Di Cecilia Sala da Il Foglio del 07/09/2021
Kabul. Si sentono gli spari e sono contro il nostro hotel. Colpiscono sei finestre delle camere tra il quarto e il settimo piano. Sono doppi vetri antiproiettile: si fratturano, non esplodono. Bisogna chiudersi in bagno e aspettare di capire cosa fare, se evacuare, come e verso dove. Se nessuno entra, per proteggersi dai colpi che provengono dall’esterno i piani più bassi sono i più sicuri perché c’è una fortificazione che circonda la struttura. Si scende. Non è un attacco all’hotel ma la reazione dei talebani contro chi – in giro per Kabul – ieri mattina ha sfilato in supporto alla resistenza nel Panshir, a favore dei diritti delle donne e contro “l’invasione pachistana” dell’Afghanistan.
La giornata in cui i talebani hanno annunciato il loro governo è cominciata così, sparando proiettili e picchiando le manifestanti con il calcio del fucile. Si è conclusa con il portavoce Zabiullah Mujahid che ha illustrato alla stampa chi ricoprirà quale ruolo, il primo ministro ad interim sarà il mullah Hasan Akhund, che compare nella lista dei terroristi stilata dall’Onu e che era già stato vice primo ministro nel regime talebano vent’anni fa. Il suo numero due è il mullah Baradar, uno dei fondatori, il capo politico e quello che ha negoziato a Doha gli accordi di pace con gli americani. Alla Difesa il figlio del mullah Omar, Mohammad Yaqoob, mentre all’Interno c’è Sirajuddin Haqqani, di quella rete Haqqani che Washington considera un gruppo terrorista. Se davvero qualcuno aveva creduto al governo inclusivo, con le donne e le minoranze: no, non c’è nessun governo inclusivo.
E’ contro di loro che sfilano centinaia di afghani: mentre passano sotto le finestre dell’albergo arrivano i pick-up su cui sventolano le bandiere bianche con i versetti del corano neri stampati sopra. Alcuni talebani sparano in alto (non abbastanza in alto) mentre gli altri arrestano un po’ di gente, a cominciare da quelli con uno smartphone in mano. Manifestano per il Panshir perché – nonostante tutto – non la considerano una partita chiusa. La resistenza disperata ha contato fino all’ultimo su un aiuto esterno: se non gli americani, la Francia, il Tagikistan o l’India. Ma era una scommessa persa in partenza perché nessuno adesso si può permettere di “riattivare” una qualche forma di conflitto da queste parti. Tantomeno gli occidentali: ce ne sono ancora centinaia in Afghanistan e per portarli a casa – insieme ai collaboratori locali che hanno già i documenti – dipendiamo dai talebani.
Per questo quella del giovane Ahmad Massoud e dell’ex vicepresidente Amrullah Saleh era un’illusione, ma gli afghani che odiano i loro nemici – le minoranze nelle zone rurali massacrate dai talebani, così come le donne e i giovani di Kabul – esistono ancora e sono tanti. Nel Panshir il piano iniziale è andato male, ma adesso si cambia strategia. L’obiettivo, dicono dal fronte della resistenza, è sopravvivere e riorganizzarsi in vista di circostanze più propizie. I fattori che potrebbero crearle sono tre. Primo: i talebani stanno facendo i diplomatici perché hanno bisogno della comunità internazionale, e hanno bisogno della comunità internazionale perché hanno bisogno di soldi. Quando i talebani mostreranno il loro vero volto, le popolazioni del nord che non li hanno mai sopportati potrebbero essere più propense ad appoggiare Massoud. Adesso è presto, devono prendere le misure di quello che sta accadendo e aspettano di vedere come si comporteranno davvero gli “studenti”, se manterranno qualche promessa, o nessuna. Secondo. Gli occidentali a oggi non hanno dato alcun sostegno, non è detto che lo daranno in futuro ma è questa la speranza che Massoud e Saleh continuano a coltivare. La premessa affinché questo possa avvenire è innanzitutto che i connazionali da evacuare non siano più qui. C’è poi un’altra questione: se l’Afghanistan tornerà a essere un porto sicuro per jihadisti sparsi per il mondo, allora agli europei e agli americani la tecnologia potrebbe non bastare più, potrebbero servire occhi e orecchie sul terreno e potrebbero essere quelli degli uomini di Massoud. Terzo. La resistenza sa che i talebani non controllano davvero il territorio. Anche se annunciando il nuovo governo il loro portavoce ci teneva a ripetere il contrario, cioè che fosse il primo ad avere davvero in mano tutto il paese. Ma i talebani hanno il problema dell’Iskp – lo Stato islamico della provincia afghana del Khorasan – a est, ci sono ancora i seguaci di Massoud nel Panshir, e quelli rifugiati nella retrovia strategica del Tagikistan. E poi ci sono gli uomini della brigata Fatemiyoun: prendono ordini dall’Iran, ma sono afghani di confessione sciita e alcuni si stanno riposizionando, dalla Siria a Mashhad, la città della Guida suprema e del presidente iraniano. Sono a un passo dal confine con l’Afghanistan e dai territori della comunità hazara sciita contro cui l’Iskp ha condotto molti attentati. L’Iran vuole avere buoni rapporti con i talebani ma di loro non si fida e con la scusa di proteggere gli hazara dall’Isis tiene pronti i combattenti per ogni evenienza. Nessuno resterà a guardare, le variabili sono tante e la guerriglia civile è un’ipotesi da non escludere.
Infine, ci sono tante cose che i talebani non sanno fare. Dalla gestione in sicurezza di un aeroporto internazionale alla gestione del sistema bancario. La fuga dei cervelli che è in corso fa sparire le competenze necessarie a sopperire alle loro lacune. La resistenza crede che si aggiungeranno le proteste degli affamati. Adesso, Massoud e Saleh pensano di aver sbagliato i tempi, non gli obiettivi.
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