Di Matteo Matzuzzi da Il Foglio del 28/06/2022
Roma. La destra americana non è pronta a capitalizzare la sentenza con cui venerdì scorso la Corte suprema ha rovesciato Roe vs Wade. David French, sull’Atlantic e nella sua newsletter, l’ha scritto sapendo che avrebbe deluso larghe fette di quel movimento pro life americano che pure lo ha visto per decenni protagonista, ma che negli ultimi anni è cambiato, chiuso com’è nel fortino a difesa di princìpi fissi e inscalfibili e assai agguerrito. “Ora Roe non c’è più. Bene. Dovremmo gioire per la sua scomparsa”, invece no, ha osservato. French rivendica il suo attivismo pro life, fin dai tempi del college, dice che nei consultori dove si salvano bambini destinati a essere abortiti c’è il meglio dell’America, ribadisce che per lui Roe vs Wade è stata una sentenza sbagliata. Eppure è proprio su questo tema che gli attivisti pro vita spesso danno il peggio di sé. Pro life e pro choice si stanno fissando e si domandano: “E adesso?”. La risposta dei pro life, secondo French, non può che essere una: “L’impegno per la vita porta con sé un impegno ad amare, a prendersi cura dei più vulnerabili, sia madre che bambino”. Ma qui a dominare sono i toni cupi, odio e morte “e nell’America profondamente repubblicana leggi punitive stanno mettendo i cittadini l’uno contro l’altro”. L’ha scritto sul New York Times anche Ross Douthat: più che la sentenza in sé, che comunque è storica, bisognerebbe concentrarsi sul movimento per la vita, che oggi mette insieme in non pochi casi la lotta contro l’aborto con campagne no vax, in un miscuglio di difficile lettura e analisi.
“Per vincere la battaglia a lungo termine, per persuadere la vasta e inquieta metà del paese, gli oppositori dell’aborto hanno bisogno di modelli che dimostrino che questa critica è sbagliata”, scrive Douthat. “Devono mostrare che le restrizioni all’aborto sono compatibili con i beni che i sostenitori dell’aborto accusano di voler compromettere: la salute delle donne più povere, la prosperità dei loro figli, la dignità della maternità anche quando arriva inaspettatamente o tra grandi difficoltà”. Mostrare il volto duro, quasi sfregandosi le mani per vendicarsi di un cinquantennio di sconfitte, sarebbe controproducente: “Si può immaginare un futuro in cui le leggi anti aborto sono legate a una politica punitiva, in cui le donne più in difficoltà possono subire il controllo della polizia per un sospetto aborto spontaneo ma possono ricevere poco in termini di supporto pre o post natale. Gravi restrizioni all’aborto sarebbero sostenibili nelle parti più conservatrici del paese, ma probabilmente in nessun altro luogo e le prospettive a lungo termine per la legislazione nazionale sui diritti all’aborto sarebbero rosee”.
Anche perché, ha scritto su First Things Gerard V. Bradley, docente di Legge alla Notre Dame University, “sotto un aspetto cruciale, la sentenza di venerdì non si mostra all’altezza: non dice infatti che i nascituri sono persone che godono di un diritto costituzionale alla vita ai sensi della clausola sulla parità di protezione”. Senza questa garanzia, prosegue Bradley, “il nascituro sarà al sicuro nel Mississippi, ma sarà in pericolo mortale in California, che ha dichiarato la sua intenzione di essere ‘un santuario’ dell’aborto’”. Aspetto ambiguo, che si presta a interpretazioni dei tribunali, dove comunque sarà possibile – secondo Bradley – riconoscere la protezione “che meritano come persone”. In ogni caso, la partita resta aperta. Douthat nota che i pro life avrebbero molto da guadagnare, se solo si sganciassero dalla loro versione bellicista, ad esempio cogliendo l’occasione per “modellare nuovi approcci sulla politica famigliare” e contribuendo così a dare un volto più moderato e serio al Partito repubblicano. Utopia? Forse, anche perché è improbabile che dall’altra parte arriverà una mano tesa, considerato che “alcune ridotte del progressismo contemporaneo hanno uno spirito più cupo rispetto all’atmosfera giovanile liberal degli anni Sessanta, in cui il movimento per il diritto all’aborto ottenne tante vittorie. Se Alabama e Mississippi non sono le migliori pubblicità per la visione pro life, nemmeno Seattle e San Francisco” sono necessariamente spot brillanti per il campo opposto.
Robert Royal, direttore del Catholic Thing, è convinto che “quest’isteria liberal durerà poco” e parlare di una sorta di guerra civile è fortemente esagerato: “Sentiremo molte bugie sull’aborto, le donne e la legge ma è molto probabile che i repubblicani conquisteranno ugualmente una larga maggioranza al Congresso con le elezioni di novembre. Biden è molto debole e poco popolare, i democratici hanno abbracciato la gender ideology, che non li aiuta più di tanto. La società americana è divisa e lo sarà anche in futuro”. Per quanto riguarda le polemiche sulla Corte, dice Royal al Foglio, “metà della nazione – non quella che si vede sulla Cnn o che è rappresentata dal New York Times e dal Washington Post – non vede alcun problema in quanto è stato deciso. La Corte suprema ha solo detto che l’aborto non è inscritto nella Costituzione e che quindi non è un diritto costituzionale. Alcuni stati lo permetteranno, altri no. In cosa consisterebbe l’illegittimità della decisione dei giudici?”. Eppure, secondo David French, la questione è seria: “La cultura dell’impegno politico è incentrata sull’animosità. La Chiesa e la vita famigliare si stanno trasformando, con discussioni e divisioni. La sentenza Dobbs (che ha rovesciato Roe vs Wade, ndr) è giunta nel mezzo di una cultura malata e il diritto pro vita sta contribuendo a farla ammalare”. Non sarà di certo la cultura del Make America great again oggi così dominante, chiosa, a fornirle gli strumenti per guarire.