Una casa è ben più di quattro mura: è un “ambiente” che esprime la personalità e la storia di chi vi dimora. O almeno dovrebbe, se il nostro tempo (ramingo e frenetico) ci permettesse di viverla e umanizzarla.
di Stefano Chiappalone
Più di una volta ho varcato la soglia di una delle cosiddette “dimore storiche” – palazzi, ville o talora castelli – immaginando di rivederne gli illustri abitanti ripopolare gli ambienti più nobili o più quotidiani, le cui immagini si sovrappongono nella mia mente all’aforisma gomezdaviliano: «Per umanizzare una casa sono necessarie almeno tre generazioni consecutive di una stessa famiglia»1. Ben più di tre generazioni hanno vissuto e lavorato a Rovetta (Bergamo) nella casa-bottega dei Fantoni – dinastia di scultori attivi in Val Seriana dal secolo XV all’inizio del XIX – dove si possono ancora vedere gli strumenti del mestiere che dalla materia informe hanno scolpito e intagliato splendidi angeli, santi, altari e tabernacoli. Molti anni orsono, visitando il palazzo della famiglia Giannini a Lucca, all’aspetto culturale si univa quello soprannaturale: dal 1899, fin quasi alla prematura morte, i Giannini avevano ospitato santa Gemma Galgani (1878-1903) e quelle stesse mura erano state teatro delle estasi della stigmatizzata lucchese. Tuttavia, al netto di abitatori illustri e di fatti eclatanti, mi colpiva soprattutto la sensazione di trovarmi in un “ambiente”: «Quando, talora, entriamo in una sala, ci sembra di sentire la personalità di chi l’ha arredata. Diciamo che costituisce un ambiente. Che cosa vuol dire a questo proposito “ambiente”? È l’espressione dell’anima che, attraverso il gioco delle forme e dei colori, una persona è riuscita a comunicare a oggetti materiali»2.
Una sensazione simile è palpabile anche in dimore meno storiche ma altrettanto vissute. L’ho provata spesso a Pisa nell’accogliente casa di Luca, un professore in pensione che aveva preso a benvolere un gruppetto di (allora) universitari, compreso il sottoscritto. Era solito riceverci nel cuore della sua dimora, in cucina, un piccolo regno avvolto dalle nebbie del sigaro – attributo costante del padrone di casa – in cui elargiva gradite lezioni di storia e di vita con una cultura pari alla sua pungente ironia. Da quando tre anni fa ho saputo che Luca ci aveva lasciati, ogni volta che mi investe una ventata di sigaro si ridesta la nostalgia dei miei anni pisani e mi pare di essere ancora lì, in quella casa che sarebbe superfluo descrivere a chi non ha conosciuto il personaggio. Ciascuno, dunque, pensi alle “sue” dimore: case di nonni e di zii, tinelli e soffitte, credenze, studi e scrittoi, librerie ornate, con pochi ma preziosi volumi, cucine con pentole di rame appese e grandi camini davanti ai quali si tramandavano antichi racconti.
Questo tempo sradicato e ramingo sempre più difficilmente ci consente di vivere e umanizzare un’abitazione. Sarebbe già tanto riuscire a tramandarsi un mobile o un oggetto appartenuto agli avi, qualcosa che faccia da ponte con le precedenti generazioni e ci aiuti a riconciliare la nostra casa con la nostra storia. Qualcosa che rompa la “dittatura del funzionalismo” di appartamenti con più schermi che quadri. Accoglienza, bellezza, spiritualità sono valori “superati”, troppo stabili per i nostri alloggi prefabbricati, talora pre-arredati, componibili, abitati – ma non vissuti – per molto meno di una generazione.
Sabato, 9 luglio 2021
1 Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), Escolios a un texto implícito. Voll. I e II, trad. it., Gog Edizioni, Roma 2021, p. 329.
2 Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Note sul concetto di cristianità, in Innocenza primordiale e contemplazione sacrale dell’universo, trad. it., Cantagalli, Siena 2013, p. 322.