Paolo Mazzeranghi, Quaderni di Cristianità, anno II, n. 5, estate-inverno 1986
Carlos Patricio del Campo, Is Brazil Sliding Toward the Extreme Left? Notes on the Land Reform Program in South America’s Largest and Most Populous Country, with a foreword by Plinio Corrêa de Oliveira, The American Society for the Defense of Tradition, Family and Property (TFP), New York 1986, pp. 168, s.i.p.
L’America Latina si è venuta trasformando, con una maggiore accelerazione negli ultimi due decenni, in un laboratorio di sperimentazione socio-politica per il socialcomunismo. Ma ciò che rende quest’area geopolitica più interessante rispetto ad altre pure oggetto di penetrazione rivoluzionaria — a parte gli ovvi legami linguistici e culturali, quando non addirittura etnici, con l’Europa — è il fatto che, contemporaneamente, è diventata anche la sede di elaborazione di un pensiero religioso di provenienza europea, che vi ha dato origine a una certa «teologia della liberazione», di cui si patiscono gli effetti riflessi in tutto il mondo cattolico.
Questa contemporaneità non è stata solo accidentale: si può realisticamente affermare che la penetrazione socialcomunista si sarebbe principalmente risolta in avventure guerrigliere se l’ideologia marxista non fosse stata così efficacemente assunta e veicolata sia da quelle autentiche cellule rivoluzionane costituite da molte «comunità di base», sia dalle avanguardie intellettuali che nei paesi latinoamericani sostengono la necessita di profonde «riforme» di tipo socialista.
Per questi motivi, attualmente e nella maggior parte dei casi, i problemi dell’America Latina sono presentati con categorie marxiste, con o senza paludamenti «religiosi». Perciò si rivelano particolarmente utili gli studi che contestano questa identificazione surrettizia fra Rivoluzione socialcomunista e «promozione umana» in una regione del mondo in cui si gioca certamente una parte importante dell’avvenire della cristianità.
Carlos Patricio del Campo Garcia-Huidobro — nato a Santiago, in Cile, nel 1940 — è laureato in ingegneria agraria all’università Cattolica del Cile. Specializzato in economia agraria all’Università di Berkeley, ha insegnato presso la stessa Università Cattolica del Cile, dove, come membro del Centro per la Ricerca Economica e del Dipartimento di Economia Agraria, ha diretto e partecipato a vari progetti di studio per lo sviluppo economico. È stato anche consigliere del Dipartimento di Economia Agraria del ministero dell’Agricoltura cileno e di diverse organizzazioni private.
Dal 1972 in Brasile, ha lavorato come consulente economico di varie aziende. Ha scritto due opere in collaborazione con il professor Plinio Corrêa de Oliveira, presidente del consiglio nazionale della Sociedade Brasileira de Defesa da Tradição, Familia e Propriedade-TFP, Sou católico: posso ser contra a Reforma Agrária? (Vera Cruz, San Paolo 1981), e A propriedade privada e a livre iniciativa, no tufão agro-reformista (ibid. 1985). Is Brazil Sliding Toward the Extreme Left? Notes on the Land Reform Program in South America’s Largest and Most Populous Country, «I1 Brasile sta scivolando verso l’estrema sinistra? Note sulla riforma agraria nella maggior potenza territoriale e demografica dell’America del Sud, tradotto in inglese dall’originale in portoghese inedito, porta la sua sola firma, anche se non manca una prefazione dello stesso Plinio Corrêa de Oliveira (pp. 15-32), ed è ricco di un magnifico apparato iconografico, di tabelle, di grafici e di una vasta bibliografia (pp. 155-163).
Carlos Patricio del Campo, nell’introduzione (pp. 33-35), esplicita la propria posizione: «L’autore di questo libro è cattolico, e come tale professa la dottrina della Santa Chiesa e osserva integralmente gli insegnamenti tradizionali estremamente ricchi dei Pontefici Romani sulle questioni socio-economiche. L’ispirazione di questo lavoro è, naturalmente, fermamente anticomunista e antisocialista. Questo significa che difende un regime socio-economico basato sulla proprietà privata e sulla libera impresa — sempre, naturalmente, intese congiuntamente alla loro inseparabile funzione sociale. In tutto il lavoro l’autore utilizza come strumenti di analisi i concetti della teoria economica neoclassica. Ciò non significa che sia un fautore incondizionato di questa teoria, specialmente nei suoi aspetti positivisti e liberali» (p. 34). Proposito dichiarato dell’autore è quello di contribuire alla conoscenza della realtà brasiliana — peraltro multiforme e spesso contraddittoria — nella prospettiva di una riforma agraria correntemente intesa come una più o meno radicale ridistribuzione delle terre che, oltre ad avere rilevanti conseguenze sul piano del diritto e della morale sociale, costituisce, specie per una nazione ancora fortemente basata sull’agricoltura, una riforma strutturale di enorme portata, destinata a condizionarne per molti anni, se non addirittura in modo permanente, l’assetto socio-economico.
Questo proposito previene possibili obbiezioni circa il piano su cui intende muoversi l’autore: poiché la riforma agraria è propagandata con argomentazioni economiche globali, ne viene respinta la validità applicativa — e se ne mette in luce la pretestuosità, rispondente a un preciso disegno politico — con considerazioni economiche altrettanto generali, ma mai generiche.
