Albert card. Decourtray, Quaderni di Cristianità, anno I, n. 3, inverno 1985
Dopo una visita in Libano effettuata nei giorni dal 20 al 26 giugno 1985, S. E. Rev. ma il signor cardinale Albert Decourtray, arcivescovo di Lione, ha diffuso un «documento non confidenziale» sulla situazione di questo paese mediorientale e della comunità cristiana che da secoli lo abita, intitolato Après ma visite au Liban (20-26 juin 1985). Notes breves et appels. La traduzione è stata condotta sulla fotocopia del ciclostilato originale da Ettore Ribolzi. Sono stati eliminati due riferimenti — uno nel corpo e uno in fine — a un appello della presidentessa dell’Assemblea delle Superiore Maggiori del Libano, appello di cui si parla nel testo, ma che non era allegato al ciclostilato. È stata eliminata anche la data — «24 giugno 1985» — perché evidentemente errata. Il titolo è redazionale.
Brevi note dopo una visita in Libano (20-26 giugno 1985)
I
Per rispondere a un vecchio e permanente invito di Sua Beatitudine il cardinale Koraiche, patriarca dei maroniti, e per mantenere un impegno del mio predecessore, il cardinale Renard — il cui viaggio era stato rimandato per ben due volte —, mi sono recato in Libano dal 20 al 26 giugno scorsi per una visita durata cinque giorni interi. Sono stato accompagnato da mons. Marc Clément, del mio segretariato particolare.
Ma ho compiuto questo passo non solo a nome della Chiesa di Lione, i cui legami con il Libano risalgono a molti secoli fa: ero ben consapevole — e i nostri ospiti l’hanno compreso perfettamente — di rappresentare la Conferenza Episcopale Francese e il suo presidente, mons. Vilnet, del quale ho letto pubblicamente un messaggio.
Aggiungo poi che, alla fine di maggio, durante il mio soggiorno a Roma per il Concistoro, avevo avuto via libera dalla Segreteria di Stato (Consiglio degli Affari Pubblici). Mi si domandava soltanto di vigilare per conservare il carattere religioso e pastorale della mia visita, cosa che ho avuto cura di fare, benché le realtà ecclesiali siano ancora più strettamente legate alle realtà politiche di quanto non avessi creduto! Nonostante il suo desiderio personale di solennizzare l’avvenimento, ho incontrato Amin Gemayel, presidente della Repubblica, come molte altre personalità di primo piano (ex presidenti, ex ministri e ministri in carica), soltanto in forma privata e con ogni discrezione.
Il mio viaggio è stato agevolato dalle autorità francesi e libanesi. Un elicottero della nave da guerra George Leygues mi trasportò in un’ora da Larnaca, a Cipro, fino all’entrata del palazzo patriarcale di Bkerké, dove Sua Beatitudine il cardinale Koraike mi attendeva con gli altri patriarchi, vescovi, esponenti ecclesiastici, compresi ortodossi e protestanti. Era presente anche S. E. mons. Angeloni, nunzio apostolico. L’elicottero tornò a prendermi a Djounieh il 26 all’alba, per condurmi direttamente all’aeroporto di Cipro. È dunque facile recarsi in Libano, e tengo a sottolinearlo per incoraggiare altri vescovi a effettuare il viaggio! Auguro loro solamente di essere un po’ meno protetti di me. Sarà un segno che sono diminuiti i rischi di un rapimento. Per quanto mi riguarda, due auto blindate di ordinanza — cariche ognuna di quattro giovani guardie del corpo della pubblica sicurezza libanese, armate di mitra e di rivoltelle — mi accompagnavano in tutti i miei spostamenti, ogni giorno dalle 8 alle 23. Questi otto giovani erano molto affabili e, per quello che si poteva vedere, profondamente religiosi!
II
Anche se non ho potuto recarmi né a Jezzine, nel Sud, né a Tripoli, nel Nord, né «sulla montagna», questi cinque giorni passati tra Beirut-Est e Annaya sono stati molto intensi: una cinquantina di visite rese e ricevute, da parte di gruppi oppure di singoli! Ogni volta mi è stato indirizzato un discorso di benvenuto, quasi sempre con un’ampia esposizione della situazione e concluso con un appello.
