Breve introduzione a vita e pensiero di un lucido anatomista della natura umana che per acutezza di pensiero e capacità profetica meriterebbe d’essere iscritto tra i giganti del Novecento europeo
di Benedetta Scotti
Lo scorso 23 dicembre, parlando ai militari italiani ad Erbyl in Iraq, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha concluso i suoi saluti con un passo tratto da Ritorno al reale, l’opera più emblematica del pensatore francese Gustave Thibon (1903-2001). «L’uomo» – ha citato Meloni – «non è libero nella misura in cui non dipende da niente e da nessuno, ma è libero nell’esatta misura in cui dipende da ciò che ama ed è schiavo nell’esatta misura in cui dipende da ciò che non può amare» (G. Thibon, Retourauréel, § VI “Dépendance et liberté”, 1943).
Ma chi era, si saranno chiesti i più, Gustave Thibon? «Un francese come non se ne trovano più da tre secoli a questa parte»,avrebbe risposto Simone Weil (1909-1943), la nota filosofa che durante la Seconda guerra mondiale, impossibilitata ad insegnare per via della sua ascendenza ebraica, venne accolta proprio da Thibon, erudito contadino dalla vena anarchica, nella sua fattoria del sud della Francia. Tanto rocambolesca e affascinante fu la breve vita di Simone Weil, tanto apparentemente ordinaria e priva di eventi significativi fu la lunga vita di Gustave Thibon. «La mia vita non ha nulla di esemplare e non amo le confidenze pubbliche», scrive Thibon nelle sue memorie (G. Thibon, Au soir de ma vie,Plon, Paris 1993). Ed è forse questa mancanza di spettacolarità, in questa ottusa epoca in cui o si è eccezionali o non si è, che spiega l’immeritata marginalità di cui soffre la figura di questo lucidissimo anatomista della natura umana e delle dinamiche sociali.
Nato il 2 settembre 1903 a Saint-Marcel-d’Ardèche da una famiglia di notabili locali ritornati alla terra, Thibon dovette interrompere gli studi allo scoppio della Prima guerra mondiale per prendersi cura delle terre del padre, chiamato in trincea. Dopo la fine del conflitto, Thibon abbandona la casa paterna sognando di far fortuna nel commercio. Dopo alcuni anni di deludente vagabondaggio tra Gran Bretagna, Italia e Africa settentrionale, Thibon ritorna al lavoro rurale nella terra natia, ritrovando così anche la fede cattolica, abbandonata durante l’adolescenza, e il gusto per lo studio. Apprende da solo il latino, il tedesco, l’italiano e lo spagnolo, leggendo con passione autori come Céline, Proust, Hugo, Baudelaire. Decisivo l’incontro con Jacques Maritain (1882-1973), che lo incoraggerà a scrivere e che gli permetterà di acquisire una discreta notorietà nel mondo intellettuale cattolico d’Oltralpe.
I primi scritti di Thibon, Diagnosi (1940) e Ritorno al reale (1943), vedranno la luce mentre la Francia si ritrova drammaticamente divisa tra il Nord, occupato dai tedeschi, e il Sud, posto sotto il governo di Vichy. Seguirà una feconda produzione, prevalentemente saggistica e tematicamente variegata, da cui emerge tutta l’ecletticità di Thibon, capace di spaziare dalla filosofia alla matematica, dalla scienza medica alla letteratura antica. La cronologia dei saggi esprime l’evoluzione di un pensiero meno veemente nei toni con l’avanzare dell’età, ma sempre profondamente coerente a se stesso, intriso di una viscerale passione per la realtà («[…] niente è più bello, niente è più profondo di ciò che è», in G. Thibon, L’echelle de Jacob. Fayard, Paris 1975). Dichiaratamente ostile alla demagogia egualitaria perché troppo conoscitore della natura umana, Thibon non fu, come vorrebbero certi suoi detrattori, un conservatore segretamente compiaciuto della decadenza contemporanea. Fece suo il motto di Simone Weil, secondo il quale non vi è epoca migliore di quella in cui tutto è andato perduto, non per piangere sterilmente su quello che fu, ma perché è proprio in tale epoca che tutto può essere recuperato. Non vi è infatti traccia né di voluttà, né di rassegnazione passatista nelle critiche che Thibon muove all’uomo del suo tempo. Thibon non è un cantore del passato, è un cantore dell’eterno: «Noi che crediamo alle leggi immutabili della natura umana, non abbiamo nulla di nuovo da portare se non l’eterno» (G. Thibon, Retourauréel, Lardanchet, Lyon 1943).
Eternamente diviso tra nobili desideri e meschine passioni è, infatti, il cuore dell’uomo. Anatomista impietoso dell’animo e dei suoi moti, Thibon rifiuta l’ottimismo antropologico caratteristico di un certo pensiero moderno, che predica la bontà naturale dell’uomo e attribuisce la corruzione morale alle strutture sociali. Tuttavia, quello di Thibon non è un realismo cupamente pessimista: «Non dimenticare mai che l’uomo è uscito dal nulla e non dimenticare anche che è Dio che l’ha tirato fuori da là. La prima di queste verità ti salverà dall’utopia, la seconda dalla disperazione» (ibidem). Quello di Thibon è un realismo cristiano, che rimane aperto all’intervento della Grazia e alla speranza nella redenzione, una speranza senza consolazioni né complicità naturali. Quel che preme a Thibon è infatti la ricerca della verità, nuda e cruda, in tutti gli ambiti dell’esperienza umana: nella ricerca di Dio, nell’amore umano, nelle relazioni sociali e politiche.
Dotato di una vena ironica alla Georges Bernanos (1888-1948) e di un’inclinazione al misticismo alla Charles Péguy (1873-1914), per citare alcuni dei suoi illustri maestri e compatrioti, Thibon non rientra nella categoria dell’intellettuale politicamente impegnato. Né tantomeno volle egli rientrare in quella di maestro spirituale, nella lucida consapevolezza della propria miseria umana. Motivi in più per scoprire o approfondire questo autore, che per l’attualità, la profondità e l’acutezza di pensiero meriterebbe una fama assai maggiore di quella goduta finora.
Martedì, 17 gennaio 2022