«Per cercare di giustificare la necessità della riforma agraria presso un’opinione pubblica refrattaria al socialismo, i suoi fautori dipingono un quadro sociale disperato e sorvolano sui molti aspetti positivi della realtà socio-economica brasiliana. Questo è quanto hanno fatto, non solo in Brasile ma anche fuori, ben note personalità religiose, politiche e intellettuali della sinistra. Ciò costituisce un espediente della guerra psicologica rivoluzionaria, il cui obbiettivo consiste nell’ottenere l’accettazione e l’appoggio della pubblica opinione per le riforme strutturali così ardentemente desiderate per decenni da comunisti e da socialisti. Uno degli obbiettivi di questo studio è stato mostrare quanto sia fallace tale quadro della realtà socio-economica brasiliana, e perciò smitizzare parecchi concetti inculcati in vasti settori dell’opinione pubblica internazionale nel corso degli anni» (p. 149).
Tali concetti o «miti […] frequentemente diffusi in Brasile e all’estero da certi mezzi di informazione», vengono dall’autore sintetizzati ed esposti nei seguenti termini (pp. 149- 153):
l. «In Brasile una minoranza di grandi proprietari possiede tutta la terra, lasciando la maggioranza della gente senza possibilità di accedere a essa e in condizioni miserevoli»;
2. «I grandi proprietari terrieri non lavorano adeguatamente le loro proprietà, nuocendo alla produzione agricola e contribuendo al fatto che la gran massa della popolazione viva nella fame e nella miseria»;
3. «In Brasile vi è una grande disparità nella distribuzione del reddito, che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri»;
4. «L’80% della popolazione brasiliana è sottoalimentata, ed è enorme la percentuale di bambini che muoiono nella prima infanzia, principalmente per mancanza di cibo»;
5. «Il Nordeste è il Biafra latinoamericano, dove migliaia di bambini muoiono di fame. La causa precipua di tale situazione è l’insufficiente distribuzione della terra»;
6. «La riforma agraria diffonderà la proprietà privata e incrementerà la produzione, l’occupazione e il reddito di coloro che vivono nei campi»;
7. «La riforma agraria è un requisito preliminare per lo sviluppo economico. Essa non intende coartare il sistema capitalistico, ma piuttosto permetterne il pieno sviluppo»;
8. «È indispensabile procedere con la riforma agraria e con le altre riforme strutturali — come la riforma urbana e quella commerciale — perché altrimenti vi sarà una rivolta generale delle masse povere, che porterà il Brasile a una rivoluzione sociale con gravi conseguenze politiche, sociali ed economiche».
Nell’appendice al primo capitolo (pp. 57-59) Carlos Patricio del Campo esamina il 1° Plano Nacional de Reforma Agrária, il PNRA, varato nell’ottobre del 1985 dal governo brasiliano e basato sull’Estatuto da Terra del 30 novembre 1964, piano da attuarsi nel periodo dal 1985 al 1989.
Il PNRA afferma che il Brasile possiede 500 milioni di ettari di terra coltivabile, di cui solo 80 milioni attualmente sfruttati. 170 milioni di ettari sarebbero occupati da «latifondi improduttivi», le cui caratteristiche sono così sintetizzate dall’Estatuto da Terra: proprietà agricole in cui la superficie utilizzata è inferiore al 70% della superficie utilizzabile, senza riguardo all’estensione. Secondo l’Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária, l’INCRA, circa il 53% delle proprietà con superficie compresa fra 50 e 100 ettari e il 75-92% delle proprietà con superficie maggiore di 100 ettari sarebbero latifondi improduttivi.
Gli scopi proclamati dal PNRA consistono nel contribuire ad aumentare la disponibilità di prodotti alimentari e di materie prime agricole, avendo come obbiettivo primario il mercato interno; nel rendere possibile la creazione di nuova occupazione nel settore agricolo; nel ridurre l’esodo dalle zone rurali per alleggerire la pressione demografica sulle aree urbane, con tutti i problemi che ne scaturiscono; nell’aumentare i benefici sociali derivanti dagli investimenti pubblici, direttamente o indirettamente correlati con lo sviluppo del settore agricolo; infine, nel promuovere la pace sociale nelle campagne.
La percentuale di terra da ottenersi con l’espropriazione dei latifondi improduttivi dovrebbe essere del 75%, 90%, 95%, 100% e 90% rispettivamente per le regioni del Norte, Nordeste, Sudeste, Sul e Centro-Oeste; la differenza dovrebbe essere coperta con l’assegnazione di terre demaniali. Per avere un’idea delle dimensioni del fenomeno, si pensi che il PNRA prevede, nei primi quattro anni di applicazione, l’utilizzo di 430.000 kmq, di cui 377.000 — pari all’87,7% — ottenuti con espropriazione, di cui beneficeranno 1,4 milioni di famiglie. Poiché complessivamente 6-7 milioni di famiglie beneficerebbero, sempre secondo il PNRA, della riforma nella sua totalità, si può ritenere che l’espropriazione riguarderà 1,6-1,9 milioni di kmq, pari al 40-50% delle terre attualmente di proprietà privata (pp. 110-111). Le indennità di espropriazione saranno mediamente pari al 60% del valore di mercato del terreno e pagate in titoli di stato ventennali, Titulos da Divida Agrária.
La terra verrebbe distribuita a lavoratori agricoli che ne sono privi, e che sarebbero raggruppati in una sorta di proprietà collettiva detta assentamento — termine che sta a indicare la sistemazione provvisoria di lavoratori agricoli in terreni da espropriare —, che fa riferimento allo Stato per quanto riguarda la fornitura di assistenza tecnica e finanziaria.