Sua Beatitudine il cardinale Khoraiche aveva incaricato padre Dagher S. J., ex provinciale dei gesuiti del Medio Oriente, di preparare e di organizzare la mia visita. Avevano ritenuto opportuno farmi ascoltare le voci cristiane più svariate e farmi toccare con mano le realtà più cariche di significato.
Così ho potuto intrattenermi a lungo non solo con il mio ospite — la qualità della cui accoglienza a Bkerké ha superato tutto quello che un occidentale può immaginare —, ma anche con ogni patriarca (salvo S. B. Maximos V Hakim, che era in Europa e che è stato sostituito dal metropolita greco-melchita di Beirut, S. E. mons. Habi Bacha), compresi il patriarca armeno apostolico di Cilicia, Sua Santità mons. Sarkissian, catolicos, e il metropolita Aoudé, arcivescovo greco-ortodosso, che mi hanno ricevuto nelle loro residenze. Mi hanno ricevuto anche S. B. Kasparian, patriarca armeno cattolico, a Bzoumar; S. B. Hayeck, patriarca siro-cattolico; S. E. mons. Ziadé, arcivescovo maronita di Beirut; S. E. mons. Farah, arcivescovo di Cipro e di Antelias, così come i superiori generali dell’ordine libanese maronita, dell’ordine marianita e dell’ordine antoniano. Sempre a Bkerké ho potuto ascoltare a lungo altri vescovi, e specialmente mons. Ibrahim Helou, vescovo di Sidone, e mons. Khoury, vescovo di Tiro, venuti appositamente dal Sud in occasione della mia visita. S. E. mons. Angeloni mi ha ricevuto privatamente alla nunziatura apostolica. Ci siamo poi rivisti a Bkerké prima della mia partenza.
III
Oltre ai vescovi e ai superiori generali, ho incontrato anche molti sacerdoti e monaci, in particolare quelli dello Chouf; testimoni dei massacri e dei «trasferimenti» di popolazione. Ho passato molte ore con alcune religiose ad Annaya, nella basilica di San Charbel, dove si erano radunate in grande numero per pregare con me e ascoltare una conferenza; a Yerzé, dove mi aspettavano le clarisse; a Bordj Hammoud, con le piccole sorelle di Gesù.
Le superiore generali mi hanno parlato con molta franchezza, gratitudine e speranza.
Ho ricevuto alcuni rappresentanti di vari gruppi e servizi: «le leghe cristiane», le conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, la Caritas, le scuole cattoliche, il Centro Cattolico di Informazione, la radio La voix de la charité, il movimento Eglise pour notre monde, il comitato detto Le foyer de Strasbourg, l’ambasciatore dell’Ordine di Malta, un ex ambasciatore del Libano all’ONU e così via.
Ho visitato successivamente, secondo un ordine più pratico che logico, l’ospedale, dove ho potuto confortare i feriti degli ultimi giorni e le loro famiglie, l’università Saint-Joseph, in parte distrutta, ma in piena attività, la biblioteca orientale e la tipografia orientale, dove si lavora dietro sacchi di sabbia; il gruppo La mission, presso Charles Hélou, ex presidente della Repubblica; il seminario greco-melchita dei padri missionari di san Paolo Apostolo; il seminario patriarcale di Ghazir, i cui allievi da dieci anni a questa parte sono quadruplicati; le piccole sorelle di Gesù e il poverissimo quartiere di Bordj Hammoud, popolato di armeni; il centro dei sordomuti di Bikfaya; la residenza dei padri gesuiti e Notre-Dame de la Délivrance a Bikfaya; l’università Saint-Esprit a Kaslik; il centro audiovisivo e la radio La voix de la charité; un centro di profughi — venuti dal villaggio di Jieh, nel Sud —, a Tamari, in compagnia di mons. Helou; l’eremo e il monastero di san Charbel ad Annaya; i sacerdoti anziani e malati della casa di Cristo Re, al centro di handicappati a Beit Chabab; la missione pontificia di Jall-el-dib;un campo di profughi, circa un migliaio in una grande fabbrica in disuso; il collegio dei gesuiti di Jamhour a Beirut-Est.
IV
L’ambasciatore di Francia, appena trasferito da Tripoli di Libia, mi ha invitato a pranzo con la cerchia ristretta dei suoi collaboratori più vicini. Mi è parso già molto informato e impegnato, nonostante l’imbroglio nel quale è capitato. Osservo a questo punto che, da molti indizi, l’uomo più al corrente della situazione mi è sembrato S. E. mons. Angeloni, nunzio apostolico, dal quale ci si aspetta molto.
