Di Valerio Pace da Tempi del 20/01/2020
Imparare a leggere gli eventi della storia, in una sorta di “preveggenza calcolata” intuire quali saranno i problemi che interesseranno la Chiesa e il mondo, quindi studiarne a fondo cause e rimedi e — infine — formare. Formare formatori. È il motto stesso di Alleanza Cattolica a spiegare come sia possibile che un’associazione di laici cattolici che conta circa 400 aderenti possa aver “sfornato” nel corso degli anni una folta schiera di docenti universitari, sociologi, politici, giornalisti. Noti sono nomi come quelli del sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano o del giornalista Massimo Introvigne. Non è un caso che molte personalità cresciute culturalmente in Alleanza Cattolica conducano rubriche di successo in quel popolarissimo (e indispensabile) network radiofonico che è Radio Maria, o scrivano sul mensile di apologetica Il Timone. Fondatore e anima di Alleanza Cattolica, nonché ideatore della casa editrice Cristianità e della rivista omonima, è il piacentino Giovanni Cantoni, classe 1938. «Mi sono convertito — ha detto il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi — dopo aver conosciuto Giovanni Cantoni, una delle dieci persone che hanno cambiato la mia vita». «Ringrazio l’amico Gotti Tedeschi dell’attestazione che mi riguarda — si schermisce Cantoni parlando con Tempi —, ma al sasso, che è stato utile per lastricare la strada, basta e avanza l’esser servito per mettere sulla via verso la meta». Quella di Cantoni è infatti una vita spesa con speciale ardore apostolico a servizio della verità, ma anche come prezioso divulgatore del pensiero cattolico iberoamericano: Plinio Corrêa de Oliveira e Nicolàs Gòmez Dàvila su tutti.
Ciò che Fernanda Pivano ha costituito per certa letteratura nordamericana, lei ha fatto per molti autori iberoamericani. Come si è innamorato di loro?
Rispondo con un verso di Thomas Moore, poeta irlandese vissuto a cavallo dei secoli XVIII e XIX: «Puoi rompere, puoi distruggere il vaso, se vuoi, / ma il profumo delle rose continuerà a restare nell’aria». Ho sentito in quei “vasi”, in quegli autori, il profumo della cultura e della civiltà cristiane “rotte” da cinque secoli di Rivoluzione, e ho pensato di aiutarli a compiere il “quinto viaggio di Colombo” riportandoli a modello dove i loro antenati erano partiti cinque secoli fa.
Benedetto XVI parla spesso di “minoranze creative”. Come non ricordare la rubrica enciclopedica Dizionario del Pensiero Forte, le cui singole voci sono comparse settimanalmente sul Secolo d’Italia dal 1996 al 2000? A fronte del relativismo imperante appare come una tra le vostre intuizioni più controcorrente.
Si tratta di un’”intuizione” che ha avuto un recentissimo “richiamo”, evidentemente indiretto ma non per questo meno forte. Infatti papa Benedetto XVI, a Concesio, in quel di Brescia, l’8 novembre 2009 ha ricordato che «per Papa Montini il giovane va educato a giudicare l’ambiente in cui vive e opera, a considerarsi come persona e non numero nella massa: in una parola, va aiutato ad avere un “pensiero forte” capace di un “agire forte”, evitando il pericolo, che talora si corre, di anteporre l’azione al pensiero e di fare dell’esperienza la sorgente della verità». Poi ha citato lo stesso Paolo VI: «L’azione non può essere luce a se stessa. Se non si vuole curvare l’uomo a pensare come egli agisce, bisogna educarlo ad agire com’egli pensa. Anche nel mondo cristiano, dove l’amore, la carità hanno importanza suprema, decisiva, non si può prescindere dal lume della verità, che all’amore presenta i suoi fini e i suoi motivi». Perciò siamo intenzionati a riprendere questa “intuizione” sulla nostra rivista Cristianità.
E perché non ancora sul Secolo d’Italia? Il “nuovo corso” di Fini c’entra qualcosa?
Profetizzare quanto all’oggi è una pratica evidentemente contraddittoria: se gli uomini sono anche quanto dicono, non saprei con chi concertare la collaborazione di un tempo.
Nel suo recente viaggio a Praga, parlando dell’Europa, Benedetto XVI ha spiegato che questa «è più che un continente», è «una patria spirituale». Alla luce dei suoi scritti sull’identità europea, come spiegherebbe a un ragazzo che l’Europa è molto più di un continente geografico?
Anzitutto gli direi che l’Europa non è un continente geografico, se per continente s’intende — da vocabolario — «terre emerse circondate dall’Oceano». Non trovando l’oceano verso oriente, ripiegherei sulla definizione di «penisola asiatica». Passando poi dalla geografia fisica a quella culturale, ne parlerei come di un luogo caratterizzato da una determinata cultura, una realtà allargata non solo all’Asia Occidentale e Orientale — le Filippine —, ma alle Americhe e all’Oceania, nonché a brandelli d’Africa, insomma a quanto, alla scuola dell’europeista protestante olandese Hendrik Brugmans, chiamo Magna Europa. Quindi, per definire “cultura”, ricorrerei a un’affermazione di papa Giovanni Paolo II secondo cui essa «non riguarda solo gli uomini di scienza, così come non deve rinchiudersi nei musei […]. È, direi quasi la dimora abituale dell’uomo, ciò che caratterizza tutto il suo comportamento e il suo modo di vivere, persino di abitare e di vestirsi, ciò ch’egli trova bello, il suo modo di concepire la vita e la morte, l’amore, la famiglia e l’impegno, la natura, la sua stessa esistenza, la vita associata degli uomini, nonché Dio».