Le possibili forme di organizzazione interna dei beneficiari saranno unità a livello familiare oppure unità costituite da lavoratori associati.
Come afferma il PNRA, «introducendo sostanziali cambiamenti nelle forme del possesso e dell’uso della terra e delle relazioni di lavoro, la riforma agraria assicurerà la partecipazione democratica degli assentados al suo sviluppo» (p. 58); dunque, non si tratta di una semplice ridistribuzione della proprietà, ma di una vera e propria rivoluzione dei rapporti giuridici ed economici nelle campagne.
Secondo Carlos Patricio del Campo, che nell’appendice al terzo capitolo esamina partitamente gli esempi di El Salvador, Cile, Perù e Messico (pp. 113-119), il PNRA presenta sostanziali analogie con quanto già sperimentato altrove sempre in America Latina. Come negli altri paesi l’impellenza della riforma agraria viene giustificata con le violente occupazioni di terre da parte di lavoratori agricoli indigenti, anche se si tratta di episodi — è il caso di sottolinearlo — molto limitati numericamente, spesso dovuti a motivi diversi da quelli conclamati — per esempio, controversie relative ai confini nelle regioni di recente colonizzazione — oppure creati artificialmente dai movimenti rivoluzionari, e fra essi da certe comunità di base.
I piani di riforma prevedono l’espropriazione di grandi e di medie proprietà dichiarate improduttive; la formazione di una struttura rurale fondata sulla piccola proprietà familiare, su un regime di sfruttamento collettivo — asentamientos, cooperative, proprietà comunitarie — o su sistemi misti dove l’agricoltore gestisce una piccola proprietà per la produzione di quanto e necessario al suo sostentamento e lavora per l’azienda collettiva per la produzione dei beni destinati al mercato; la creazione di un apparato statale per l’assistenza tecnica, commerciale e finanziaria ai beneficiari della riforma; la creazione di nuovi canali commerciali per la distribuzione dei mezzi tecnici, controllati direttamente o indirettamente dallo Stato; e, infine, la formazione di organizzazioni di lavoratori per il controllo dell’applicazione della riforma.
L’espropriazione, riguardante le proprietà realmente improduttive, coinvolge successivamente anche quelle produttive, che ovviamente presentano minori rischi di insuccesso economico.
Quando non sono sfociate nell’instaurazione in tempi brevi di regimi socialcomunisti — come a Cuba e in Nicaragua — le esperienze di riforma agraria hanno fallito gli scopi che si erano proposti. Per far fronte allo scontento popolare i governi interessati sono stati costretti a un parziale ripristino delle condizioni precedenti, con la formazione di una struttura bipartita: un settore, sfuggito alla riforma, che si mantiene efficiente e altamente produttivo, e un settore riformato caratterizzato da una piccola minoranza prospera e da una grande maggioranza che produce esclusivamente per l’autoconsumo e i cui membri lavorano per integrare i propri redditi nel settore agricolo non riformato oppure in città. Durante il processo di riforma, il fallimento economico porta allo scioglimento di molti asentamientos e all’abbandono delle terre da parte di numerosi piccoli proprietari.
Carlos Patricio del Campo fa acutamente notare come evolvano le tematiche dei fautori della riforma agraria — appartenenti soprattutto alla scuola economica marxista — a mano a mano che essa procede.
«Quando raccomandano la sua applicazione, essi pongono l’accento su argomentazioni economiche: incremento della produzione e dell’occupazione, miglioramento della produttività e del reddito e così via. Ma quando valutano i risultati, la loro enfasi si sposta su aspetti alquanto collaterali: miglioramento dello spirito associativo e di partecipazione, coscientizzazione politica, miglioramento dello spirito solidaristico e comunitario, riduzione del paternalismo e così via. La valutazione economica è dunque relegata in secondo piano; inoltre ci si limita a casi particolari, con speciale enfasi sulla riduzione delle differenze di reddito. Quando si viene ai risultati economici globali, essi quasi sempre adducono la giustificazione che l’esperimento non ha avuto tempo sufficiente per produrre tutti i frutti dell’opera. In altre parole, si utilizza un punto di vista economico per raccomandare la riforma agraria, e un punto di vista ideologico, segnato da uno spirito egualitario e socialista, predomina nella valutazione dei risultati» (p. 114).
L’agricoltura brasiliana, contrariamente all’immagine di stagnazione che ne viene comunemente data, riveste un ruolo centrale nell’economia del paese (pp. 49-51, e 123-126). Il Brasile è il primo produttore mondiale di caffè e di arance, uno dei maggiori di canna da zucchero, il secondo di soja, il terzo di mais; e possiede il maggior patrimonio zootecnico mondiale. Il 30% della popolazione attiva è impiegato in agricoltura.
Sebbene solo il 20% della produzione agricola sia destinato all’esportazione, il Brasile e il secondo o terzo esportatore mondiale di prodotti agricoli. Il settore agricolo contribuisce in modo determinante — per circa il 50% — agli scambi con l’estero, consentendo l’acquisto di beni di produzione e di tecnologie indispensabili per lo sviluppo del paese.
Una parte considerevole dei ricavi del settore agricolo viene trasferito al settore industriale e commerciale; nonostante ciò l’incremento di produzione agricola è superiore all’incremento della popolazione. Effettivamente si è registrato un incremento maggiore per quanto riguarda i prodotti per l’esportazione e i surrogati del petrolio rispetto ai prodotti destinati al consumo interno, ma questo non è certo dovuto a un’irrazionale struttura fondiaria, ma alla diversa remuneratività delle colture e a determinate scelte governative, come l’incentivazione delle colture per la produzione di alcool.