Con il presidente Amin Gemayel abbiamo pregato un poco al cimitero, presso la tomba di famiglia, e poi nella sua cappella privata, dove partecipa regolarmente all’Eucarestia, che ama servire assieme a suo figlio. Ci tiene a preparare lui stesso l’altare. In presenza di sua moglie mi ha abbozzato un quadro della situazione, così come la vede. La persona è molto simpatica; li sono anche sua moglie e i loro tre bambini. Sono assolutamente incapace di dare un giudizio sulle qualità dell’uomo di Stato. Conservo l’impressione di una persona attenta, lucida, precisa nelle sue analisi e determinata a tenere duro a dispetto di tutto!
Gli incontri con le altre personalità politiche mi convincono che le «idee» in Libano non mancano. Alcuni giuristi mi hanno esposto il progetto di nuova costituzione che stanno mettendo a punto dall’ascesa al potere (?) di Amin Gemayel. Tutti mi hanno indicato, talvolta in modo dettagliato, quale soluzione pareva loro migliore per risolvere il problema libanese. Evidentemente si può avere l’impressione di trovarsi davanti a esercizi scolastici un po’ vani! Vi si può anche vedere il segno della volontà di vivere di questo popolo che spera ancora contro ogni speranza, malgrado la prova non finisca.
V
La prova: questa parola è troppo debole. Per prima cosa dobbiamo soprattutto comprendere, nell’intimo, la sofferenza, il martirio di questo popolo. Credo che corriamo il rischio di non rendercene conto oppure di dimenticarlo. L’abitudine non può spiegare tutto. Vi giocano altre ragioni che ho percepito meglio.
* Vi sono talvolta la mancanza di informazione oppure le informazioni false. È facile fotografare il casinò di Djounieh o qualche altro luogo, dove tutta una gioventù sembra perdersi in paradisi artificiali importati dall’Occidente. Si possono anche mostrare alla televisione le code interminabili di automobili che lasciano Beirut-Est il sabato pomeriggio in direzione del Nord. Si possono fotografare le vetrine dei commercianti, dove non manca nulla, per quelli che hanno i soldi! Si può mostrare tutto quello che si vuole degli eccessi di alcuni!
* Vi sono la discrezione, perfino il pudore, della maggior parte dei libanesi, e il loro senso dell’ospitalità. Non piace mettere in mostra la propria sofferenza né, con ciò, rischiare di turbare quelli che si ospitano.
* Vi è, forse, un inizio di rassegnazione fatalistica di fronte all’indifferenza, all’incomprensione e all’inazione degli amici.
La verità è che questo popolo sta vivendo un incubo. Bisogna sapere e dire che ogni famiglia libanese conta parecchi morti e parecchi feriti, vittime di una guerra che uccide da undici anni. Bisogna sapere e dire che tutte le famiglie cristiane dell’interno hanno conosciuto sia bombardamenti sistematici prolungati, sia la distruzione totale dei propri villaggi, spesso delle proprie chiese, e anche — nella confessata intenzione di far loro perdere perfino il desiderio di ritornare a casa — dei propri cimiteri.
Le cifre più sicure convengono nel contare a tutt’oggi più di 240 mila cristiani sradicali dalla «montagna», dove si erano fissati da secoli!
VI
La sofferenza di un grande numero di cristiani libanesi è accentuata dalla sensazione di essere dimenticati e talvolta sospettati anche dai loro migliori amici. «La Francia ci ha piantati!» … «I cristiani di Francia ci hanno abbandonati!». Questo giudizio non è quasi mai dato in termini così aspri; e spesso lo si corregge stabilendo subito un paragone che è tutto a vantaggio del nostro paese rispetto agli Stati Uniti, che hanno perso ogni credito. Allo stesso modo, si benedicono i cristiani di Francia per la loro grande generosità; ma si attendeva e si attende sempre tanto di più e tanto di meglio. Per esempio, si attende dalla Francia che si impegni a fondo per ottenere dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU la messa in opera di un piano di salvezza che presupponga, tra l’altro, uno sviluppo considerevole della FINUL [1] e un accrescimento dei suoi poteri. Si attende dai cristiani di Francia un vasto movimento di solidarietà per i loro fratelli del Libano, nel quale potrebbero trascinare i cristiani di tutti i paesi europei.
