Uno spettro si aggira per l’Europa: l’inflazione. L’impatto peggiore è sulle bollette energetiche ma le tensioni si stanno scaricando, com’è inevitabile, anche sui prezzi al distributore e sul carrello della spesa. La Banca centrale europea continua a rassicurare, dicendo che si tratta di «effetti temporanei», o comunque non preoccupanti. Nel mentre, Bill Gates parla di «premio verde».
di Maurizio Milano
Tanto tuonò che piovve. Negli ultimi mesi, i prezzi di beni e servizi hanno iniziato a salire, sensibilmente: non soltanto quelli del gas naturale, a cui si devono principalmente i rincari, ma anche quelli di petrolio, carburante, metalli e materiali industriali, fino ad arrivare ai prodotti alimentari. La paventata ripresa dell’inflazione, trainata in particolare dai fortissimi rialzi delle materie prime energetiche, si è concretizzata nei rincari a doppia cifra delle bollette di gas e luce e si sta estendendo anche ai prezzi del carrello della spesa: negli ultimi mesi, il tasso annuo di inflazione è balzato oltre il 6% negli Usa, sui massimi da trent’anni, ed oltre il 4% nell’area euro, sui massimi dal 2008. Ma perché salgono i prezzi, a partire da quelli energetici? Le motivazioni sono molte.
Tra le cause remote, le politiche monetarie ultra-espansive delle Banche centrali che da oltre dieci anni inondano i mercati di liquidità creata ex-nihilo – in ulteriore fortissima accelerazione post-CoViD –, mantenendo compressi i tassi nominali di rendimento dei titoli governativi e perseguendo con accanimento il rialzo dell’inflazione, in modo da “svalutare” nel tempo, in termini reali, i debiti pubblici e privati fuori controllo.
Tra le cause prossime, le politiche fiscali espansive attuate dai governi per fronteggiare la crisi economica indotta dai lockdown generalizzati, che hanno provocato anche la cosiddetta supply-chain disruption, ovvero la frammentazione delle filiere produttive e distributive, con sensibili restrizioni e strozzature lato offerta, anche sulle forniture energetiche, con ovvie conseguenze sui prezzi: squilibri esacerbati dal contestuale incremento della domanda, artificialmente spinta dalle politiche monetarie e fiscali fortemente espansive oltre che dalla ripartenza delle economie dopo trimestri di sostanziale blocco.
A queste cause generali, valide pressoché ovunque nel mondo, si aggiungono in Europa delle motivazioni specifiche legate alle scelte di politica energetica degli anni passati, con investimenti insufficienti e senza adeguata diversificazione dei fornitori e delle fonti energetiche stesse. Scelte che hanno portato a una situazione di fragilità strutturale, esacerbata negli ultimi trimestri dalle tensioni con la Russia di Putin, nostro principale fornitore di gas. Tutto ciò ha spinto i prezzi del gas naturale liquefatto in Europa – seppur dimezzatosi rispetto ai picchi stratosferici di metà dicembre – ad assestarsi negli ultimi giorni su livelli ancora 3 volte superiori rispetto a quelli praticati negli Stati Uniti, da dove infatti stanno arrivando flotte di navi cisterna per rifornire il mercato europeo – ovviamente a prezzi sensibilmente più elevati rispetto a quelli praticati negli Usa, anche a causa degli elevati costi di nolo delle cisterne – ma in quantità comunque decisamente modeste rispetto al fabbisogno: ciò consente di calmierare solo un poco le tensioni, nell’immediato. L’evoluzione dei prezzi nei mesi a venire sarà condizionata prevalentemente dall’andamento delle temperature, che incideranno sulla domanda di energia per il riscaldamento: in altre parole, considerate anche le scarse scorte a disposizione, in Europa siamo in balìa del clima. Se la questione energetica non sarà affrontata in modo strategico, gli squilibri tra domanda e offerta rischieranno di divenire strutturali, con conseguenze davvero pesanti per famiglie e imprese “energivore”, i cui costi energetici rappresentano cioè una componente significativa del conto economico. Una ripresa stabile dell’inflazione, con contestuale rallentamento dell’attività economica, prospetterebbe scenari di “stagflazione” (“stagnazione + inflazione”) che non si sono più presentati dagli shock petroliferi degli anni ’70. Per tacere delle implicazioni geo-politiche, visto che l’indipendenza energetica dell’Unione Europea rappresenta un fattore importante di sicurezza e autonomia nei confronti di possibili ricatti da parte dei fornitori: viene da domandarsi perché tale aspetto non sia stato adeguatamente considerato nei piani di “sostenibilità” della Commissione Europea.