D’altro canto, nell’economia moderna è sempre più evidente che, in certe circostanze, è più vantaggioso importare certi prodotti ed esportarne altri che essere autosufficienti a ogni costo, magari con spreco di risorse e, in definitiva, con un calo della disponibilità di beni e una diminuzione delle entrate proprio per quella parte della popolazione che si trova in uno stato di maggiore necessità.
Il fenomeno dell’inurbamento, analogo a quello a cui si è assistito in tutto il mondo industrializzato, deriva dal diverso livello di vita conseguibile nel settore agricolo rispetto a quello industriale e commerciale. Gli squilibri creatisi sono riconducibili all’industrializzazione forzata del Brasile — e alla diretta partecipazione dello Stato in questo processo — piuttosto che alla struttura fondiaria. Va comunque segnalato un significativo flusso migratorio verso le zone di recente colonizzazione agricola, il che dimostra una relativa mobilità della popolazione rurale interessata a perseguire migliori livelli di vita.
Per quanto riguarda la struttura fondiaria brasiliana (pp. 40-49), l’immagine corrente secondo cui la terra, in mano a pochissimi proprietari, non sarebbe accessibile ai lavoratori agricoli, deve essere rettificata.
Anzitutto, negli ultimi decenni si è assistito a una notevole diffusione della proprietà. Stando alle statistiche ufficiali, nel periodo dal 1950 al 1980 la percentuale di proprietari rispetto alla popolazione attiva in agricoltura è salita da meno del 17% al 27%. Significativa è poi la percentuale di proprietari rispetto alla popolazione attiva in agricoltura potenzialmente proprietaria, secondo un criterio approssimativo che ricava tale dato sottraendo dalla popolazione attiva totale la popolazione attiva maschile fra i 10 e i 24 anni e quella femminile: dal 30,3% del 1950 è passata al 49% del 1980.
Dai dati catastali del 1976 si ricava che, su 3.842.235 proprietà rurali, il 74,8% ha superficie inferiore a 50 ettari, il 10,4% ha superficie compresa fra 50 e 100 ettari, l’11,4% fra 100 e 500 ettari, l’1,7% fra 500 e 1000 ettari, l’1,7% ha superficie superiore a 1000 ettari.
Si suole far notare l’altissima concentrazione della proprietà, intendendo per concentrazione la relazione esistente fra una certa percentuale di proprietari e la percentuale della superficie agricola totale in loro possesso: in Brasile, il 50% dei proprietari occupa meno del 3% della terra, mentre meno dell’1% dei proprietari occupa circa il 50% della terra.
Questi dati sembrano abnormi se non li si considera in relazione alla realtà agricola cui si riferiscono: in Brasile si assiste contemporaneamente alla creazione di grandi proprietà nelle zone di recente colonizzazione e al frazionamento delle grandi proprietà nelle vecchie regioni agricole.
Quando le grandi proprietà vengono divise in proprietà medie o piccole, la percentuale di queste ultime rispetto al numero totale aumenta più della percentuale della superficie da esse occupata rispetto alla superficie totale: perciò si assiste all’apparente paradosso di un aumento della concentrazione parallelamente all’aumento della distribuzione della proprietà, almeno fino a che non si raggiunge un certo grado di uniformità nelle dimensioni aziendali.
Estremamente riduttiva è poi, a giudizio dell’autore, la visione in base alla quale la distribuzione della terra è la causa delle attuali condizioni socio-economiche del settore agricolo: infatti, la distribuzione della terra sembra oggi essere piuttosto una risultante di tali condizioni: essa si adatta al diverso grado di remuneratività delle colture, ai mutamenti tecnici che investono il settore, a determinate scelte di politica economica da parte del governo, come l’incentivazione delle colture per la produzione di alcool, che richiedono grandi estensioni, e alla localizzazione geografica.
La distribuzione sul territorio delle aziende per classi di ampiezza mostra che quasi il 92% delle piccole proprietà, cioè di quelle con superficie inferiore a 50 ettari, è situato nelle vecchie regioni agricole come Nordeste, Sudeste e Sul, mentre il 73% delle grandi proprietà, quelle con superficie superiore a 1000 ettari, è posta nelle regioni di recente colonizzazione, come Norte e Centro-Oeste: mentre le prime, infatti, necessitano di infrastrutture sviluppate e della vicinanza dei centri commerciali, le seconde sono proprie di zone prive di infrastrutture, in quanto tecnicamente autosufficienti, dotate dei capitali necessari per gli investimenti primari, spesso rilevanti, e dei mezzi per raggiungere i mercati. Ma, a mano a mano che la «frontiera» agricola avanza e le infrastrutture vengono realizzate, sorgono anche le piccole proprietà.
Secondo il PNRA i «latifondi» vengono suddivisi in «latifondi per estensione» e «latifondi improduttivi». Per quanto riguarda i primi, risulta evidente, a chi abbia una minima dimestichezza con l’agricoltura, che non esiste una relazione inversa fra dimensioni aziendali e produttività; e che, dal punto di vista di una moderna agricoltura, è generalmente vero il contrario, a meno di un evidente squilibrio fra superficie e capitali investiti. Per quanto riguarda i secondi, l’autore contesta i criteri adottati per la loro individuazione. Le modalità di rilevamento utilizzate dall’INCRA, basate sui dati catastali, sarebbero irrazionali, perché, per esempio, non sarebbero escluse dalla superficie agricola utilizzabile le aree ricoperte da foresta all’epoca della formazione del catasto, e inoltre verrebbero considerati non sfrattati i pascoli temporanei e permanenti siti in aziende prive di bestiame, non tenendo in conto il ruolo di tale copertura vegetale per quanto riguarda il contenimento dell’erosione del suolo — specie in terre di recente messa a coltura — e il mantenimento della fertilità agronomica. Le stesse regole di registrazione catastale inducono i proprietari a dichiarare pascoli aree che in realtà non sono economicamente utilizzabili.
