Di Antonio Gurrado da il Foglio del 09/11/2021
A rigore, esiste soltanto il passato. Quando pensiamo, l’atto del pensiero consiste nel renderci conto di avere pensato; quando percepiamo qualcosa, a segnarci è l’impressione di averla percepita attraverso un senso. Ogni parola che credete di star leggendo adesso l’avete letta un attimo fa. Perfino quando ci presentiamo, diciamo “io” o riflettiamo su noi stessi, ciò che facciamo è impacchettare una quantità di percezioni e idee passate cui diamo l’illusorio nome di identità presente, ma che è soltanto un comodo artificio. Da questo presupposto, radicale ma ineluttabile, bisogna partire per orientarsi nella nostra epoca, che ha messo in discussione la rilevanza e il concetto stesso di passato.
Viviamo in un tempo ostaggio del presente e del futuro. A un continuo incessante presente si richiamano le tendenze più innovative della cultura, della tecnologia e della spiritualità: cancel culture, metaverso e mindfulness. La cancel culture è un tentativo di imporre gli schemi interpretativi del presente sulla storia pregressa, ripulendola e rendendola presentabile secondo ciò che oggi riteniamo accettabile, eradicando invece come erbacce i dati del passato non confacenti all’identità (artificiale) che attribuiamo a noi stessi e alla nostra èra. E’ una sorta di utopia del passato che, anziché collocarsi in un’ipotesi parallela o su un’isola che non c’è, interviene a martellate sulla storia senza scontrarsi con l’evenienza che il passato sia l’unico dato di fatto esistente; è una bacchetta magica faticosamente usata sulla realtà circostante.
Il metaverso auspica invece di allargare la gamma dei presenti possibili, consentendo di scegliere in quale vivere, e ovviamente ambendo anche a consentire di rivivere all’infinito un momento specifico del passato: non a caso qualcuno ha già iniziato a immaginare futuribili lezioni di storia in cui gli studenti verranno calati in un’antica Roma o in una Rivoluzione francese virtuali, trasformando l’apprendimento astratto in esperienza diretta. Tutto molto ganzo salvo un piccolo dettaglio: la nostra vita intera si svolge in differita quindi, se anche adesso indossassi occhialoni per trasferirmi alla corte di Hammurabi, sostituirei l’esperienza dell’aver letto parole sulla storia babilonese con l’esperienza di aver visto immagini tridimensionali della storia babilonese. Illudendomi di esplorare possibili presenti, non uscirei dalla gabbia del passato.
La mindfulness fa quasi tenerezza, con tutto quell’esortare a vivere nel momento presente e solo il momento presente. Qual è il momento presente? Quello che è appena passato. E’ una specie di tartaruga che sfugge sempre ad Achille, un Achille mindful che per non rimediare brutte figure anziché incazzarsi medita. Prima o poi qualcuno se ne accorgerà (si renderà conto di essersene accorto) e tutto il castello illusorio della religione del presente verrà giù. Alla fin fine il successo millenario del cristianesimo si basa forse sull’essere una religione del passato: dai Re Magi in poi, tutto si fonda su un fatto al quale bisogna sforzarsi di credere che è successo, è stato annunziato, è nato, è risorto; la salvezza eterna consisterà nell’essere stati giudicati, l’apocalisse nel fatto che sarà tornato a giudicare.
Il futuro è invece l’orizzonte di fede dell’ambientalismo neopagano, quello cui si inchinano i grandi della terra; una specie di induismo che venera dèi-bambini capricciosi che agitano davanti agli occhi degli anziani il simulacro dell’avvenire, ovviamente catastrofico. Questo culto consiste nel rinnegare il passato – i vecchi, per riuscire credibili, giungono all’eccesso rituale di scusarsi coi giovani di ciò che hanno fatto – in favore di un millenarismo che, come tutti i millenarismi, ha una smaniosa predilezione per le cifre tonde purché collocate abbastanza lontano da non essere verificabili. Ma il futuro dov’è, chi l’ha mai visto, chi sa com’è fatto? Sappiamo solo come ce lo siamo immaginato in passato; il futuro è soltanto un bla bla bla.