di Michele Canali
Il Novecento è stato archiviato come il secolo più orribile della storia. Non sono solo i catastrofisti ad affermarlo, ma è una considerazione ormai unanime. Mai l’uomo ha vissuto tragedie tanto grandi quanto concentrate in un così breve spazio di tempo: due guerre mondiali, la crudeltà delle ideologie comunista e nazionalsocialista, i genocidi di armeni, ebrei, ucraini, quelli in Africa, quelli nell’ex Jugoslavia, quelli in Cambogia, per non ricordare che i principali.
Nel 1937, uno dei massimi geni artistici del secolo scorso, il pittore spagnolo Pablo Picasso (1881- 1973), immortalò con il quadro Guernica, la catastrofe vissuta dalla cittadina basca vittima di un tremendo bombardamento tedesco a sostegno del generale Francisco Franco (1892-1975). Nella tela, si perde la bellezza delle forme, lo spettatore è coinvolto nella disperazione e nella protesta, i colori cedono lo spazio a un monocromatismo malinconico. In breve tempo, Guernica è divenuto il dipinto più significativo del secolo, e per pubblico e critica il miglior manifesto del secolo XXI.
Eppure c’è stato un altro modo per raccontare i drammi di quel tempo.
Marc Chagall (1887-1985), pittore bielorusso ma naturalizzato francese e di origine ebraica, usava dire: «Io sono nato morto». Questo perché nel giorno in cui vide la luce il suo villaggio natale fu attaccato dai cosacchi durante un pogrom e la sinagoga frequentata dalla sua famiglia data alle fiamme. Chagall visse cioè sulla propria pelle quella violenza ideologica che poi ha attraversato tutto il Novecento. Eppure non sono mai stati né il risentimento né la ribellione i protagonisti della sua opera. Anzi, la religione, la Bibbia e l’amore sono la sua costantemente fonte d’ispirazione. Fu così che nel 1938 Chagall, non sentendosi rappresentato da Guernica ha risposto al suo autore spagnolo. Ne è nata la Crocifissione bianca, uno dei suoi capolavori, anche se spesso la critica la trascura. Il quadro confuta, infatti, la sfiducia di Picasso.
È ricco di elementi e di simboli. Anche solo a uno sguardo fugace rivela riassunti tutti i drammi del secolo XX. A sinistra della croce i soldati sovietici di Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili, 1878-1953) mettono a ferro e a fuoco un villaggio ebreo, a destra le fiamme si levano da una sinagoga distrutta. Nella parte inferiore del quadro, un uomo vinee umiliato solo perché è ebreo. Ci sono morti, violenza e devastazioni. La religione ebraica è attaccata e vilipesa: l’Arca dell’Alleanza è spezzata, la Torah è in fiamme.
Al centro, però, campeggia una grande croce bianca a cui è inchiodato Gesù, colto però più nel momento che pare annunciare la risurrezione che in quello della morte. Una grande luce bianca illumina infatti la scena, aprendo una via nella violenza cieca della storia. Anche i colori perdono crudeltà, facendosi tenui e delicati come a voler smorzare la drammaticità del racconto.
Ciò che colpisce è che per l’ebreo Chagall i segni della vittoria non sono ebraici: non è il libro della Legge a sovrastare la malvagità e neanche i precetti religiosi sono l’ancora di salvezza. La speranza è rappresentata invece da un uomo, Gesù, l’ebreo giusto per eccellenza, che per Chagall si fa l’archetipo di un popolo perseguitato e simbolo di ogni martirio. A fianco della Croce una scala mette in comunicazione il piano storico umano e la Croce. Rappresenta la fede, la scala verso il cielo assente nella Guernica picassiana.
È questa la forza del dipinto di Chagall: la centralità che esso dà alla fede, la fede che eleva, che dà un senso al caos è la risposta alla tragedia. La fede conduce a una persona, a un incontro, e la persona per eccellenza è Gesù, che con la propria vita, il proprio esempio e la parola viva pronunciata sa parlare ai fedeli di tutti i tempi e di tutte le religioni. Se dall’orizzonte della vita si toglie la scala che porta il cuore al cielo e gli occhi alla persona di Cristo, si finisce inevitabilmente per risucchiati nel turbinio del dolore e del rancore, e così il disagio e la denuncia rimangono le uniche risposte dell’uomo.