A parte queste considerazioni metodologiche, esistono motivi strettamente economici — e quindi non legati a incapacità oppure a cattiva volontà degli imprenditori — per cui si può avere una certa percentuale di terra non coltivata. Non tutti i proprietari hanno uguali disponibilità di capitali di esercizio, e non sempre le condizioni di mercato consigliano di investire a coltura tutto il terreno disponibile. Non e possibile, cioè, perseguire l’utilizzo totale delle terre senza considerare il problema delle eccedenze che si creerebbero influendo negativamente sui prezzi dei prodotti o senza considerare il rapporto fra i prezzi dei prodotti e i prezzi dei mezzi tecnici utilizzati per la produzione.
«[ …] considerando le condizioni brasiliane, non vi è nessuna giustificazione economica per misure espropriatorie o coercitive, che costringano il singolo agricoltore a fare pieno uso della terra potenzialmente utilizzabile in suo possesso. I precedenti chiarimenti dimostrano che il concetto di un “latifondo improduttivo” come presentato nell’Estatuto da Terra e più recentemente nel Plano Nacional de Reforma Agraria (PNRA) non è un concetto tecnico, ma piuttosto un’invenzione tecnocratica che è servita da pretesto per coloro che vogliono imporre una riforma agraria di carattere egualitario conformemente all’utopia socialista» (p. 49).
Il concetto di latifondo improduttivo secondo il PNRA penalizza proprio quegli imprenditori che, con molti sforzi, ingrandiscono le loro proprietà, e che solo gradualmente riescono poi a effettuare gli investimenti necessari alle nuove dimensioni aziendali.
Dopo aver esaminato come il PNRA si propone di ottenere le terre da sottoporre ad assentamento, è necessario ricordare un fatto che viene normalmente trascurato dalla propaganda dei fautori della riforma agraria. In Brasile lo Stato e il maggior latifondista (pp. 38-39), avendo il controllo di una superficie equivalente, se non superiore, a quella in mano ai privati. È particolarmente interessante uno studio — ai cui risultati fa riferimento Carlos Patricio del Campo — sulla disponibilità di terre demaniali, basato sui dati dell’INCRA e della Fundação Instituto Brasileiro de Geografia e Estatistica, la FIBGE. In tale studio si considerano due grandi zone di espansione agricola: una «frontiera recente», costituita dalla regione del Norte e dallo Stato del Mato Grosso, nel Centro-Oeste, e una «vecchia frontiera», costituita dalla regione del Centro-Oeste, eccettuato lo Stato del Mato Grosso, e dallo Stato di Maranhão, nel Nordeste. In queste due zone sono rispettivamente disponibili da 313 a 393 milioni di ettari e da 37 a 47 milioni di ettari, a seconda delle fonti utilizzate. Considerando l’ipotesi più sfavorevole, sono globalmente disponibili 350 milioni di ettari di terre demaniali. Sulla base di studi sulla suscettibilità di sviluppo agricolo di questi territori — considerando anche il problema della conservazione dell’ambiente e della fertilità del suolo — almeno il 35-40%, cioè 120-140 milioni di ettari, sarebbe adatto all’insediamento di piccole aziende, gestite da agricoltori di medio o di basso livello tecnico. Non vi sono ancora dati disponibili per il rimanente 60-65%.
Il fatto che il governo non consideri, se non in maniera marginale, la possibilità di distribuzione delle proprie terre, mette in risalto la volontà confiscatoria e socialista del PNRA.
Si deve anche sottolineare che, se il governo brasiliano fosse sinceramente interessato allo sviluppo agricolo del paese, oltre a rivedere la propria politica economica, avrebbe ben altri campi in cui impegnarsi direttamente piuttosto che in una riforma agraria in prospettiva fallimentare.
In Brasile la superficie irrigabile viene stimata in 50 milioni di ettari, di cui solamente 1,1 milioni, pari al 2,2% del totale, irrigati. Per quanto riguarda il solo Nordeste, secondo studi della Superintendencia
do Desenvolvimento do Nordeste, la SUDENE (pp. 127-128), la superficie potenzialmente irrigabile ammonterebbe a 4,7 milioni di ettari, di cui attualmente solo 122.000 irrigati, e di essi 76.000 per iniziativa privata. Per questa regione, caratterizzata da una densità di popolazione relativamente elevata, e le cui condizioni siccitose portano a uno sfruttamento agricolo particolarmente estensivo, l’irrigazione significherebbe l’intensificazione colturale e la diminuzione del rilevante flusso migratorio.
Da valorizzare sarebbero poi, in tutto il paese, le ingenti vie d’acqua, che, in particolare nelle zone di nuova espansione agricola, consentirebbero ai prodotti di raggiungere più facilmente e convenientemente i mercati (pp. 128-129 e 143-145).
