Le grandi città saranno sottoposte a interventi urbanistici radicali, per rendere disponibile “tutto ciò di cui si ha bisogno” nel raggio di una quindicina di minuti dalla propria residenza. Sembra una buona idea, in realtà si nasconde anche qui l’ideologia, che rischia di degenerare in vera e propria distopia
di Maurizio Milano
Come conciliare i servizi e le opportunità che solo una grande città può offrire con la tranquillità di un piccolo borgo? A chi non piacerebbe vivere in una città a misura d’uomo, dove “tutto ciò di cui si ha bisogno” è a portata di mano, raggiungibile comodamente a piedi o in bicicletta o con mezzi pubblici di qualità nell’arco di una quindicina di minuti? Chi non sogna per sé e i propri cari un contesto residenziale e lavorativo gradevole, caratterizzato da aria pulita, pochi rumori, traffico ridottissimo ed elevata sicurezza? Visto che la tendenza all’inurbamento è prevista in aumento nei prossimi decenni, facciamo in modo che le città diventino sempre più sicure, belle e vivibili: ci sposteremo a piedi o in bicicletta, con ricadute molto positive sulla nostra salute e qualità di vita. Una narrazione suadente, che fa risuonare corde profonde dell’animo umano, risvegliando la nostalgia di una vita di comunità, a partire da quei grandi contesti urbani dove la quotidianità è invece sempre più massificata e alienante. Come sempre, tuttavia, il diavolo si nasconde nei dettagli: che in questo caso non sono neppure piccoli.
Si tratta del progetto denominato “15-Minute City”, la “Città da 15 Minuti”, un’idea introdotta già nel 2016 dall’urbanista franco-colombiano Carlos Moreno, docente di Urbanistica e del Paesaggio alla Sorbona di Parigi, in un articolo comparso sul quotidiano francese Le Monde, resa poi popolare nel 2020 da Anne Hidalgo, sindaco socialista di Parigi dal 2014. Secondo la teoria della Ville du quart d’heure, tutte le attività urbane, dal lavoro ai negozi, dall’assistenza sanitaria all’istruzione, dalla cultura allo shopping eal divertimento, dovrebbero essere rese accessibili a tutti, in un tempo massimo di quindici minuti da casa propria, a piedi o in bicicletta, incentivando lo sharing. La “scommessa della prossimità”, del cosiddetto crono-urbanismo, nella prospettiva di una “grande trasformazione” urbana, è stata successivamente ripresa in innumerevoli relazioni del WEF, il World Economic Forum di Davos, oltre a risuonare nell’obiettivo nr. 11 dell’Agenda Onu 2030, per «rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili».
Il progetto si inserisce all’interno del più ampio concetto delle smart cities, le città intelligenti, caratterizzate da un’elevata digitalizzazione, e dell’iniziativa del gruppo denominato C40, «un network globale di sindaci delle più importanti città del mondo, uniti per affrontare la crisi climatica». Della rete al momento fanno parte 96 città, che rappresentano, secondo quanto indicato nel sito ufficiale dell’associazione, oltre il 20% dell’economia globale e oltre 700 milioni di persone. La mission è quella di «trasformare le città: il new age della vita urbana», un «build back better» con una «azione sul clima, innovativa e inclusiva, guidata dalle città», nella prospettiva della «giustizia climatica, dell’uguaglianza e dell’equità nel nuovo mondo post-pandemico», come dichiarato da Sadiq Aman Khan, sindaco laburista di Londra dal 2016, divenuto Chair dell’organizzazione nel dicembre 2021. L’obiettivo perseguito è quello di «aumentare l’ambizione climatica, influenzare l’agenda globale, costruire un movimento, potenziare l’azione climatica», nella prospettiva del «Global Green New Deal, finanziato dalle Fondazioni della Open Society» di George Soros, facendo leva sui «giovani leader climatici» per promuovere la narrazione coinvolgendo, in particolar modo «giovani, organizzazioni sindacali e realtà locali». Dell’associazione C40 fanno parte le principali capitali e città metropolitane del mondo: in Italia si tratta di Roma e Milano, con l’amministrazione guidata da Giuseppe Sala, sindaco meneghino di centro-sinistra dal 2016, che si segnala per lo zelo con cui persegue la sostenibilità urbana.