«A questo scopo — mi è stato detto — anzitutto bisognerebbe che i nostri fratelli di Francia, male informati, smettessero di sospettarci. Sulla base di qualche errore inevitabile e limitato, siamo stati trattati da reazionari, da fascisti. Si sono perfino confuse le “falangi” cristiane con le “falangi” di Franco, quando non vi è niente in comune tra le due realtà».
La situazione è resa ancora più penosa per i cristiani dal fatto che si sentono isolati e perduti in un mondo musulmano immenso che, malgrado le sue divisioni interne, fa prevalere la solidarietà islamica e in cui le spinte integriste si fanno sempre più sentire (khomeinismo e Fratelli Musulmani).
VII
Ciononostante — ed è, in ultima analisi, quanto più mi ha colpito — la prova non ha ancora distrutto la volontà di vivere e la speranza dei libanesi, anche se si indovina che la stanchezza comincia a farsi sentire.
Il segno più spettacolare di questa volontà di vivere fu per me il numero e l’ampiezza delle nuove costruzioni. A Beirut-Est, che ha avuto tante e tante distruzioni, vicino alla linea di demarcazione tra Beirut-Est e Beirut-Ovest, là dove ancora ogni giorno esplodono granate, non si smette di costruire: case, edifici pubblici, istituzioni diverse, chiese, si costruiscono e si ricostruiscono una, due, tre e perfino sei volte!
I gesuiti dell’università Saint-Joseph e di altre sedi danno a questo riguardo un esempio straordinario! Per raggruppare molte loro case e una parte dei locali universitari, hanno deciso di edificare, sulle recenti rovine, una nuova residenza di una dozzina di piani. Le pallottole e gli scoppi delle granate non risparmiano l’edificio in piena costruzione e si riparano i guasti man mano che salgono i muri.
Altro segno: le scuole cristiane, malgrado le spoliazioni e i rischi, accolgono un numero record di allievi (350 mila), seguiti da un numero record di insegnanti (30 mila).
Un altro segno ancora: i seminari e i noviziati, maschili e femminili, sono pieni. Alcuni conoscono un forte aumento. È impressionante vedere tanti giovani sacerdoti, giovani monaci e giovani religiose.
Parrebbe talvolta di essere in Polonia!
«Dite che viviamo e vogliamo vivere a ogni costo! Dite che vale la pena di aiutarci a vivere, che vogliamo e possiamo vivere, che non ci arrendiamo!».
Ho sentito questa volontà di vivere sia come propria del Libano, sia come propria delle comunità cristiane, senza le quali non vi può essere un Libano degno di questo nome!
VIII
Una volontà di vivere del Libano! Nella loro quasi totalità i miei interlocutori mi hanno espresso il loro attaccamento al Libano e la loro volontà di salvarlo. Non si vuole né la «spartizione», che porterebbe a uno «Stato cristiano» ridotto alla regione che ho visitato; né la «cantonizzazione», che porterebbe a una pluralità di Stati corrispondenti alle principali correnti islamiche. Si mormora che questa soluzione è vista con favore a Washington e a Tel-Aviv. Si conta molto sulla Francia, sull’Europa e sulla Santa Sede per impedire questa catastrofe, perché la Francia e la Santa Sede comprendono cosa significa la parola «Libano» e l’occasione unica rappresentata dalla conservazione di questo paese per la comunità internazionale e per tutti i cristiani del Medio Oriente.
Due giorni dopo il mio arrivo, domenica 23 giugno, durante la messa celebrata all’aperto presso la basilica di Notre-Dame du Liban, a Harissa, ho pronunciato un’omelia, radiotrasmessa in diretta, che la stampa ha ampiamente riprodotto. Un giornale l’ha anche riportata per esteso. Tutti hanno citato questo brano: «Fratelli e sorelle libanesi, noi abbiamo bisogno, tutta la cristianità ha bisogno, che viva il Libano, il vero Libano. Il vero Libano è questo popolo unico al mondo dove i cristiani, nella loro diversità, e i musulmani, nella loro diversità, vivevano insieme, lavoravano insieme, governavano insieme nel rispetto dei diritti dell’uomo, di cui la libertà religiosa è la più alta espressione. Ora, adesso, tutto sembra cospirare per compromettere questa occasione storica senza pari. Alcuni cominciano a pensare che gli avvenimenti di cui Jezzine è il tragico simbolo distruggano definitivamente la vocazione del Libano». Ho ricevuto numerosissime testimonianze di gratitudine per avere detto queste cose.