Nel quadro agricolo brasiliano particolarmente svantaggiati si presentano gli imprenditori — proprietari, affittuari e imprenditori associati — che gestiscono aziende di piccole dimensioni (pp. 52-55). Se le stesse dimensioni aziendali, come pure la fertilità del suolo, possono contribuire a deprimere la produttività aziendale, la causa principale del fenomeno può essere individuata in un tipo di gestione arretrata sotto il profilo tecnico ed economico, a sua volta dovuta a particolari propensioni degli imprenditori oppure a oggettive condizioni economiche.
La situazione climatica brasiliana consente di ottenere con relativa facilità quanto è necessario per il sostentamento dell’agricoltore e della sua famiglia; mentre l’agricoltore europeo o nordamericano, dovendo far fronte a condizioni ambientali più severe mediante pratiche agronomiche appropriate e un maggior impiego di capitali, acquisisce necessariamente un discreto livello tecnico e gestionale, questo non avviene per il piccolo agricoltore brasiliano. Piuttosto che impegnarsi in un campo rischioso come quello agricolo, caratterizzato da una notevole incertezza di previsione, costui preferisce produrre il necessario per vivere e aumentare il proprio reddito mediante un impiego salariato in altre attività.
Vi sono poi oggettive condizioni economiche: in primo luogo, lo squilibrio fra i prezzi dei prodotti agricoli — particolarmente di quelli alimentari, che risentono di una certa politica economica — e i prezzi dei mezzi tecnici, che incoraggia un’agricoltura caratterizzata da bassa produttività ma con bassi costi di produzione; in secondo luogo, una carenza di conoscenze tecniche e una scarsa reperibilità di capitali.
Secondo Carlos Patricio del Campo le carenze ricordate non sono dunque da addebitare alla struttura fondiaria, ma a una serie di cause la cui eliminazione, qualora sia perseguibile, dovrebbe essere il fine di una ragionevole politica economica.
La riforma agraria invece, oltre a non risolvere tali problemi, finirebbe per estenderli, aggiungendone di nuovi.
Se l’incertezza creata dal rischio di espropriazione scoraggia attualmente gli investimenti nel settore agricolo, l’applicazione degli stessi criteri nell’individuazione della presunta improduttività incomberà, con gli stessi effetti, sui beneficiari della riforma che gestiranno a titolo privato le terre loro assegnate. Sulle prime si sarebbe portati a pensare che la minaccia di espropriazione possa costituire un motivo, seppur terroristico, di responsabilizzazione degli agricoltori, ma non si deve dimenticare l’arbitrarietà tecnico-economica dei parametri di individuazione di tale presunta improduttività, per cui viene a cadere la relazione fra l’impegno profuso in azienda e la sicurezza di mantenerne il possesso.
Il rimpiazzare produttori con anni di esperienza commerciale con lavoratori agricoli trasformati di punto in bianco in piccoli imprenditori con aziende a dimensione familiare, aumenterà il fenomeno, avvertibile non solo in Brasile, del mancato adeguamento gestionale alla complessa realtà economica e di mercato.
Poiché i piccoli produttori mancheranno generalmente delle risorse necessarie per un’agricoltura aperta al mercato, dovrà intervenire il sostegno finanziario dello Stato ed è ragionevole temere che tali sussidi non saranno utilizzati a fini produttivi, ma si trasformeranno in «salari sussidiari», senza possibilità di restituzione, aumentando contemporaneamente l’indebitamento dei produttori nei confronti dello Stato e il debito pubblico improduttivo.
Alla situazione di incertezza e al calo della produttività farebbe seguito l’evoluzione verso un’economia di sussistenza, con uno spostamento dalle produzioni di pieno campo a quelle orticole e all’allevamento su piccola scala di animali da cortile, con riflessi negativi specialmente sugli scambi con l’estero.
In ultima analisi, la riforma agraria acuirebbe ed estenderebbe lo stato di disagio in cui versano anche attualmente i piccoli proprietari.
Se i beneficiari, poi, aderiranno a forme collettive di sfruttamento dei terreni, un potente fattore di disincentivazione sarà il vedere introitata dallo Stato parte della ricchezza da loro prodotta; e a ciò occorre aggiungere i ben noti problemi di deresponsabilizzazione e di carenza decisionale che affliggono i sistemi socialisti di produzione.
Non è superfluo accennare al calo delle opportunità di lavoro per i lavoratori agricoli salariati, specialmente per quelli temporanei.
«Ricapitolando, la riforma agraria, lungi dal risolvere il problema della povertà nelle campagne, lo aggraverà soltanto, perché le misure proposte non vanno al cuore del problema; cioè esse non migliorano il reddito dell’azienda agricola aumentando la produttività e l’efficienza, specialmente fra i piccoli produttori» (p. 55).
Anche tralasciando gravi motivi di principio, questa serie di perplessità, non solo a livello di ipotesi, ma ricavate dall’esperienza di altri paesi latinoamericani, consiglierebbe quantomeno di far precedere a una riforma agraria estesa a tutto il paese esperimenti localizzati e oggetto di approfondito studio, come richiede ogni progetto di fattibilità; ma a questa misura si oppongono decisamente i suoi fautori.
Temi ricorrenti nella campagna propagandistica di sostegno alla riforma agraria sono quelli della povertà e della sottoalimentazione, che Carlos Patricio del Campo affronta con un ampio supporto statistico e bibliografico, senza per altro negare l’esistenza di realtà miserevoli, ma sforzandosi di individuare la reale portata dei fenomeni in questione (pp. 63-103).