Insomma, le motivazioni delle tensioni sui prezzi degli ultimi mesi sono molte e connesse tra di loro, ma si può dire che si tratta di conseguenze di scelte politiche errate, non certamente di eventi naturali avversi, imprevedibili e inevitabili. A tal proposito, il catastrofismo ecologista – che non ha nulla a che vedere con una corretta ecologia – porta sicuramente una parte importante di responsabilità: in Europa la cosiddetta decarbonizzazione, con la chiusura programmata delle centrali a carbone e l’obiettivo di arrivare a emissioni nette di anidride carbonica nulle per il 2050, sta infatti determinando una “transizione energetica” assai accidentata, che paga il prezzo di scelte ideologiche.
Anche se l’epicentro della crisi energetica al momento è in Europa, la transizione ecologica decisa nell’Agenda Onu 2030 sul cosiddetto «sviluppo sostenibile» avrà inevitabilmente un impatto globale e duraturo nel tempo: è uno tra i punti chiave, anche se non l’unico, del progetto del Great Reset per gli anni venti del nostro secolo, assai poco ruggenti fino ad adesso. Nei mesi passati, la macchina mondiale della propaganda si era messa in moto parlando di «pandemia climatica», per collegarsi “idealmente” all’emergenza sanitaria: nella “Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico” organizzata dalle Nazioni Unite, la cosiddetta COP26, tenutasi a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre 2021, ci si riproponeva di assumere impegni concreti per raggiungere obiettivi di «riduzione delle emissioni entro il 2030 che siano allineati con il raggiungimento di un sistema a zero emissioni nette entro la metà del secolo», puntando a «limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C. » rispetto ai livelli preindustriali. Obiettivi assai ambiziosi – e irrealistici – che infatti non hanno trovato il supporto auspicato da parte di colossi come Cina, Russia e India, sancendo così, al di là dei proclami contenuti nel testo conclusivo – il Glasgow Climate Pact – il sostanziale fallimento dell’iniziativa, prontamente ribattezzata “FLOP26”.
A livello mondiale, tra i capofila della «politica del cambiamento climatico» compare Bill Gates, che la definisce – con scarso senso della misura – «la più grande sfida mai affrontata nella storia dell’umanità». Nel suo recente libro intitolato “How to avoid a climate disaster”, lo «scrittore e filantropo» Gates parla dell’extra costoconnesso alla transizione verso le energie rinnovabili, definendolo col termine di «green premium», «premio verde»: secondo sue stime, si parla al momento di 5mila miliardi di dollari Usa di costi aggiuntivi su un’economia globale che valecirca 80mila miliardi di dollari (dati annui). Gates prende quindi atto dei costi esorbitanti ma li considera necessari «per evitare l’incombente disastro climatico», dipinto con tinte così fosche da rivaleggiare con le bibliche sette piaghe d’Egitto: «tempeste, incendi, rinnalzamento dei livelli dei mari, miseria e migrazioni dai Paesi poveri, guerre». Insomma, se non iniziamo a bloccare subito le emissioni di gas serra, «ogni anno moriranno milioni di persone per il cambiamento climatico, e contro ciò non ci sarà nessun “vaccino” disponibile»: così afferma profeticamente Bill Gates.
Nel suo libro, sottolinea che uno dei temi cruciali – dopo l’eliminazione dei combustibili fossili – sarà assicurare che non si verifichino blocchi nelle forniture di corrente (come accaduto in Texas nel febbraio 2021, con più di 4 milioni di persone rimaste senza luce e riscaldamento a causa di una straordinaria gelata, paradossalmente attribuita anch’essa, comunque, al “riscaldamento climatico”!). Ciò sarà assicurato dall’immagazzinamento dell’energia prodotta con l’energia eolica e solare quando le condizioni climatiche sono favorevoli, insieme al ricorso all’energia nucleare, non legata ovviamente alle condizioni meteo, su cui lui sta facendo forti investimenti. Chi può garantire, tuttavia, che l’abbandono dei combustibili fossili non ci farà correre il rischio, negli anni a venire, di incorrere in possibili lockdown climatici-energetici, a livello locale, quando le pubbliche autorità lo riterranno “necessario”?