Non a caso il libro che lei ha scritto con Francesco Pappalardo è intitolato Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa: il Vecchio Continente agonizzante può sperare di ritrovare la propria anima grazie a quelle “province” — in primis quelle della Cristianità iberoamericana — che costituiscono una «riserva dello Spirito». È così?
È assolutamente così. Di più: si tratta certamente di riserve preziose per lo Spirito, ma non va assolutamente spregiata la loro dimensione di riserve anche della forza. Quanto a quest’ultima, allo stato essa risiede ancora negli Stati Uniti d’America. Però mi viene in mente quanto dice Dante di «colui che fece per viltade il gran rifiuto». Ebbene, è il caso del governo statunitense in carica — non certo degli americani —, dimentico del fatto che, se la forza del diritto non va contrapposta al diritto della forza, esiste anche un corrispondente dovere della forza. Che cosa avrebbe dovuto fare il samaritano, sulla strada da Gerusalemme a Gerico, se fosse giunto non “dopo”, ma “durante” l’aggressione?
L’8 aprile 2005, alla morte di Giovanni Paolo II, l’arcivescovo Piero Marini dà lettura del Rogito, un testo latino che descrive le tappe della vita del Papa polacco. Sarà Cristianità, rivista di Alleanza Cattolica, ad accorgersi di una singolare manomissione: se nel testo latino si leggeva della «disgregazione dei regimi comunisti di alcune nazioni alla quale ha contribuito lo stesso Sommo Pontefice», nelle traduzioni la parola “comunisti” scompare e viene sostituita da un indefinito “taluni regimi” (13). A freddo, ci commenta quell’episodio?
Prima di ogni ipotesi piccolo-nostalgica di una “talpa”, si tratta di un imperdonabile rifiuto dei fatti, della storia. Risibile, se non potesse anche essere dannoso, perché piuttosto che contribuire correttamente alla conservazione della memoria storica, contribuisce alla sua cancellazione.
Lei è tra i primi firmatari dell’appello al Papa «per un’arte sacra autenticamente cattolica». Mi faccia indovinare: anche lei trova spiacevole girovagare nella chiesa di San Giovanni Rotondo alla ricerca del tabernacolo, anche lei non si arrende all’idea che nella chiesa romana di Tor Tre Teste si preghi una Via Crucis di metallo attorcigliato. Come si potrà sanare il divorzio tra arte e fede?
L’arte, come afferma un grande storico appunto dell’arte, Hans Sedlmayr, può essere considerata anche «come sintomo e simbolo di un’epoca». Secondo papa Pio XII la civiltà cristiana cosiddetta medioevale era caratterizzata dall’unione fra fede e vita, mentre la nostra epoca, al dire di papa Paolo VI, è caratterizzata dalla loro separazione. Non si tratta tanto di epoche e tempi cronologici, quanto di tempi storici animati da diverse visioni del mondo, da diversi modi di vivere. Quindi l’arte rivela l’esistenza di artisti cattolici, soggetti sensibili di un corpo sociale, di un popolo cattolico. E questo popolo, che può produrre artisti cattolici, deve, anzitutto, produrre committenti cattolici, più interessati a buone imitazioni — catturando il senso dell’originale, come nel caso del Neogotico — che a cattive novità.
L’opera di Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, battezza in modo chiaro e forte con il nome di “rivoluzione” molte tappe della storia moderna: dalla crisi protestante alla Rivoluzione Francese, dal comunismo alle progressive degenerazioni del costume. Può considerarsi il “programma operativo” di Alleanza Cattolica?
Anzitutto è esposizione speculare della tesi di Antonio Gramsci: «La filosofia della praxis — scrive il pensatore sardo indicando con questo nome il materialismo dialettico e storico — presuppone tutto questo passato culturale, la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e la economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita. La filosofia della praxis è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale […]. Corrisponde al nesso Riforma protestante + Rivoluzione francese». Come sintesi del programma operativo contenuto nell’opera propongo provocatoriamente un’umile esortazione di santa Francesca Saverio Cabrini: «Seguite le regole della buona educazione, la quale è mezza santità».
La “Contro-Rivoluzione” ha come orizzonte di riferimento la promessa della Madonna a Fatima, promessa che Alleanza Cattolica custodisce con fierezza: «Finalmente, il mio Cuore Immacolato trionferà».
Un orizzonte costituito da una promessa, ma da una promessa condizionata. Comunque — come diceva Joseph de Maistre — «questa Rivoluzione non può finire con un ritorno all’antico stato di cose, che sembra impossibile, ma con la rettifica dello stato in cui siamo caduti».