L’affermazione secondo cui in Brasile i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri viene ampiamente discussa. Il Brasile sembra non fare eccezione rispetto alla tendenza secondo cui, nelle prime fasi dello sviluppo di un paese, aumentano le disuguaglianze di reddito, mentre successivamente si ha un’inversione di tendenza. Durante gli anni Sessanta, si è riscontrato un accentuato aumento nelle disuguaglianze, una diminuzione di questa tendenza nel decennio successivo per arrivare a una stabilizzazione nel periodo che va dal 1980 al 1986.
Negli ultimi vent’anni la povertà è significativamente diminuita, se si considerano indicatori quali la diffusione di beni durevoli, di luce elettrica, acqua corrente e servizi igienici nelle case, o la percentuale di alfabetizzazione, che è — secondo dati del 1980 — del 68,7% nell’intero paese, del 78,3% nelle aree urbane, e del 47,9% in quelle rurali.
Per quanto riguarda specificamente la situazione delle campagne, nello stesso periodo vi è stato un incremento nei salari reali per tutte le categorie di lavoratori, anche se il solo esame dei salari può essere fuorviante nel mondo agricolo, dove i lavoratori beneficiano spesso di pagamenti in natura, dell’uso di abitazione gratuito e della possibilità di coltivare in proprio per i consumi familiari.
L’autore cita anche molteplici studi sulla mobilità sociale sia intergenerazionale, comparando lo status sociale di padri e di figli, sia intragenerazionale, considerando la dinamica sociale degli stessi individui: se ne ricava l’immagine di un paese che cambia, con un sensibile movimento sociale ascendente generalizzato dovuto a un rilevante movimento ascendente dei ceti più bassi, che dà origine a una numerosa classe media. In tutto questo quadro risaltano le sacche di povertà nei settori penalizzati dal modello di sviluppo industriale accelerato perseguito dal governo, e nell’ambito di quanti hanno prematuramente abbandonato i luoghi nativi, attirati dalla prospettiva di maggiori redditi in città. Del tutto comprensibilmente questo processo di industrializzazione squilibrato privilegia la poca manodopera specializzata a detrimento dell’abbondante manodopera generica proveniente dalle campagne.
«Abbastanza curiosamente la Comissão Econômica para a América Latina (CEPAL) e settori politici di sinistra furono fra coloro che spinsero di più per questo sviluppo indotto. Essi difendevano la necessità di modernizzare l’economia dell’America Latina e di rimpiazzare il regime paternalista e l’economia tradizionale. Oggi difendono le riforme strutturali come mezzo per risolvere i problemi — divenuti, strada facendo, di proporzioni esplosive — creati dalla politica che essi stessi avevano sostenuto» (pp. 66-67).
Per quanto riguarda il problema alimentare, Carlos Patricio del Campo denuncia una tecnicamente ingiustificata, ma propagandisticamente efficace, sostituzione terminologica per cui ciò che i nutrizionalisti definiscono «rischio di denutrizione» diviene «denutrizione» e successivamente «fame». Si sofferma sul significato da attribuire al «rischio di denutrizione», e sulla possibilità di applicazione indiscriminata degli standard nutrizionali FAO/Organizzazione Mondiale della Sanità o di indici antropometrici studiati per altre realtà che non siano quella brasiliana.
Gli studi più accreditati sulla situazione alimentare brasiliana sono due: il primo, dovuto alla FIBGE in collaborazione con l’UNICEF, si riferisce agli anni 1974-1975, rilevando per la media della popolazione un leggero surplus calorico; il secondo, del 1979, dovuto alla Banca Mondiale, stima che il 17,3% della popolazione — il 10,5% nelle zone rurali e il 21,9% in quelle urbane — si troverebbe in uno stato di rischio di denutrizione.
Anche attenendosi all’ipotesi più sfavorevole e considerando che le medie spesso celano reali situazioni di sottoalimentazione, lo stato appare ben diverso da quello prospettato dalla propaganda di sinistra — compresa quella svolta dagli adepti di certa teologia della liberazione —, secondo cui l’80% della popolazione sarebbe sottoalimentata.
È interessante quanto, nel medesimo studio della Banca Mondiale, si rileva circa l’incidenza delle spese alimentari sulla spesa totale delle famiglie brasiliane a basso reddito: l’acquisizione di beni durevoli, come elettrodomestici e automobili, è preferita al miglioramento della dieta, il che fa tra l’altro supporre una modificazione in senso consumistico del modello di vita, spesso dovuto alla mancanza di educazione.
Spostando l’attenzione dal problema alimentare globale alla denutrizione infantile, che viene dichiarata la causa principale della mortalità in questa fascia di popolazione, si rileva dai dati dell’organizzazione Mondiale della Sanità per il 1984 che, a fronte di una mortalità totale nel primo anno di vita di poco superiore al 4%, la mortalità per cause direttamente connesse all’alimentazione è circa dello 0.15%. Se si ammette che la denutrizione, indebolendo le difese dell’organismo, possa predisporre a stati patologici di altra origine, e altrettanto condivisa dagli esperti la convinzione che molte forme patologiche condizionino l’assimilazione degli alimenti. Il miglioramento dello stato sanitario della popolazione con la creazione di infrastrutture sanitarie di base e con il miglioramento delle condizioni generali di vita — servizi igienici, acqua potabile, educazione alimentare e sanitaria — può perciò avere grandi conseguenze anche sul livello di utilizzazione degli alimenti.
Si devono comunque segnalare i progressi ottenuti in Brasile per quanto riguarda la mortalità infantile — specie quella nel primo anno di vita, passata dall’11,23% nel 1975 al 5,69% nel 1983 — e la durata media della vita, da 41 anni nel 1940 a 60 anni nel 1980.