Dall’idea iniziale del progetto della “Città di 15 Minuti”, focalizzata prevalentemente sulla forte diminuzione del traffico e dell’inquinamento riducendo la mobilità al di fuori del proprio quartiere, a partire dal 2020 il focus si è allargato all’idea di costruire la “città del futuro post-pandemico”. Una smart city caratterizzata dall’utilizzo massivo delle moderne tecnologie “ICT” (Information and Communication Technologies) di informazione e comunicazione, insieme all’utilizzo di sistemi di machine learning e intelligenza artificiale per il monitoraggio massivo e continuo degli spostamenti. Già ora, grazie ai dispositivi di geolocalizzazione GPS e agli smartphone, è possibile ottenere informazioni sulla posizione delle persone in tempo reale e raccogliere dati sulle loro abitudini di spostamento. A ciò si aggiungono le informazioni provenienti dai sistemi di pagamento digitali, che consentono anche una profilazione delle abitudini di consumo personali, oltre a un controllo sempre più pervasivo delle strade a mezzo di telecamere, giustificate da esigenze di sicurezza.
In un prossimo futuro, tuttavia, il monitoraggio degli spostamenti e dei comportamenti sarà consentito in modo ancora più preciso dalla connessione alla rete internet. Si sta accelerando, infatti, verso la cosiddetta “IoT”, l’Internet of Things, l’internet delle cose: si prevede una connessione capillare alla rete di molteplici oggetti, dalla domotica ai macchinari agli automezzi, in modo da potere raccogliere qualsiasi informazione ritenuta utile a livello centrale e interagire agendo sull’identità digitale dei vari oggetti, monitorando anche gli spostamenti. Parlando dei sistemi di tracciamento applicati in logistica nell’ambito dell’IoT, già a gennaio 2017 – tre anni prima della crisi sanitaria CoViD-19 – nel suo The Fourth Industrial Revolution il professor Klaus Schwab, fondatore e leader del WEF, affermava che «In the near future, similar monitoring systems will also be applied to the movement and tracking of people», cioè «Nel prossimo futuro, simili sistemi di monitoraggio saranno anche applicati al movimento e al tracciamento delle persone» (Cfr. paragrafo 2.1.2 Digital). “Saranno”, non “potranno essere”: l’ultima frontiera è la cosiddetta “IoB”, l’Internet of Bodies, l’internet dei corpi, con la connessione alla rete anche delle persone, che renderebbe obsoleto il monitoraggio a mezzo telecamere o rete cellulare. Grazie alla potenza di calcolo dei moderni computer quantistici, all’evoluzione dell’intelligenza artificiale e alla velocità delle nuove reti di telecomunicazioni, sarà quindi possibile raccogliere, elaborare e trasmettere in tempo reale masse enormi di dati (i cosiddetti big data) su cose e persone, ciascuna individuata dalla propria “identità digitale”: tali dati saranno utilizzati in molteplici settori, come trasporti, logistica, sicurezza pubblica e salute.
Nei prossimi anni, il traffico privato nelle grandi città sarà sempre più scoraggiato, sia imponendo costi crescenti per i parcheggi nelle zone centrali sia con sempre più stringenti limitazioni di velocità e restrizioni alla viabilità privata con le cosiddette LTNs (Low-Traffic Neighbourhoods). In Inghilterra, ad esempio, alcuni mesi orsono sono state approvate delle severe misure restrittive al traffico veicolare privato nella città di Oxford: l’amministrazione comunale laburista ha suddiviso l’area urbana in sei distretti, fissando un limite massimo per persona pari a cento uscite annue col proprio veicolo verso un altro distretto. Gli “attraversamenti” tra distretti saranno monitorati da una fitta rete di telecamere (traffic filters): al superamento del massimale concesso dall’amministrazione comunale verranno automaticamente erogate sensibili sanzioni amministrative; esaurito il plafond assegnato, per entrare in un altro distretto si dovrà quindi utilizzare i mezzi pubblici oppure la circonvallazione, allungando, anche di molto, distanza, tempi e costi di percorrenza. Ciò ha sollevato forti proteste popolari, ma le sperimentazioni procedono, agevolate dal fatto che Oxford è una tranquilla città universitaria di medie dimensioni, con un’elevata popolazione giovanile: il motivo, forse, per cui è stata scelta per l’esperimento in vivo.