IX
Ma va da sé che questo «vivere insieme», questa «convivenza», presuppone che vivano le due comunità consociate. Ora, solo l’esistenza della comunità cristiana è minacciata. È evidente, ma si tratta di una realtà purtroppo misconosciuta o di cui si rifiutano le conseguenze, che la comunità musulmana in Libano non è minacciata nella sua esistenza. Pertanto la difesa del vero Libano, del Libano della coesistenza, della convivenza, della collaborazione tra arabi cristiani e arabi musulmani implica anzitutto, de facto, la difesa delle comunità cristiane.
È troppo tardi? Sarà troppo tardi se i cristiani rifugiati nella regione di Jezzine non saranno salvati e se non ritroveranno i propri villaggi. Sarà troppo tardi se quelli che sono stati cacciati da Sidone e da altri luoghi non vi ritorneranno. Delegando in modo particolare il cardinale Etchegaray a portare ai cristiani di Jezzine il segno del suo appoggio, come era previsto prima della mia partenza, il Santo Padre ha manifestamente voluto correre ai ripari di fronte a ciò che è più urgente. Il modo in cui il suo delegato ha potuto recarvisi significa che le diverse fazioni — il cui accordo è necessario per superare con sicurezza tutte le linee di demarcazione — hanno fatto un gesto significativo, ma anche che tale gesto non è stato facile da ottenere, poiché, secondo le mie deduzioni, ha richiesto una decina di giorni di trattative.
Il futuro dipende, in parte, dai punti seguenti:
a. Quanti musulmani si sentono propriamente libanesi, o almeno tanto libanesi quanto musulmani? Ho incontrato pochi musulmani nel corso della mia visita, e questi mi sono sembrati molto libanesi.
b. Le comunità cristiane rafforzeranno maggiormente i loro legami? Tutte riconoscono spontaneamente il ruolo privilegiato del patriarcato maronita, compreso il rappresentante della Chiesa evangelica. Molti si augurano che si tragga un maggiore profitto dalla situazione per un nuovo slancio «conciliare» comune e per un impegno comune di un tipo nuovo al servizio del Libano.
X
In effetti, su questo sfondo impressionante di «volontà di vivere» e di speranza, si possono scorgere i sintomi di un inizio di scoraggiamento e di stanchezza. «Ho capito che, per la prima volta da dieci anni — ho detto ancora a Harissa —, molti subiscono la tentazione della disperazione nelle sue molteplici forme. Una certa stanchezza talvolta si impadronisce di voi, un certo logorio compie la sua opera …».
Aggiungendosi a tutte le prove che ho descritto, la recente caduta della lira libanese — che per altro comincia a ria1zarsi! — ha inferto un nuovo colpo al morale della popolazione, la cui immensa maggioranza non ha evidentemente un conto in banca negli-Stati Uniti, in Francia o in Svizzera.
E, soprattutto, immaginiamo quelle famiglie le cui case sono distrutte per la terza, la quarta, la quinta volta! La partenza per gli Stati Uniti o per l’Australia può essere una tentazione, tanto più che — mi è stato detto — alcuni politici «realisti» d’oltre-Atlantico vedono in questo genere di esodo la soluzione finale della questione libanese!
In più, il gioco delle grandi potenze, USA e URSS — che manovrano le «piccole», Israele e Siria, e che cercano entrambe apparentemente soltanto il proprio interesse e, per questo, sono pronte a sacrificare il Libano con un machiavellismo che non è più nemmeno camuffato —, può creare in certi ambienti un inizio di rassegnazione fatalistica e in altri, al contrario, la volontà di combattere a qualunque costo e con qualunque mezzo.
Infine — e, forse, soprattutto! — tutti sanno che la causa maggiore delle difficoltà di cui soffre il Libano da undici anni è il dramma palestinese. Ora, non si vede sorgere nessuna soluzione all’orizzonte…
XI
Da quando sono tornato dal Libano, mi viene posta continuamente la domanda: «Cosa possiamo fare?». All’incontro di Harissa mi sono impegnato: «Vi prometto di agire e di usare tutti i mezzi affinché la mia visita non rimanga senza effetto… Prima di tutto e senza soste domanderò ai cristiani di Francia di pregare perché continuiate a sperare, perché la vostra speranza non venga meno… Parlerò del vostro straordinario sforzo per raccogliere la sfida. Dirò ai cattolici di Francia che, anzitutto, non devono fermarsi agli alberi che nascondono la foresta. Parlerò dell’obbligo pressante di aiutarvi come fratelli, moralmente, spiritualmente, politicamente e materialmente. Sono sicuro che troverò nel mio paese innumerevoli cuori disposti ad ascoltare questo messaggio».