Il Brasile viene comunemente ritenuto, per le risorse naturali possedute e solo parzialmente sfruttate, un paese suscettibile di un forte progresso economico. Tuttavia il quadro attuale si presenta come poco rassicurante: il debito estero del Brasile è di 100 miliardi di dollari, con interessi annui per 12 miliardi di dollari; l’inflazione è crescente; l’apparato industriale opera al massimo delle sue capacità e necessita di un considerevole incremento nel volume degli investimenti per potersi espandere.
Non è d’altro canto possibile comprendere la realtà economica brasiliana senza evidenziare la presenza dello Stato, sempre crescente dagli anni Quaranta e particolarmente negli ultimi vent’anni (pp. 133-137). Il peso dell’intervento statale diretto in economia è stimato ad almeno il 47% del prodotto interno lordo. A parte il monopolio dei servizi pubblici, lo Stato interviene pesantemente nell’industria chimica e in quella petrolchimica, nell’industria estrattiva, nei trasporti e nella grande distribuzione dei prodotti petroliferi; la sua presenza è rilevante anche nel commercio all’ingrosso e nella distribuzione, settori tipicamente privati. Le privatizzazioni a cui talora si assiste sono di scarsa rilevanza.
Questo impegno diretto dello Stato, date le sue proporzioni, porta a evidenti turbative di tutta la vita economica, dal momento che le scelte delle aziende pubbliche non passano al vaglio del mercato, in quanto le perdite vengono assorbite dal bilancio statale. Gli stessi settori privati preferiscono cercare sussidi e protezioni statali piuttosto che affidarsi al libero gioco del mercato. A ciò si deve aggiungere l’intervento statale indiretto, con uno stretto controllo dei prezzi, che sembra non aver più carattere congiunturale, ma essere concepito come imprescindibile strumento di politica economica.
I mezzi di informazione — non senza una certa benevolenza da parte degli organi governativi — tendono ad addossare la responsabilità dell’inflazione ai settori privati e a colpevolizzare il mercato; si esalta il ruolo dell’economia pubblica nello sviluppo del paese, mentre, al contrario, la principale causa propulsiva dell’inflazione risiede nell’elevatissima spesa pubblica. Ingenti risorse vengono fagocitate in attività che non competono allo Stato quando potrebbero essere destinate a campi di intervento più pertinenti quali l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale.
Le grandi riforme strutturali — agraria, urbana e commerciale — non farebbero altro che contribuire a questo deleterio gigantismo statale. In particolare la riforma agraria può portare solo danni permanenti alla produzione agricola, un peggioramento della bilancia commerciale, una crisi degli investimenti, un aumento del debito pubblico e l’instabilità sociale, proprio in un momento che richiederebbe la massima valorizzazione delle risorse interne, anche per far fronte al grave indebitamento del paese.
«Il Brasile sta attraversando una fase cruciale della sua storia. Deve decidere ora se ritornare a seguire con fermezza il sistema socio-economico occidentale o se continuare a immergersi sempre più in profondità nelle paludi del socialismo in cui è già entrato — un’inevitabile conseguenza della “massiccia e vigorosa” applicazione del Plano Nacional de Reforma Agrária (PNRA), che ha un carattere chiaramente socialista e confiscatorio» (p. 149).
Si deve ritenere che la messa in discussione e la confutazione dei miti correnti sul Brasile, e la conseguente contestazione della imprescindibilità della riforma agraria in questo paese, oltre a fornire ragguagli per l’esame di certi modelli di promozione umana, possa rendere più avvertiti taluni ambienti cattolici e benpensanti che, come rileva Plinio Corrêa de Oliveira nella prefazione, minimizzano la funzione di un anticomunismo dottrinale, riducendo l’anticomunismo stesso — ma non solo quello — alla soluzione di un «problema di stomaci vuoti» (p. 16).
«Sarebbe comunque falso immaginare — aggiunge il prefatore — che la piccola borghesia e la classe lavoratrice optino per la parte comunista e che l’alta e la media borghesia optino per la parte anticomunista. Al contrario, la sinistra avanzata — quando non è comunismo propriamente detto — sta facendo le sua maggiori conquiste principalmente nell’alta borghesia e in grado considerevole — benché minore — nella media borghesia, mentre gli strati più resistenti alle seduzioni e alle pressioni della sinistra si trovano fra la piccola borghesia e la classe lavoratrice» (p. 27). «In altre parole, è ovvio che il problema della contrapposizione tra comunismo e anticomunismo in Brasile non è principalmente un problema di lotta di classe. Al contrario, è prima di tutto un conflitto ideologico» (p. 28).
E il pensatore brasiliano riassume efficacemente le domande che dovrebbero porsi coloro che ritengono la riforma agraria indispensabile per allontanare dal Brasile il pericolo di una rivoluzione comunista: «- In cosa, precisamente, questa struttura socio-economica riformata differisce dal regime comunista che molta gente ingenua chiede sia tenuto alla larga?
«- Anche se vi fosse qualche differenza fra questo modello e il comunismo, questa riforma preverrebbe realmente il comunismo? O condurrebbe piuttosto a una situazione così simile al comunismo da equivalere a una vittoria comunista?
«- Una volta realizzato, si potrebbe impedire che questo regime produca, in Brasile come nell’America Latina in generale, gli stessi frutti che produce nella sfortunata Russia? Quei frutti hanno ridotto la Russia in uno stato di miserabile schiavitù, che il cardinale Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha definito “la vergogna del nostro tempo”» (p. 17).
Paolo Mazzeranghi