Ancorché tali misure restrittive non coincidano, di per sé, col concetto della “Città da 15 Minuti”, perseguono però lo stesso obiettivo: scoraggiare il possesso di autovetture private, ridurre gli spostamenti all’interno delle città, incentivare una mobilità “leggera”, a piedi o in bicicletta, e quindi necessariamente di prossimità. Anche se non viene affermato in modo esplicito, il parco auto privato in Europa non potrà essere sostituito interamente, e neppure in ampia misura, dalle auto full electric, sia per mancanza dei materiali necessari e dei costi elevati di produzione delle batterie elettriche, sia per l’inadeguata disponibilità di energia elettrica, sia per l’insufficiente capillarità delle reti di ricarica. Ridurre drasticamente la mobilità privata facendone salire i costi e scoraggiandola in ogni modo, accelerando nella prospettiva delle smart cities e delle città da 15 minuti, diviene una scelta obbligata dato l’obiettivo della “transizione ecologica” fissato a emissioni nette nulle di Co2 per il 2050.
Anche in assenza di divieti, controlli e sanzioni, man mano che scompariranno le auto private la libertà effettiva di spostamento tenderà inevitabilmente a ridursi. Le persone inizieranno a vivere sempre più in contesti di prossimità, lavorando, acquistando e trascorrendo il tempo libero nel proprio quartiere di appartenenza: aumenteranno le relazioni intra-quartiere, ma diminuiranno, come conseguenza, quelle tra un quartiere e l’altro. Non si corre il rischio di andare verso città “compartimentalizzate”, per lo meno de facto, creando nuove barriere tra chi si può permettere di vivere in centro e chi invece deve accontentarsi della periferia? Senza più automobili private, come si immagina poi di gestire le esigenze di spostamento delle persone anziane o con disabilità, oppure quelle del comune cittadino in condizioni climatiche avverse? Non si teme un progressivo isolamento delle persone nel proprio quartiere, o addirittura nella propria abitazione? Soppesando pro e contro, perché andare a vivere in una grande città per poi limitare la propria vita, di fatto, al quartiere di appartenenza? Se la “Città da 15 Minuti” si riducesse alla brutta copia di un paese di provincia, senza maggiori opportunità di crescita personale e professionale, che vantaggio offrirebbe rispetto all’originale?
Che cosa pensare di tali iniziative, promosse con zelo degno di miglior causa dalle avanguardie illuminate della sinistra liberal e condivise dalla grande finanza sostenibile? Al di là delle possibili buone intenzioni o di singole idee valide e percorribili, il peccato d’origine di tali progetti riguarda la premessa del preteso “cambiamento climatico di origine antropica”: una congettura scientificamente non dimostrata – come documentato da moltissimi scienziati autorevoli, tra cui in Italia i professori Franco Prodi, Antonino Zichichi e Carlo Rubbia – ma imposta da una sempre più martellante narrazione mediatica, con finalità più politiche che ecologiche. Il catastrofismo ecologista è infatti usato per giustificare l’imposizione di crescenti sacrifici e misure restrittive a tutti i livelli, per “salvare il pianeta”. Prese per buone le premesse, ne consegue una prospettiva pianificatoria prometeica, un vero e proprio statalismo climatico che conferma l’adagio “Green is the new Red”: gli orfani del marxismo-leninismo hanno sostituito la desueta lotta di classe con le politiche climatiche, più à la page e redditizie.