Non ho smesso di esprimere questi propositi, in tutti i toni e in tutti i modi, nella quarantina di discorsi che ho dovuto improvvisare e nel corso della conferenza stampa finale. Ogni giorno la televisione, le radio e tutti i giornali ne hanno parlato.
A me resta, a noi resta, l’impegno di non deludere l’attesa suscitata dalla mia visita. Siccome ho rappresentato l’episcopato francese, penso di proporre al consiglio permanente di settembre un piano di azione in favore del Libano. Credo che dobbiamo impegnarci in modo durevole in una collaborazione molto più stretta con le Chiese sorelle di questo paese al quale siamo così vicini, e con i loro rappresentanti in Francia, di cui ricordo che l’arcivescovo di Parigi è l’ordinario (non solo per la rue d’Ulm, ma in tutto il paese!).
XII
Per stimolare e coordinare l’azione, ci vorrebbe una rete nazionale posta sotto la responsabilità dell’episcopato francese, ma molto vicina al vicariato patriarcale (mons. Harfouche, vicario patriarcale, 15 rue d’Ulm 75005 Parigi).
Ecco qualche suggerimento pratico:
1. Una campagna di stampa organizzata e mantenuta a livello nazionale dall’arcivescovado di Parigi e dal Segretariato Nazionale dell’Opinione Pubblica a partire da settembre-ottobre. Il cardinale Etchegaray, il cardinale Lustiger, mons. Vilnet e io stesso potremmo contribuire direttamente al suo lancio.
2. Una raccolta di firme. Mons. Goupy, vescovo di Blois, aveva avuto l’idea di inviarmi lettere di simpatia per i cristiani del Libano, scritte e firmate dai suoi diocesani. Ne ho lette due nell’incontro di Notre-Dame du Liban. Una di esse, firmata da un centinaio di giovani liceali, è stata riportata su tutti i giornali, compresi quelli di lingua araba.
«Siamo giovani dei collegi e dei licei di Blois… Non possiamo dimenticare i nostri fratelli del Libano. Speriamo che queste firme vi portino un po’ di gioia e un sostegno morale. Oggi abbiamo pregato perché conserviate il coraggio… ». Non immaginavo che queste poche parole potessero produrre un tale effetto di emozione e di speranza! Ma quando un popolo si sente dimenticato …
3. «Gemellaggi» tra gruppi e gruppi, tra parrocchie e parrocchie, tra istituzioni e istituzioni… Per esempio, ho proposto che siano stabiliti legami durevoli, contatti e servizi reciproci, tra le università Saint-Joseph e Saint-Esprit da un lato e l’università cattolica di Lione dall’altro; tra La voix de la charité e Radio Fourvière (ho anche suggerito Radio Notre-Dame…); tra il Comitato Libanese di Informazione (padre Antoine Gemayel) e il Segretariato Nazionale dell’Opinione Pubblica. Ma vi è un grande numero di altre possibilità di questo tipo!
4. Visite in Libano, per stringere legami concreti d’ordine pratico, offerte di servizio (un mese per aiutare i profughi, gli handicappati, i feriti e così via…). Conviene che i volontari non siano troppo giovani, perché un certo rischio permane: il cannone tuona ogni sera.
5. Doni alle istituzioni caritative riconoscurte, come la Società di San Vincenzo de’ Paoli, Caritas, SOS. CCFD.
6. Un più stretto legame con l’Oeuvre d’Orient, la cui finalità specifica deve essere meglio conosciuta.
7. Informazioni e appelli ai pubblici poteri. Così ho fatto, dal mio ritorno, nei riguardi del nostro presidente della Repubblica e di altre personalità. Credo che dobbiamo continuare.
Albert card. Decourtray
Arcivescovo di Lione
Nota:
(1) Sigla delle Forces Intérimaires des Nations Unies pour le Liban (ndr).