospendere una terapia.
• L’Articolo 4 riguarda le Disposizioni anticipate di trattamento. Qui, cari colleghi, noi medici veniamo trasformati in meri esecutori delle volontà altrui. Anche il CD, all’art 16, dice: “ Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati ”, e all’Art 38 parla delle Dichiarazioni anticipate di trattamento in questi termini: “ Il medico tiene conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento espresse in forma scritta… ”. Quindi già nel nostro CD c’è scritto che se ci sono delle DAT (dichiarazioni e non disposizioni!) in forma scritta dobbiamo tenerne conto. E aggiungo: il Trattato sui Diritti umani e la Biomedicina, all’Art. 9, afferma che “ I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che al momento dell’intervento non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione ” (convenzione di Oviedo, 4 Aprile 1997/99; ratifica in Italia con Legge 145/2001). Ma nella legge 219/2017 vediamo che è stato cambiato il termine “ dichiarazione ” in “ disposizione ” facendo acquisire alle DAT un carattere vincolante. Tenere in considerazione i desideri non è vincolante ed è ben diverso dal dover rispettare una disposizione; le disposizioni sono infatti ordini. Perché non tornare a chiamarle dichiarazioni? Le DAT possono essere una giusta e legittima espressione di desideri, un elemento in più che abbiamo per decidere, ma sempre secondo scienza e coscienza. Non devono essere disposizioni vincolanti che si danno al medico. Il rischio è che le DAT possano realmente e concretamente prendere il sopravvento sulle nostre decisioni e noi divenire dei meri esecutori delle vincolanti “disposizioni” altrui. Dove finisce l’alleanza terapeutica tra medico e paziente? Sta forse cambiando il ruolo sociale del medico? I pazienti non hanno più fiducia in noi? Se fosse così, non è forse un fallimento per la classe medica?
• Dunque le DAT saranno disposizioni vincolanti per noi. Il comma 5 dell’Art 1 (Consenso Informato) ci dice che “Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici…” e comma 6: “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale ”. Ai fini di questa legge Nutrizione e Idratazione artificiali (per la verità sarebbe più corretto dire assistite) sono terapie, quindi di fatto sono rifiutabili. In realtà esse non sono terapie in senso stretto, perché non trattano una malattia, sono da considerarsi “cure vitali” che si somministrano a una persona disabile. Acqua e cibo, se somministrati per via artificiale, per questa legge diventano invece una terapia medica a tutti gli effetti, quindi possono configurarsi come accanimento terapeutico e, come tali, devono essere interrotte, provocando irrimediabilmente la morte del paziente. Io, e sono certa anche voi, non ho studiato per interrompere nutrizione e idratazione e veder morire un paziente dopo una tremenda agonia. Allora a questo punto cosa facciamo? Risolviamo il problema iniettando, contemporaneamente alla sospensione di idratazione e nutrizione, dosi mortifere di sedativi per abbreviare l’agonia della morte per fame e per sete? Perché sono sicura che nessuno vuole vedere morire un paziente disidratato dopo magari due settimane di agonia (come è
successo a Terri Schiavo). Questa però si chiama eutanasia. Con questa legge oggi, in previsione di potere in futuro aver bisogno di assistenza per idratarsi o nutrirsi, una persona può legittimamente scegliere che, in quel caso, preferisce farsi uccidere. E il medico deve attenersi a questa disposizione. E dove finisce la “scienza e coscienza” del medico? E se questa cosa andasse contro la mia coscienza? Sappiamo bene che in certi casi, se le condizioni cliniche di un malato, con determinate comorbidità, peggiorano, possiamo decidere che non c’è indicazione a intubare, a ventilare, a mettere le amine, a fare la dialisi, a ricoverare in terapia intensiva… perché ciò configurerebbe accanimento terapeutico; è anche legittimo, nelle situazioni terminali, rendere al paziente meno duro il fine vita con una sedazione palliativa. Ciò tuttavia è differente dal prendere una persona disabile, gravemente disabile, in condizioni di salute stabili, un brutto esito neurologico tanto per esemplificare – e farci dire: “l’esito è troppo brutto, grazie che ci avete provato, ma adesso non nutritelo e non idratatelo più perché queste erano le sue disposizioni, questa terapia lui non l’avrebbe voluta”. Spesso ci sono situazioni limite in cui non c’è un pieno e totale accordo anche fra di noi su quale sia la cosa migliore da fare, ed è normale perché non è certo un lavoro facile il nostro. La disposizione per legge di applicare le DAT, e sottolineo qualsiasi DAT, anche quella che prevede la sospensione dell’idratazione e della nutrizione, verrà a complicarci le cose. Ma quando mai voi avete scritto in cartella clinica: “Ritengo che non via sia spazio per proseguire l’idratazione e la nutrizione”? Quando si può configurare questa possibilità? Mai. Concludo – e perdonate se mi sono dilungata – dicendo che non sono assolutamente una vitalista a tutti i costi: morire è fisiologico e non penso che dobbiamo rimanere in vita per forza. Ed è anche lungi da me il desiderio di fare accanimento terapeutico, che è considerato all’unanimità un errore medico. Ma a questo fine la legge sulle DAT è del tutto inutile, non ce n’era veramente bisogno, bastava applicare il CD, dove tutto era già ben esplicitato. Se un medico applica accanimento terapeutico sta automaticamente sbagliando e contravviene al CD. Cosa diversa dal rifiutare l’accanimento terapeutico è il volere a tutti i costi decidere di voler morire e volerlo pretendere in anticipo, nell’ipotesi, o meglio nella paura, di poter divenire e rimanere disabili gravi nel futuro. E non perdiamoci in sterili discussioni sul dare senso e dignità alla vita della persona fino alla fine, considerato che ad oggi abbiamo la medicina palliativa e la terapia del dolore che ci consentono di gestire al meglio e umanamente il dolore cronico e il fine vita. Certo però questo non ci risolve il problema dello stato vegetativo e della disabilità in senso lato: è chiaro che la disabilità continua a farci paura, a tutti, anche a me. Ma io non proporrei mai a un disabile un aiuto per morire. E anche nella malaugurata ipotesi che fosse lui a chiedermi di mettere fine alla sua vita, vorrei aiutarlo a riprendersi, non ad ammazzarsi. Queste sono leggi che si reggono sull’emotività del “come si andrà a finire” e pongono le loro basi sulla paura: la paura di essere un peso e di fare compassione, ma la paura non aiuta mai a decidere con saggezza.
Dr.ssa Mariachiara Re