A livello pratico, chi deciderà poi “tutto ciò di cui si ha bisogno” e quali esercizi commerciali si potranno aprire, e quali chiudere, nelle varie zone? L’esperimento di Oxford sarà integrato nei progetti della “Città da 15 Minuti”? Se sì, come saranno divisi i distretti e come saranno affrontate le esigenze di spostamenti “superiori ai massimali consentiti” per consentire la frequentazione dei propri amici e famigliari, della propria chiesa, per coltivare i propri interessi di svago o per le molteplici possibili e legittime esigenze private? Come si gestiranno le tematiche legate alla privacy? Si creerà una burocrazia ad hoc per fare le valutazioni di merito, oppure il controllo sarà verosimilmente demandato a una logica algoritmica? Il rischio è una deriva di controllo economico e sociale che in tesi potrebbe – e la tecnologia lo consente già ora – sostituire un diritto naturale come la libertà di movimento e di accesso ai servizi con una logica di permesso.
I permessi, per definizione, possono essere concessi, modulati o ritirati, in base a una scelta discrezionale di tipo politico o amministrativo; magari secondo una concezione premiale, per incentivare certi comportamenti e scoraggiarne altri, in una prospettiva paternalistica, da Stato etico. Collegando il “permesso di circolazione” all’identità digitale e al sistema di monitoraggio consentito dall’IoT e dall’IoB, il controllo diverrebbe davvero totale e in tempo reale. Un Panopticon digitale, gestito da un sistema algoritmico e di intelligenza artificiale, sarebbe infatti ancora più invadente ed efficace di una sorveglianza poliziesca: nessuna possibilità di sfuggirvi, opaco e inappellabile. Un orwelliano Big Brother 2.0, insomma, con proprietà privata, libertà e privacy fortemente limitate. D’altronde, le restrizioni a mobilità e accessi ai servizi sono già state sperimentate con successo, da un punto di vista tecnico, durante i lockdown sanitari: l‘infrastruttura informatica a mezzo app con la certificazione “verde” sarà utilizzata per gestire futuri lockdown climatici? Un po’ per volta, o improvvisamente per gestire nuove emergenze climatiche, sanitarie o di pubblica sicurezza, reali o percepite, una misura tecnicamente possibile potrebbe divenire moralmente giustificabile, poi giuridicamente accettabile e infine obbligatoria. Soprattutto quando nessuno se ne preoccupa finché non ne viene toccato in prima persona.
Da un punto di vista implementativo occorre poi evidenziare che una cosa è disegnare una mappa a colori su un foglio bianco, tutt’altra intervenire sull’esistente, individuando e gestendo oltre agli obiettivi anche la fase di transizione. Oltre all’imposizione di riqualificazioni energetiche massive si valuteranno anche espropri e abbattimenti di edifici, per ragioni di pubblica utilità climatica? Chiusure d’imperio di attività industriali e commerciali con rilocalizzazioni forzate? La piccola proprietà privata, la libertà economica e la privacy saranno ulteriormente compresse? Come sarà gestito il dissenso? Da dove arriveranno le necessarie risorse umane, materiali e finanziarie per la faraonica riconversione? Entro quali tempi? Entrando nei dettagli, insomma, le cose si complicano, non poco.
Infine, ai rischi intrinseci collegati alla centralizzazione delle informazioni e delle decisioni si aggiungono anche le possibili conseguenze non intenzionali delle azioni umane intenzionali. La “Città da 15 Minuti” post-pandemica sarà davvero una “città a misura d’uomo” che consentirà di riannodare i fili del tessuto sociale, in una prospettiva di comunità, come evocato dalla narrazione? Oppure rischia di evolvere in una città suddivisa, per lo meno di fatto, in compartimenti stagni, con le zone centrali e benestanti separate ancor di più dalle periferie? La storia dimostra ad abundantiam che gli effetti delle politiche dirigistiche non coincidono mai con gli obiettivi, perché la realtà è complessa, in continuo cambiamento, sottoposta a sempre nuove sfide, ed esiste l’incognita della libertà umana.
I presupposti ideologici, le scelte di pianificazione centralizzata e i mezzi impiegati non promettono bene. Chi tra noi accetterebbe di vivere in una città-caserma, per quanto pulita, efficiente e sicura? Magari con “tutto ciò di cui si ha bisogno”, ma monitorato e controllato, concesso o sanzionato? Rinunciare a proprietà privata, libertà e privacy è un prezzo troppo alto da pagare: dal sogno romantico all’incubo distopico il passo è breve.
Venerdì, 26 maggio 2023