Da La bianca Torre di Ecthelion del 05/01/2018. Foto da articolo
Il mondo intero, antitrumpiano per partito preso, è in brodo di giuggiole per le anticipazioni contundenti dal libro Fire and Fury: Inside the Trump White House del giornalista Michael Wolff, in uscita il 9 gennaio, che l’editore newyorkese Henry Holt and Company ha sapientemente diffuso alla stampa. In esso, l’ex braccio destro del presidente Donald J. Trump, Steven K. Bannon, si è trasformato da pretoriano in gola profonda. Il nodo è il famoso e indimostrato “Russiagate”.
Nessuno però parla di Susie Tompkins Buell, fondatrice della maison Esprit Clothing e amica stretta del clan Clinton, che durante la campagna elettorale del 2016 donò mezzo milione di dollari all’avvocato Lisa Bloom a cui altri 200mila sono stati versati da David Brock, il guru ex conservatore diventato ultra-liberal. La Bloom è l’avvocato dei vip, tra cui il regista accusato di molestie sessuali e noto Democratico Harvey Weinstein. Nel 2016 lavorava con alcune delle accusatrici di Trump per molestie sessuali. La Bloom è pure figlia di Gloria Allred, altro avvocato femminista dei vip e in specie di una delle donne che ha accusato l’ex giudice conservatore Roy Moore di molestie sessuali. A che pro tutti quei dollari? La Bloom li ha impiegati per cercare di “convincere” altre donne a “trovare il coraggio” per denunciare Trump sempre per questioni di sesso. A rivelarlo è nientemeno che The New York Times del 31 dicembre. Solo che per andare a scovare quel coraggio chissà dove una delle interpellate ha chiesto due milioni e le altre nemmeno si sono presentate. Morale, la Bloom ha restituito i soldi ai Clinton trattenute le spese. È qui che una vocina insistente sussurra: “Hillary ne sapeva nulla?”
Strabismi dell’informazione contemporanea. Eppure il “caso Bannon” la sua importanza ce l’ha. Non tanto per il libro di Wolff, quanto per ciò che vi si staglia dietro.
Non è un mistero che dentro l’Amministrazione Trump mal si sopportino due anime. Sfidando il luogocomunismo, le si possono chiamare i “poteri forti” e i “populisti”. I primi configurano quel sistema di condizionamento della vita politica oltre le dinamiche democratiche che risponde a una visione del mondo aggressivamente relativista; i secondi sono quelli che vi si oppongono nel gergo degli alleati mediatici del relativismo. In guerra per il controllo della Casa Bianca, per ora sembra che a vincere ai punti siano i primi.
Prim’ancora di questo dissidio, però, attorno alla figura di Trump si sono scontrate altre armate contrapposte, quelle che compongono il variegato mondo della Destra statunitense. Anche il loro dissidio non è una novità. La novità è che da circa un quindicennio quelle armate si scontrano in presenza di un Partito Repubblicano che è composto per la quasi totalità di personale conservatore (qui detto con particolare attenzione ai “princìpi non negoziabili”). Il che vuol dire che ora quell’antico scontro si produce non solo fuori ma pure dentro il Grand Old Party (GOP, l’altro nome dei Repubblicani) crescendo in violenza e numero delle vittime. Si tratti infatti di una sanguinosa guerra civile, tragica come lo sono tutte le guerre civili.
I conflitti attorno e dentro l’Amministrazione Trump sono dunque due e sovrapposti: quello fra le due anime in lotta per la Casa Bianca, una conservatrice e l’altra no, più la faida fratricida dei conservatori. Le ragioni della seconda, che per motivi evidenti è la più dilacerante, si possono riassumere solo scrivendoci uno scaffale di libri. Quel che riassuntivamente importa qui è che ora stanno tornando al pettine i nodi irrisolti che l’avere voluto, giustamente, fare quadrato attorno al candidato presidenziale designato e poi al presidente eletto, Trump, ha per un po’ mandato in soffitta.
Trump non è mai stato il candidato dei conservatori. Molti conservatori lo hanno votato per ragioni diverse e mai spregevoli anche quando miopi. Molti conservatori lo hanno invece avversato al limite del gesto politico estremo. Questo ha di fatto spaccato un mondo (non solo un partito) che era appena giunto a una coesione importante e che avrebbe meritato più tempo per maturare. Ma, complici i ritmi incalzanti delle scadenze politiche, non è stato così. Per molti versi è stato come dare un mitragliatore in mano a un bambino. Quando Trump ha vinto la nomination alle primarie e poi la presidenza, la grande domanda è stata: che ne sarà dell’allora “giovane” coesione tra i conservatori dopo il passaggio dell’uragano Donald?
A merito oggettivo di Trump va annoverato il fatto che il presidente ha saputo mostrarsi migliore di se stesso mettendosi spesso a disposizione d’ideali nobili più grandi della propria immaginazione politica e dunque propiziando risultati importanti. Ma questo ha semplicemente (fortunatamente, certo) ritardo lo scoppio della bomba.
Innescata dal “caso Moore” in Alabama, adesso la deflagrazione a catena è cominciata, provocando il deragliamento di molte buone intenzioni. Bannon è sempre stato un buono (anche perché odiato dai veri cattivi), ma l’uragano Donald potrebbe spiaggiarlo, se già non lo ha fatto. Di Trump non sta a noi giudicare l’animo, ma finché non verrà colto con le dita nella marmellata la verità sul suo conto bisognerà continuare a dirla sempre tutta intera. I conservatori del GOP che detestano i “populisti” hanno mille ragioni, ma se ragioneranno con la pancia faranno danni. E se i cosiddetti “populisti” continueranno a pensare di essere gli unici puri in circolazione finiranno per diventare catari. La cosa più triste resta che, mentre l’uragano Donald non cala d’intensità, gli avversari di ogni cosa buona, bella e giusta che prosperano nel Partito Democratico restano impuniti e che quelli che si sono accampati dentro la Casa Bianca rovineranno anche il positivo cui Trump è disposto a mettere la firma. La crisi della Destra americana è quasi una costante, è molto grave e ci ricorda che il potere di fare del bene che il Paese più importante del mondo ha in dosi che altri si sognano è taglieggiato più dal peccato dei buoni che dalla tracotanza dei nemici. Poi Bannon nel libro di Wolff dica pure quel che ha detto.
Marco Respinti