La diffusione della paura collettiva per un’incombente catastrofe ambientale prodotta dal “riscaldamento globale”, di supposta origine antropica – che è la narrazione assolutamente predominante nei media – non trova un consenso unanime nella comunità scientifica: basti citare, per l’Italia, l’opinione differente di Antonino Zichichi e di Carlo Rubbia. Un panico che pare funzionale, tuttavia, per fare accettare rialzi folli delle bollette energetiche, faraonici investimenti pubblici e privati nella prospettiva della “sostenibilità”, con i grandi sacrifici che ne conseguiranno per consumatori e contribuenti.
L’alba del “Nuovo mondo” decarbonizzato è fissata al 2050, con l’obiettivo di ridurre anche il green premium del 95% – da 5mila a “soli” 250 miliardi di dollari annui a livello mondiale – grazie all’innovazione tecnologica. Anche ammesso che Gates abbia ragione sull’esito felice di tale processo, rimane comunque il problema di come gestire la lunga fase di transizione, pari alla durata di un’intera generazione: per sua stessa ammissione, fino a quando il sistema produttivo, distributivo e di consumo non sarà a regime i sacrifici richiesti saranno veramente ingenti, e i costi li pagheranno contribuenti e consumatori. Anzi, hanno già iniziato a pagarli: anche se gli scatti in bolletta potranno essere parzialmente attutiti abbassando gli oneri di sistema e fiscali, per ridurre un po’ l’impatto complessivo sull’utente, il risultato netto finale sarà comunque pesante. Per la gestione della transizione, Gates attribuisce un ruolo primario agli incentivi fiscali, in modo da ridurre gli aggravi di costi legati all’abbandono dei combustibili fossili; conclude affermando che i milioni di posti di lavoro che si perderanno nell’industria degli idrocarburi saranno più che riassorbiti dalle nuove industrie green. Gli incentivi e gli aggiustamenti fiscali, tuttavia, possono solo agire come politiche “redistributive”, per alleviare tatticamente le situazioni più critiche, scaricando sulla generalità dei contribuenti i costi di tali inefficienze: la classe media è quindi inevitabilmente destinata a pagare un conto molto salato. Se poi i governi pensassero di intervenire imponendo dei prezzi “calmierati”, ciò non farebbe altro che esacerbare gli squilibri tra l’offerta – che sarebbe compressa, scoraggiando gli investimenti – e la domanda, che sarebbe invece sostenuta. Le ideologie, ce lo insegna la storia, sono sempre state costose, anche sul piano economico.L’entità e la velocità degli incrementi dei prezzi, tuttavia, segnalano che le cose sono un po’ scappate di mano e probabilmente ci sarà una pausa “tattica” nella narrazione green, almeno in Europa: vista la situazione economica ancora molto difficile che devono fronteggiare famiglie e piccole e medie imprese, già stremate da quasi due anni di chiusure a fisarmonica delle varie attività, sembra verosimile un passo indietro nell’immediato; magari per fare poi due passi in avanti, se e quando le condizioni saranno nuovamente favorevoli.
In tale quadro generale, appare particolarmente critica la situazione di quei Paesi che, come l’Italia, sull’onda emotiva del disastro nucleare di Černobyl’ del 1986, avevano chiuso definitivamente con l’opzione nucleare. I rialzi dei combustibili fossili riapriranno inevitabilmente tale scelta, che la Commissione Europea ha infatti recentemente indicato come «un mezzo per facilitare la transizione verso un futuro prevalentemente basato sulle rinnovabili», inserendo il nucleare, insieme al gas naturale, tra le attività ammesse come attività “di transizione”, a determinate condizioni, nel sistema di classificazione degli investimenti “sostenibili” – la cosiddetta tassonomia verde –, e dunque finanziabili anche con fondi dell’Unione Europea. Nonostante l’iniziale levata di scudi contro tale proposta da parte delle principali associazioni ambientalistiche e di alcuni governi europei, la “narrazione” politica cercherà di creare il consenso facendo leva sulla speranza-promessa di abbattere i prezzi dell’energia, per risolvere la “crisi energetica”, mantenendo una percezione collettiva di stato di crisi permanente. Sarà interessante vedere come gli ideologi della sinistra, che un tempo avevano ostracizzato la scelta nucleare, la faranno propria per “venderla” all’opinione pubblica italiana. I benefici, in ogni caso, arriverebbero su tempi molto lunghi e quindi non sarebbero per nulla risolutivi nell’immediato.
Per il momento, comunque, registriamo un punto a favore della realtà nei confronti dell’ideologia: un conto è parlare di transizione energetica, tutt’altra cosa è realizzarla. Il Green New Deal europeo può attendere?
Sabato, 8 gennaio 2022